Ictus, ogni minuto è prezioso per salvare la vita ed evitare disabilità.

Nel nostro Paese è la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e i tumori. Colpisce ogni anno circa 185mila persone. I pazienti sopravvissuti, con esiti invalidanti, sono circa un milione

Fare presto

«Ogni minuto è prezioso» quando colpisce l’ictus. Per ogni secondo che si ritarda sono bruciati 32mila neuroni e per ogni minuto ben 1,9 milioni. Ecco perché gli esperti ribadiscono una volta di più , in occasione della giornata mondiale contro l’ictus cerebrale che ricorre il 29 ottobre, quanto sia importante riconoscere tempestivamente i sintomi, in modo da chiamare subito il 118 o 112 e farsi accompagnare non in un qualsiasi ospedale ma in quello dotato di Centri specializzati (Stroke Unit) in grado di somministrare le terapie migliori.

L’ictus è la prima causa di disabilità e la terza causa di morte (dopo le malattie cardiovascolari e i tumori). Ogni anno solo nel nostro Paese l’ictus colpisce circa 185mila persone, secondo i dati della Società italiana di neurologia e dell’Italian Stroke Association. I connazionali che hanno avuto un ictus e sono sopravvissuti, con esiti più o meno invalidanti, sono oggi circa un milione.

Che cos’è l’ictus

«Questa temibile condizione – spiega il professor Mauro Silvestrini, presidente di Italian Stroke Association – si manifesta con la comparsa improvvisa di un deficit neurologico dovuto al fatto che l’afflusso del sangue diretto al cervello si interrompe improvvisamente per l’occlusione di un’arteria (in questo caso si parla di infarto cerebrale o ictus ischemico) o per la rottura di un’arteria (emorragia cerebrale o ictus emorragico)».

Riconoscere i sintomi

Quali sono i segnali “spia” di un ictus? Risponde il professor Alfredo Berardelli, presidente della Società Italiana di Neurologia: «La comparsa improvvisa di perdita di forza o sensibilità a un braccio o a una gamba, la bocca che si storce, l’oscuramento o la perdita della vista da un solo occhio o in una parte del campo visivo, l’incapacità di esprimersi o di comprendere ciò che ci viene detto, un mal di testa violento, sono tutte potenziali manifestazioni di un ictus. Di fronte a questi sintomi – sottolinea il neurologo – è importante chiamare subito il 118 o recarsi in ospedale, perché la possibilità di essere curati è legata alla precocità della somministrazione delle terapie».

Centri di cura specializzati

Quando colpisce l’ictus «è fondamentale che la persona venga portata il più rapidamente possibile negli ospedali, possibilmente dotati dei Centri organizzati per il trattamento, cioè le Unità Neurovascolari (Centri Ictus o Stroke Unit) – sottolinea il presidente di ALICe Italia Odv (Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale) Andrea Vianello, colpito da ictus nel 2019 –. Solo così si può pensare di ridurre il rischio di mortalità ed evitare ictus particolarmente gravi, cercando di limitare danni futuri e, in particolare, le conseguenze di disabilità, molto spesso invalidanti, causate da questa malattia».

Secondo i parametri indicati dal DM 70 del 2015 in Italia dovrebbero essere disponibili complessivamente 300 Unità Neurovascolari (o Stroke Unit). «Attualmente – riferisce il professor Danilo Toni, direttore dell’Unità “Trattamento Neurovascolare” al Policlinico Umberto I di Roma e presidente del Comitato tecnico-scientifico di ALICe Italia – le Unità Ictus sono 220, con un recupero del Sud, anche se siamo ancora a una copertura pari a circa il 60% del necessario».

Unità Ictus
Stroke Unit
Le terapie

Più precoce è l’intervento, più sono efficaci le terapie e minori sono le complicanze del trattamento, ribadiscono i neurologi.
Per l’emorragia cerebrale esistono diverse indicazioni per contenere l’estensione del sanguinamento, mentre sono in fase di sviluppo veri e propri approcci di terapia specifica.
Per l’ictus ischemico sono disponibili da tempo farmaci fibrinolitici che dissolvono il materiale ostruttivo a livello arterioso, permettendo quindi di ripristinare il flusso di sangue e limitare i danni al tessuto cerebrale.

In alcuni casi, la terapia farmacologica può essere associata o sostituita dai trattamenti endovascolari, tecniche che richiedono un’alta specializzazione e, per questo, non possono essere effettuate ovunque, ma solo ed esclusivamente negli ospedali dotati di Centri specializzati.
Non tutte le persone colpite da ictus, però, ricevono le cure giuste nei tempi giusti. «Alla trombolisi sono sottoposti circa l’80% dei pazienti che ne hanno bisogno e alla trombectomia meccanica circa il 75% di coloro che ne necessitano» dice il professor Danilo Toni.

È possibile prevenirlo (e come)?

Il messaggio dei neurologi è chiaro: molti ictus potrebbero essere prevenuti semplicemente curando in modo adeguato i fattori di rischio che si possono modificare, quali la pressione alta, l’aumento dei grassi e degli zuccheri nel sangue, alcune anomalie della funzione cardiaca, in particolare la fibrillazione atriale.

Anche gli stili di vita hanno un ruolo nell’insorgere dell’ictus, per cui vanno evitate alcune abitudini dannose come il fumo, il consumo eccessivo di alcol, l’uso di sostanze di abuso, la sedentarietà, un’alimentazione scorretta che comporta la tendenza al sovrappeso fino all’obesità. Gli esperti consigliano un’attività fisica regolare, anche mezz’ora di passeggiata cinque/sei volte a settimana, un’alimentazione sana e bilanciata, il controllo della pressione arteriosa e un consulto periodico col proprio medico curante per verificare l’eventuale presenza degli altri fattori di rischio. (corriere.it)

SOSTIENI IL BLOG

DONA ADESSO! Il tuo contributo è fondamentale per poter dare un’informazione di qualità. Diventa un Sostenitore, decidi tu quante quote donare!

5,00 €

Api e persone con disabilità, un’alleanza con tante prospettive

«Se le api scomparissero dalla terra, per l’uomo non resterebbero che quattro anni di vita»: questa frase, erroneamente attribuita ad Albert Einstein, viene citata nei dibattiti sulla salvaguardia ambientale, i cambiamenti climatici e la crisi alimentare cui andremo incontro se non invertiremo la rotta dei comportamenti verso il pianeta che ci ospita.La citazione è sbagliata, ma il messaggio è reale. Le api, infatti, sono preziosissime, se è vero che quasi il 90% delle piante selvatiche ha bisogno degli animali impollinatori per completare la riproduzione, piante fondamentali per gli ecosistemi e la diversità biologica alla base dell’esistenza degli esseri viventi. Non solo, ne è dipendente oltre il 75% delle colture agrarie come cereali, frutta e verdura essenziali per l’alimentazione umana.

Se pensiamo che il volume di raccolti che beneficiano degli impollinatori è triplicato negli ultimi cinquant’anni, si comprende cosa accadrebbe se scomparissero le api e le decine di altre migliaia di specie, tra cui alcuni mammiferi, che portano il dolce nettare di fiore in fiore. Questi insetti meritano tutela anche perché forniscono importanti e apprezzati prodotti come il miele e la cera, inoltre sono integrati nelle tradizioni locali e supportano un settore dell’economia, l’apicoltura, che in alcune zone è fonte di reddito per le famiglie.Questo può sembrare un tema “lontano” dalla disabilità, e invece sono sempre più numerose le iniziative che vedono le api e le persone con disