Zahida, la donna che in Pakistan cambia la vita dei disabili

Zahida Qureshi ha dieci anni, vive in Pakistan e ha una disabilità. Ha avuto la poliomielite e per questo non riesce più a camminare. Se vuole muoversi autonomamente deve gattonare e quando vuole sposarsi per lunghe distanze, solitamente, chiede a suo fratello di caricarla su una bicicletta. Zahida vuole studiare, ma sei scuole le negano l’accesso: la sua disabilità, dicono i responsabili scolastici, rischia di distrarre i compagni di classe dalle lezioni.

Qureshi poi trova una classe che la accoglie, ma durante la giornata non può muoversi dal suo banco perché non ha una sedia a rotelle. Non può scrivere alla lavagna, non può seguire i compagni in cortile. La sua vita inizia a cambiare al college, quando i genitori le regalano la sua prima carrozzina.

Zahida in Pakistan
Zahida Qureshi, venticinque anni, ha fondato una società che aiuta le persone con disabilità ad avere strumenti utili per muoversi. Prima di tutto, carrozzine

Oggi la storia di Zahida è molto conosciuta nella sua città, Multan. Nel 2007, a poco più di venticinque anni, ha fondato una società che aiuta le persone con disabilità ad avere strumenti utili per muoversi. Prima di tutto, carrozzine.

La sua vicenda è stata raccontata dal quotidiano britannico The Guardian. Dopo aver cambiato più di sei scuole, Zahida è effettivamente riuscita a studiare, a ottenere un diploma e poi una laurea in Economia. La sua organizzazione no profit si chiama “Society for Special Persons” e in quindici anni ha prodotto più di 6.000 carrozzine personalizzate, soprattutto per adulti e bambini che come Zahida hanno contratto la poliomielite. In Pakistan la malattia non è ancora stata debellata: nel 2022, ad esempio, i casi segnalati sono stati diciotto.

Alcune delle carrozzine della “Society for special person” vengono realizzate direttamente da chi poi le utilizzerà. La no profit offre infatti alle persone con disabilità la possibilità di partecipare a un corso di sei mesi che ha proprio l’obiettivo di insegnare a costruire in modo autonomo una sedia a rotelle. Al termine delle lezioni, gli studenti portano a casa ciò che hanno creato. Tra loro c’è Wajid Ali, 27 anni, che ha terminato da poco le lezioni. “Con la mia nuova carrozzina potrò gestire il negozio di sartoria della mia famiglia – ha spiegato il ragazzo al Guardian -. Sono orgoglioso di aver imparato qualcosa che può essere utile a tutti coloro che hanno una disabilità”.

Dopo essersi spesa per la produzione di carrozzine, Zahida Qureshi vuole assicurarsi che queste possano effettivamente essere utilizzate. “Quando ero al college non c’erano rampe o elevatori, per me era difficile raggiungere la mia classe, a volte mi capitava di dover saltare le lezioni” ha raccontato l’imprenditrice. Così, nel 2011, Zahida ha lanciato una campagna chiamata “Accessible Pakistan” che ha l’obiettivo di fare installare nelle moschee, nei bagni pubblici e in vari altri edifici le rampe che consentono l’accesso alle persone con disabilità.

La storia di Qureshi, e la sua sofferenza di bambina, l’hanno portata a identificarsi con centinaia di altre persone con disabilità. Il suo ingegno ha fatto il resto.

Emilia Clarke racconta gli aneurismi: «Parte del mio cervello non funziona»

L’attrice cult de Il trono di spade rivive i problemi di salute del 2011 e 2013 durante la promozione del suo spettacolo teatrale a Londra. E commuove il web

Emilia Clarke, diva riservata de Il trono di spade, ha rotto il silenzio sul suo stato di salute. La 35enne britannica ha avuto due aneurismi celebrali nel 2011 e nel 2013, in seguito ai quali ha subito un’operazione. Oggi ha la serenità e il coraggio di condividere la propria esperienza.

Secondo le previsioni mediche e le statistiche, dopo un intervento del genere avrebbe dovuto perdere l’uso della parola. È rarissimo – ha spiegato l’artista – che non ci sia alcuna conseguenza fisica.

Lo ha raccontato al programma Sunday Morning di BBC1 per promuovere il suo debutto teatrale nel West End con The seagull, di cui ha condiviso una foto dopo una lunga assenza da Instagram (l’account vanta 27 milioni di follower) e che ha debuttato a Londra il 6 luglio scorso.

Durante l’intervista Emilia Clarke ha rivelato: «(La malattia) ti permette di cambiare prospettiva. C’è una parte del mio cervello che non funziona più… ne manca un pezzo, il che mi fa sempre fare una risata quando ci penso. In pratica se non arriva il sangue al cervello per un secondo a quella zona dici addio. Certo, il sangue trova un altro percorso per aggirare la situazione ma quello che è perso è perso.

Ad un certo punto mi sono detta: “Questa sei tu adesso. E questo è il cervello che ti è rimasto”. Davvero non ha senso rimuginare in continuazione su cosa sarebbe potuto essere. Comunque riesco a reggere due ore e mezzo di spettacolo ogni notte senza dimenticarmi una singola battuta. Ho sempre avuto una buona memoria, che è l’unica vera qualità che un attore deve avere… quindi la tua memoria è incredibilmente importante e io la metto alla prova continuamente».

In seguito all’esperienza l’attrice ha fondato un’associazione benefica, SameYou, per aiutare i pazienti reduci da ictus o malattie legate al cervello.

Ripercorrendo però i momenti dell’ictus ha ricordato: «Ho provato il dolore più acuto che si possa immaginare ma per fortuna Il trono di spade mi ha tirato su e mi ha dato uno scopo».Ripercorrendo però i momenti dell’ictus ha ricordato: «Ho provato il dolore più acuto che si possa immaginare ma per fortuna Il trono di spade mi ha tirato su e mi ha dato uno scopo».

Dopo Last Christmas, Emilia Clarke ha in cantiere altri progetti: doppia il film d’animazione The amazing Maurice con Hugh “Dottor House” Laurie, per poi abbracciare l’universo Marvel nella miniserie Secret Invasion con Samuel L. Jackson. Si dedicherà alla commedia family sulle difficoltà della vita da genitori in The Pod Generation accanto a Chiwetel Ejiofor (Love actually). Cambia genere, poi, con il thriller politico McCarthy accanto a Michael Shannon.

Probabilmente però per tutto il mondo resterà per sempre la mamma dei draghi, Daenerys Targaryen, uno dei personaggi più iconici del piccolo schermo.

TUTTI AL MARE E I DISABILI? 4 GIOIELLI ITALIANI MA L’ACCESSIBILITÀ È UN MIRAGGIO

Poche le carrozzine speciali e lettini per tetraplegici disponibili nelle spiagge italiane. La storia della Terrazza “Tutti al mare” a San Foca

Tutti al mare Tutti al mare‘ : la canzone di Gabriella Ferri degli anni ’70, diventata un inno vacanziero democratico che fa pensare subito a spiagge affollate, caldo, frittata di maccheroni e cocomero e anche per aggiornarci alla domenica a Cocciadimorto come nella commedia con Antonio Albanese e Paola Cortellesi, è un classico vintage della colonna sonora dell’estate – in un juke box che riporta indietro di decenni, anzi al secolo scorso insieme a Un’estate al mare di Giuni Russo, Sapore di sale di Gino Paoli, Una rotonda sul mare di Fred Bongusto e retrò cantando.

Ma tutti è davvero “per tutti”? ASCOLTA IL PODCAST

La Terrazza Tutti al mare a San Foca
La Terrazza Tutti al mare a San Foca ( Lecce) realizzata dall’associazione Io Posso

Se sono in sedia a rotelle, giovane o anziano, negli anni qualcosa è cambiato: i lidi in tutta Italia cominciano ad avere, non tutti non illudiamoci, l’accessibilità con le discese a mare, alcune volte fanno trovare le carrozzine con le ruote alte di gomma gialla.

Si chiamano Job e permettono di essere condotti sul bagnasciuga, dove Job non significa “lavoro” in inglese ma un napoletanissimo “Jamme O Bagne” (andiamo a tuffarci) perché napoletana è l’azienda che l’ha creata qualche anno fa, la Neatech, rispondendo alle difficoltà dei diversamente abili a bagnarsi in mare in autonomia. Con le Job non ci si affonda nella sabbia e si riesce ad arrivare in acqua. Un bel traguardo.

Ma quante sono? Ancora pochissime nonostante alcune ordinanze stabiliscano che i concessionari di spiagge abbiano l’obbligo di mettere a disposizione dei diversamente abili gli appositi ausili speciali ossia sedie per il trasporto adatte al mare, almeno uno, salvi i casi in cui la morfologia della costa non lo consenta.

Quante carrozzine da spiaggia abbiamo mai visto nei nostri lidi? Davvero poche.
Eppure anche se diversamente abili e persino a maggior ragione, le persone malate e con handicap quanta voglia avrebbero di mare, di scendere in spiaggia e fare il bagno? Quel tutti al mare è un diritto inevaso. Proviamo a pensarci dalla nostra normale abilità quanta sofferenza avremmo se dovessimo privarci di andare al mare.
Parliamo tanto di turismo accessibile e inclusivo ma siamo ancora davvero all’inizio di un percorso.

Questo poi se siamo disabili non gravi. E se avessimo una malattia più condizionante? Se fossimo tetraplegici o malati di sclerosi laterale amiotrofica ad esempio. Come potremmo andare al mare?
In Italia esistono, nell’estate del 2022, solo 4 posti dove malati di questa gravità hanno accesso al mare.

C’è un lido bellissimo pieno di discese a mare, lettini, ombrellone, bagni enormi e pulitissimi dove la persona per nulla autosufficiente e spesso collegata a qualche macchinario viene accudita dopo un bagno nell’acqua cristallina: è a San Foca (Lecce) nel Salento a nord di Otranto, poi docciata, rinfrescata e risistemata. Proprio come una persona comune e abile, cioè quel minimo sindacale che applicato ad un giovane tetraplegico un magnifico miraggio.

In effetti l’attrazione avuta per questo spazio di spiaggia è stata proprio per il comfort, la bellezza di questo lido, un’attrazione da strabuzzare gli occhi, appunto come per un miraggio.
Come è possibile? Non bisogna rassegnarsi, se vogliamo chiamarci civili.

Damiano uno dei quattro coordinatori della ‘Terrazza Tutti al mare – liberi di essere felici‘ prima di raccontare la storia di questo era impegnato al telefono a ricevere prenotazioni da tutta Italia e perfino dall’estero, persone che durante l’estate arriveranno in zona proprio per quello che offre questo stabilimento gestito dall’associazione.

E’ tutto completamente gratuito – sottolinea Damiano – e noi siamo tutti volontari”. Questo avamposto di civiltà è nato da un caso doloroso, una storia di sla  e di amore verso il mare. Gaetano Fuso, un giovane salentino, amante del mare, poliziotto di professione e di stanza a Roma, è stato colpito a 37 anni dalla Sla. Con determinazione vedendo le sue condizioni neurodegenerative e invalidanti peggiorare ha riunito un gruppo di amici e li ha impegnati a realizzare il sogno: immergersi ancora in mare nonostante la dipendenza da dispositivi medici salvavita.

E’ nata così l’associazione Io Posso che ha portato nelle acque di San Foca persone tracheostomizzate e non solo fare il bagno al mare in piena sicurezza. “E’ la nostra ottava stagione balneare – prosegue con orgoglio Damiano – Gaetano è morto ma il suo sogno si è avverato: un accesso al mare libero e attrezzato per l’uso di persone affette da disabilità anche molto gravi. Qui c’è personale specializzato, box infermieristico, postazioni super accessibili, gazebo dotato di colonnine per l’energia elettrica per  i macchinari. Ad aiutare i volontari ci sono a rotazione poliziotti delle fiamme gialle, in onore del loro ex collega. C’è il supporto della Asl di Lecce, della città di Melendugno e dell’associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica“.

Sofao

Oltre alla Job ci sono altri ausili speciali  come la Sofao un lettino per tetraplegici che dalla spiaggia va in acqua e consente il bagno al mare per le persone costrette a vivere a letto, insieme al lettino scende in acqua anche un piccolo canotto dove vengono posizionati i macchinati e i tubi per chi deve restare attaccato per respirare. Si possono fare donazioni, bomboniere solidali, 5 per mille e altre modalità di sostegno.

Quanti posti ci sono così in Italia? “A Sant’Antioco in Sardegna con l’associazione Le Rondini, a Punta Marina a Ravenna con l’associazione Insieme a te e da questa estate anche a Gallipoli in Salento presso l’ecoresort Le Sirenè che ci ha messo a disposizione uno spazio per duplicare l’esperienza di San Foca“. Quattro lidi in tutta Italia per disabili gravi, questo il totale ad oggi. Si rischia un ghetto? “Purtroppo – ci risponde Damiano – non lo vogliamo noi, nello stabilimento accanto villeggianti hanno persino chiesto di coprire in qualche modo lo spazio per non vedere i malati“. (Ansa.it)

Oscar De Pellegrin: «Io, primo sindaco con disabilità d’Italia»

59 anni, ex atleta paralimpico, è stato eletto al primo turno con la coalizione del centrodestra. Esattamente 38 anni fa l’incidente che gli ha cambiato la vita

14 giugno 1984: un incidente sul lavoro lo porta a guardare il mondo da una sedia a rotelle. Trentotto anni esatti dopo si riprende ogni cosa, partendo dalla fine per arrivare all’inizio. Oscar De Pellegrin, 59 anni, ex atleta paralimpico, è il primo sindaco con disabilità d’Italia.

Quando accadde avevo vent’anni e pensavo fosse la fine“. Invece era l’inizio. Di un percorso che lo avrebbe portato a viaggiare – rigorosamente su 4 ruote – lungo i sentieri dello sport, del sociale, dell’associazionismo, dell’ambito dirigenziale. Fino a diventare sindaco di Belluno. A chi, da subito, le ha chiesto come avrebbe fatto, ha risposto: «Sono pronto». 

Oscar De Pellegrin Sindaco Belluno

Pronto ad una politica più inclusiva?
«Sono pronto a costruire una città più matura nell’accettare la diversità e il disagio».

A sorpresa non è servito neppure il ballottaggio. Cosa pensa abbia convinto i bellunesi?
«Me lo sono chiesto anch’io. Penso da un lato la mia lealtà, la linea non bellicosa che ho sempre voluto tenere, dall’altro la voglia di cambiamento. Sento di essere portatore di modo nuovo di fare politica e amministrazione»

Trentotto anni fa esatti l’incidente: cosa ricorda?
«Ricordo tutto nei minimi particolari, fa parte di me. È l’incontro con un destino che non ho scelto ma ho dovuto accettare prima di scoprire quante porte di meraviglia poteva aprirmi. È incredibile ma quella tragedia, per me, è stata un trampolino».

Le ha aperto le porte dello sport, facendola diventare campione sia nel tiro con l’arco sia nel tiro con la carabina e nome di punta in 6 Paralimpiadi. Poi i ruoli da dirigente all’interno di Coni, Cip e Fitarco e oggi la politica. La sua lista, pur civica ma di orientamento centrodestra, ha espugnato un comune al centrosinistra. Cosa risponde a chi ha accusato il suo concittadini di voto buonista?
«Ho sempre avuto rispetto per gli avversari, anche se ne ho ricevuto meno. Credo che non servano tante parole, saranno i fatti a dire chi sono come sindaco».

Che cos’è l’ascolteria?
«Dopo due anni di pandemia senza vita sociale, le persone vogliono essere ascoltate. Così ho immaginato un luogo dove la gente potesse raccontarci problemi e portare idee. Un po’ sfogatoio, un po’ luogo di proposte concrete».

Come immagina la città del futuro?
«C’è molto da fare, creare una città per tutti significa pensare non solo a chi come me è in carrozzina ma anche alla mamma col passeggino, al nonno con il bastone».

E la casa delle abilità?
«Un sogno che ho in mente da tempo. Il primo problema di chi vive con una disabilità fisica o psichica è la solitudine. Una struttura che crei interazione tra chi è svantaggiato è un passaggio di indipendenza e di felicità essenziale».

Lei sarà il sindaco delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi Milano Cortina2026. Cosa chiederà al Comitato?
«Belluno in quanto capoluogo deve essere coprotagonista di questo evento».

Bebe Vio, Alex Zanardi e ora Oscar De Pellegrin. Figure dello sport che hanno un impatto sempre più forte sulla società. Cosa vi accomuna?
«La voglia di vivere, il coraggio di non fermarsi, lo scegliere di non rassegnarsi al destino».

Dedica la sua vittoria a qualcuno?
«A mia moglie, la mia forza e la mia bussola». (vanityfaire.com)

CAP 90036: La storia di Rita diventata Caregiver improvvisamente

“CAP 90036” è una rubrica dedicata alle vostre “lettere“. La storia di questa settimana è tratta dalla lettera che ci ha inviato Rita che improvvisamente da nipote è diventata caregiver della zia. Parola, caregiver, che come lei stessa racconta sconosceva.

Mi chiamo Rita, ho 41 anni e vorrei raccontarvi la mia esperienza. Non avrei mai immaginato che la vita della mia famiglia potesse cambiare così radicalmente. Fino a l’anno scorso non conoscevo nemmeno l’esistenza della parola “caregiver” e adesso lo sono diventata.

Tutto inizia ad aprile 2021 quando noto dei cambiamenti di personalità in mia zia di 68 anni. Urla sempre più spesso e reagisce in maniera spropositata a quelli che in realtà sono solo dei piccolissimi problemi. Col tempo tutto ciò si accentua ma imputo il problema alla morte di sua madre, ovvero mia nonna, pensando sia una normale reazione al lutto, fino a quando insieme a mia madre non chiediamo aiuto ad un medico.

Dopo varie cure rivelatesi inutili, si procede a un ricovero dal quale emerge una demenza vascolare. A distanza di un anno la sua situazione è notevolmente peggiorata tanto da doverla trasferire in una struttura che le assicuri cure più adeguate di quelle che possiamo offrirle noi.

Caregiver

Non avrei voluto tutto ciò e nonostante la nostra vita nell’ultimo anno si sia fermata per aiutare mia zia, avrei preferito tenerla in casa con me. Adesso soffro della sindrome di burnout del caregiver essendo stato per me troppo impegnativo il carico morale e fisico di prestare assistenza a mia zia ormai diventata aggressiva a causa della malattia.

Vederla cambiata provoca in me una forte sofferenza. Notare che dimentica gli avvenimenti recenti mi distrugge. Non lo accetto. In questo doloroso cammino siamo state aiutate da un medico che continuerà a seguire mia zia nella sua struttura privata.

Fortunatamente c’è stato lui al nostro fianco. Ci saremmo sentite molto più sole e confuse senza il suo aiuto. Spero che anche le altre famiglie trovino qualcuno disposto ad aiutarle perché tutto ciò non si può affrontare da soli.

Non sentiamo di avere risolto la situazione, perché effettivamente una soluzione non c’è e ci vorrà del tempo per metabolizzare ma l’importante è il benessere di mia zia. Il resto credo verrà da sé.

Per le vostre lettere a CAP 90036 scrivete a lavoriamoinsiemeblog@gmail.com o la sezione “Contatti” del blog. Grazie.

Parole di Carta: La forza di non mollare

Se c’è un problema, c’è la sua soluzione – Rubrica a cura di Antonella Carta – Insegnante/Scrittrice – Questa rubrica si propone di passare in rassegna alcune delle piccole-grandi difficoltà del quotidiano di persone con disabilità e, anche con la collaborazione di chi ci è già passato, proporre una strada, senza la pretesa che sia la soluzione
Testimonianza di forza di una donna che ce l’ha fatta

Il quotidiano di una donna è in genere fitto d’incombenze: casa, lavoro, famiglia e quant’altro.
Non è sempre facile poter gestire tutto, incastrare gli impegni con precisione millimetrica e farlo mantenendo comunque una certa serenità.

Le cose si complicano se interviene un imprevisto, soprattutto se si tratta di qualcosa di importante come una malattia.

Allora in molti casi, guardandosi indietro, si capisce che la vita condotta fino a quel momento, sia pur caotica e magari stressante, non è nulla rispetto al presente e si sarebbe potuta affrontare anche con meno ansia da prestazione.

Qualcuno tra coloro che ci sono passati racconta che nel periodo immediatamente successivo alla scoperta della malattia non ci si rende immediatamente conto di ciò che si sta per affrontare.Qualcuno tra coloro che ci sono passati racconta che nel periodo immediatamente successivo alla scoperta della malattia non ci si rende immediatamente conto di ciò che si sta per affrontare.

Doriana, una donna, una mamma, un’amica, racconta: “Quando mi hanno diagnosticato il tumore, all’inizio era come se stessi guardando un film, come se la cosa non mi riguardasse direttamente. Le prime lotte cominciano subito, nella ricerca del medico giusto, del centro migliore, nelle prenotazioni e nelle liste d’attesa. E’ come stare in un sogno e tutto è un’incognita. Procedendo con gli esami, si inizia a capire la gravità e allora il primo pensiero va alle persone amate, in primo luogo ai figli se ne hai. Ricordo che prima dell’intervento feci dei regali a ciascuna delle mie figlie e le affidai a persone vicine nel caso qualcosa fosse andata storta.

Come affrontare una situazione del genere senza lasciarsi travolgere dagli eventi e mantenendo la forza e la determinazione per cercare di tornare a star bene? Non ci sono purtroppo ricette valide per tutti, ma ci auguriamo che riportare la testimonianza di una donna che è riuscita a venirne fuori ricostituendo la propria vita possa essere d’aiuto ad altri.

IL CONSIGLIO

I momenti peggiori sono stati quelli successivi ai vari cicli di chemioterapia – aggiunge Doriana – Mi chiudevo in camera giorno e notte, qualunque stimolo mi faceva star peggio. Non appena mi sentivo meglio, mi precipitavo in cucina, cucinavo e mangiavo di tutto. Tutto sommato, il ricordo di quei momenti di sollievo riesce a farmi sorridere, così come l’immagine delle piante del giardino che vedevo quando finalmente mi decidevo ad aprire le persiane e mi sembravano sempre più verdi e brillanti.

Forza delle donne

Riscoprire la bellezza di ciò che di solito si dà per scontato. Un disagio non indifferente, soprattutto per una donna, è l’inevitabile perdita dei capelli che la chemio provoca. Anche in questo caso, cercare dentro di sé lo spirito giusto può fare la differenza.

Doriana ricorda: “Scelsi di tagliarli molto corti per non affrontare il trauma di vederli cadere a ciocche. Mi procurai dei turbanti colorati che mettevo in modo che una parte mi cadesse sulla spalla a mo’ di coda. Ne avevo di vari colori e li abbinavo ai vestiti. In qualche modo diventò un vezzo, m’illudevo di avere i capelli lunghi, incoraggiata anche dal fatto che chi m’incontrava e non sapeva della malattia mi faceva i complimenti per l’estro.

E’ importante anche avere un progetto, un sogno da custodire, programmarne la realizzazione quando la tempesta sarà passata. Proiettarsi nel futuro con un obiettivo da realizzare.

Nelle pause mi dedicavo alla stesura del mio libro-testimonianza Spenderò il mio capitale in cielo e appena sono stata un po’ meglio sono tornata in palestra da allieva, io che ero sempre stata un’istruttrice di fitness musicale. Il pensiero di tornare al mio lavoro mi spaventava, non sapevo se sarei stata in grado dato anche il fatto che le cure mi avevano modificato il fisico. Inoltre avevo già 42 anni e anche questo non giocava a mio favore. Una volta, in un momento di crisi lanciai contro il muro i libri sul pilates che tenevo a casa.

Anche chi ha una buona capacità reattiva, come la nostra amica, può avere momenti in cui si viene sopraffatti dallo scoraggiamento.
Che fare in questi casi? Mollare può sembrare la soluzione più a portata di mano quando le battaglie sono troppo dure e sfiancano.

Eppure: “Per caso mi accorsi che nella palestra che frequentavo c’era una sala aerobica libera e, un po’ per gioco, iniziai a intrattenere alcune delle mie compagne di corso. In breve riuscii a ricostituirmi un gruppo di allieve e da allora, un passo alla volta, ho continuato nel mio cammino d’istruttrice e di mamma, ho gradualmente recuperato le forze fisiche e mentali e rimesso in piedi la mia vita. Oggi ho una mia palestra dove insegno pilates e il mio lavoro continua a essere per me fonte di forza.”

Nei momenti in cui si sta peggio è inevitabile dover affidare la cura dei figli più piccoli ad altri. E’ possibile poi recuperare appieno il rapporto? Come procedere?

A me è successo di riavvicinarmi alle mie figlie riprendendo un po’ alla volta a fare per loro ciò che facevo prima della malattia: cucinare, accudirle, accompagnarle a scuola. E’ così, riprendendo la routine quotidiana a piccoli passi, evitando di colpevolizzarmi per i momenti in cui non avevo potuto esserci, e cercando di dare di me tutto ciò che potevo, che la mia vita ha ripreso il proprio percorso.

(Non sconfiggerai mai la mia anima)

Per concludere, Doriana ci dice che secondo lei tra le cose più importanti rimane la capacità di chiedere aiuto quando se ne ha bisogno e lasciare che al proprio posto entrino altre figure che provvisoriamente possano svolgere i nostri compiti. Se si semina bene, al momento del bisogno qualcuno disposto ad aiutarci si trova.

CAP 90036: La rinascita di Nadia, da disabile a influencer

“CAP 90036” è una rubrica dedicata alle vostre “lettere“. La storia di questa settimana è stata raccolta da Rosanna Ingrassia
Mi chiamo Nadia ho una disabilità fisica molto evidente. L’ho sempre combattuta, non la volevo accettare e questo mi portava a limiti ancor più grandi. Non mi rendevo conto che con gli strumenti giusti (rifiutando addirittura le protesi) sono cresciuta sempre con il pregiudizio addosso. Tutto era un “no”, “non puoi riuscirci”, “non fa per te”. E tutti quei no si erano radicati in me.

Non mi sono mai mancati gli amici, l’affetto di una famiglia, di quello ne ho avuto e continuo ad averne a dismisura. Mi mancava però la grinta, quella che da piccolina mi faceva emergere nonostante la mia situazione. Poi ho deciso finalmente di fare qualcosa per me, di abbracciare la mia condizione e di accettarla chiedendomi “cosa posso fare per migliorare”?

Così ho deciso di rifare la protesi alla gamba, perché avevo un obiettivo comune a tutte le donne: indossare i tacchi. Quando arrivai al centro ortopedico Roga la prima persona che incontrai fu Rosario che mi accolse subito con enorme entusiasmo facendomi sentire subito a casa. Ricordo ancora che mi chiese quale fossero i miei obiettivi e gli dissi subito che volevo indossare i tacchi e lui un po’ titubante accolse la sfida.

Ho iniziato, quindi, anche un percorso ortopedico riabilitativo circondata da straordinarie persone che mi hanno mostrato tutte le possibilità che in realtà avevo e non più i miei limiti. Sono state giornate che porterò per sempre nel mio cuore fatte di tante risate, tanto lavoro, scherzi e soprattutto tanto affetto che mi hanno permessa di acquistare fiducia in me stessa con la consapevolezza della mia unicità ho imparato ad amarmi.

Nadia

Adesso mi sento completa, mi vedo più donna e cerco ogni giorno di incoraggiare gli altri attraverso i social, per valorizzare i propri punti di forza. Poi casualmente nel mio cammino entra la mototerapia, faccio parte anche di una associazione che si chiama “MOTORLIFE” diventandone addirittura vicepresidente.

Sembra assurdo (non ci credevo nemmeno io) che moto e disabili potessero incontrarsi e buttare giù ogni barriera con il solo scopo di portare un po’ di sorrisi e, perché no, anche un po’ di forza a quei bambini che ad oggi lottano contro brutte malattie. Nel frattempo mi diverto in moto anch’io!

Oltre al motocross un’altra mia grande passione è il fitness, altro grande obiettivo raggiunto alla grande visto la mia disabilità. Per tante persone era impossibile fare palestra ma ci sono riuscita. Voglio trasmettere il messaggio che lo sport deve essere di tutti e nessuno lo dovrebbe ostacolare.

Sogno di far parte del mondo della moda per portare un’altro modello di femminilità, scardinare quello di perfezione affinché ogni donna possa sentirsi bella e a proprio agio con il proprio corpo. Sono un’amante del make-up e dell’estetica femminile. Per me è molto importante mostrare che, a prescindere di una disabilità, si può essere comunque belle e femminili valorizzando i propri punti di forza.

Oggi mi sono costruita un vero e proprio lavoro nel settore della comunicazione diventando una vera e propria Influenzer che cerca di fare sensibilizzazione sul tema disabilità e cerca di dimostrare che nulla è impossibile. Ho iniziato a utilizzare i social network come Instagram e TikTok e ho capito che le persone sono molto sensibili a certi argomenti. Pensate che su TikTok ho raggiunto e superato 500000 followers ricevendo anche i complimenti da una certa Chiara Ferragni.

Oggi so che la mia storia può aiutare tanta gente a rialzarsi a vedere nuovamente una speranza. E di questo ne sono felicissima.

La rinascita di Nadia – Rosanna Ingrassia

Per le vostre lettere a CAP 90036 scrivete a lavoriamoinsiemeblog@gmail.com o la sezione “Contatti” del blog. Grazie.

A muso duro, guardare oltre la disabilità

Una storia di grande umanità quella raccontata da Marco Pontecorvo e Flavio Insinna nel film tv ispirato alla figura di Antonio Maglio, medico dell’Inail ed inventore dei Giochi Paraolimpici

Affrontare la vita a muso duro con lo sguardo dritto e aperto nel futuro, così come cantava Pierangelo Bertoli. Questo il messaggio che il film tv A muso duro, andato in onda qualche sera fa su RaiUno, ha voluto mandare agli spettatori, disabili e non, nella speranza di riuscire ad arrivare alla sensibilità delle persone.

Roma, 1957. I disabili sono destinati a rimanere relegati ai margini della società, ad essere abbandonati a se stessi nei cronicari e con alte probabilità di morire. A riportarli alla vita sono il dottor Antonio Maglio, professionista stimato, e la sua idea rivoluzionaria: organizzare, in contemporanea con le Olimpiadi, una manifestazione sportiva in cui i disabili possano dimostrare al mondo le loro straordinarie capacità.

Antonio Maglio ha rinunciato a fare il medico praticante dopo l’improvvisa morte di suo figlio dovuta ad una meningite fulminante. Non ha però abbandonato del tutto la professione: ogni giorno si dedica alle pratiche burocratiche per garantire ai giovani infortunati la pensione di invalidità.

A muso duro

A scuoterlo è l’incidente di Michele, un ragazzo di appena diciotto anni che dopo essere caduto da un’impalcatura ha riportato una grave lesione al midollo spinale e non potrà più camminare. All’epoca non esistevano strutture riabilitative adeguate ma Antonio Maglio era dell’opinione che le cose dovessero cambiare. Il suo intento era dimostrare che tornare a vivere dopo aver perso l’uso delle gambe fosse possibile.

Intraprese così un percorso non facile in cui si fece molti nemici e si trovò davanti a tante porte chiuse, ma con il sostegno dei suoi colleghi e della sua futura moglie inaugurò Villa Marina, la prima struttura in cui i giovani disabili venivano accolti da un sorriso e non da una siringa di morfina.

Inizialmente la loro condizione invalidante era motivo di resa ma allo sconforto e al pessimismo subentrarono la speranza e la fiducia nel dottor Maglio. Ai ragazzi la forza di volontà e la tenacia non mancavano e queste qualità gli permisero di partecipare alle prime Paralimpiadi della storia.

Per Antonio Maglio lo sport non era un fine, ma il mezzo per arrivare alla piena integrazione delle persone con disabilità nella famiglia, nella società, nel lavoro. In Italia le persone con disabilità che soffrono di gravi limitazioni che impediscono di svolgere attività abituali sono oltre 3 milioni e ancora oggi vengono guardati con compassione o peggio ancora con pietà e disgusto. Per di più le barriere architettoniche sono tutt’altro che sparite. Ma come direbbe Cesare Cremonini per quanta strada ancora c’è da fare, amerai il finale. (Rielaborato da colibrimagazine.it)

CAP 90036: Gabriella e la Stalattite-Eccentrica

Mi chiamo Gabriella e vivo a Bologna da più di vent’anni e racconto la nostra vita quotidiana con Isabella, ragazza autistica di 24 anni.

Qualche anno fa, quando Isabella stava per compiere 18 anni, ho avuto paura. Più paura di quanta ne avessi avuta negli anni precedenti, perché sapevo che, oltrepassata la linea della maggiore età, avremmo perso inesorabilmente molte risorse, molte persone, molti luoghi, molte cose e quindi avremmo perso la rete che fino ad allora ci aveva sostenuti.

Mi hanno proposto di visitare i luoghi che ospitano adulti con disabilità (il futuro prospettatoci per nostra figlia).
Nonostante tutta la fatica affrontata in questi anni e i numerosi progressi di Isabella, in quel preciso momento è diventata evidente: L’ AMPIEZZA DI CIO’ CHE MANCAVA RISPETTO A QUANTO DA NOI FAMILIARI OTTENUTO.

Allora ho pensato: “Che cosa posso fare?” ed è iniziato un cambiamento. È avvenuta quella che io chiamo un’evoluzione che è iniziata dall’interno. Dall’interno della nostra casa. Ho pensato che se fossi riuscita ad integrare Isabella all’interno della nostra vita quotidiana avremmo avuto la vita un po’ più facile.

Gabriella e Isabella
Isabella e Gabriella

Per farlo ho iniziato una lotta costruttiva per riuscire ad interrompere le sue stereotipie (all’inizio anche solo per pochi secondi) e costruendo, all’interno di quelle interruzioni, apprendimenti che fossero assolutamente contestuali, (sia riferiti) al luogo, (sia riferiti) all’età, (sia riferiti) al contenuto.

Abbiamo iniziato la costruzione della nostra quotidianità con Isabella dallo smantellamento, passo dopo passo, dei comportamenti stereotipati: adesività, ritualismi, procedure e controlli, messi in atto ogni giorno da Isabella e che da sempre, hanno costituito la sua e la nostra prigione.

La sfida era interrompere le sue stereotipie e inserire all’interno di quello spazio temporale abilità che avessero la caratteristica di essere assolutamente contestuali e inerenti all’età anagrafica, perchè fossero davvero significative.
Ho iniziato a raccontare il presente per immaginare e costruire il futuro.

Abbiamo così deciso di recuperare il materiale raccolto tra il 2014 e il 2019 e raccontare la nostra storia per condividerla con la comunità. Nel corso della vita di Isabella abbiamo sempre lavorato per una vita di qualità e con l’ausilio dei video raccontiamo ad esempio il raggiungimento dell’autonomia durante la colazione.

Un progetto di narrazione della vita di Isabella chiamato “La Stalattite-Eccentricache sto sviluppando concretamente dal 2020. Racconti scritti, video-racconti ed anche un podcast, che normalmente pubblico sulla nostra pagina Facebook, sono gli strumenti con cui do corpo a ciò che voglio condividere. Piccoli racconti che “metto al servizio” della Comunità e che riguardano quello che abbiamo imparato.

Grazie mille e spero davvero che la nostra storia possa essere una buona testimonianza anche per altri .

CAP 90036: La lettera di Maria Letizia che vuole lavorare

“CAP 90036” è una rubrica dedicata alle vostre “lettere“. La storia di questa settimana è quella di Maria Letizia che vuole garantito il diritto al lavoro.

“Mi chiamo Maria Letizia, ho 28 anni e vivo a Palma di Montechiaro (AG). Sono affetta da tetraparesi spastica dalla nascita. Questa patologia ha compromesso le mie funzioni motorie, rendendo necessario l’utilizzo di una sedia a rotelle a motore.

Fortunatamente, le capacità cognitive non sono state compromesse. Dopo la maturità scientifica, ho conseguito la Laurea in Lingue e Culture Moderne per poi completare il mio percorso accademico con la Laurea Magistrale in Lingue Moderne per la Comunicazione Internazionale. Ho raggiunto una conoscenza ottimale dell’inglese e dello spagnolo e una conoscenza di base del francese.

Durante gli studi universitari, mi sono appassionata alla traduzione. Per questo motivo, terminati gli studi, ho deciso di intraprendere la carriera di traduttrice. Questo lavoro è ideale per me perché mi consente di lavorare da casa.

Sono costretta a lavorare in smart working perché le mie condizioni fisiche renderebbero faticoso spostarmi da casa ogni giorno. Ho frequentato un Master in Traduzione Settoriale e un corso professionale di Traduzione per l’editoria.

Maria Letizia

Ho difficoltà a trovare lavoro perché, pur essendo iscritta a diversi portali dove vengono pubblicati annunci per lavori di traduzione, nel 99% delle volte viene richiesta esperienza professionale, che non ho, e nell’altro 1% si tratta di annunci truffaldini o che pagano una tariffa irrisoria a cui non vale la pena rispondere.

Ho inviato curriculum a diverse case editrici, ma fino ad ora solo una mi ha risposto chiedendomi di svolgere delle traduzioni di prova che ho svolto, ma poi non ho avuto più notizie. Per quanto riguarda gli altri settori, fino ad ora ho svolto solo un lavoro un anno fa per conto di un’agenzia di traduzione, poi più niente perché non sono riuscita a candidarmi per nessun altro annuncio per i motivi che ho spiegato sopra.

Purtroppo, per il momento, il cambio generazionale si è arrestato perché chi è anziano va in pensione sempre più tardi e che giovane non riesce ad inserirsi. Il mio sogno è poter lavorare per una casa editrice in veste di traduttrice. È il settore che preferisco perché amo i libri e anche perché mi è congeniale visto che si può lavorare con la ritenuta d’acconto senza aprire una Partita IVA. Non mi conviene aprirla se prima non ho entrate fisse.

Spero di riuscire a trovare lavoro presto per diventare un membro attivo della società. È brutto trovarsi nel limbo dei disoccupati quando gli studi sono finiti e vorresti iniziare a lavorare ma non riesci.

Ci si sente in colpa come se la mancanza di lavoro dipendesse dalla propria negligenza o dalla mancanza di iniziativa, mentre invece è il mercato del lavoro che ti chiude le porte in faccia quando la sola colpa che hai è quella di non aver ancora iniziato a lavorare.”

Per le vostre lettere a CAP 90036 scrivete a lavoriamoinsiemeblog@gmail.com o la sezione “Contatti” del blog. Grazie.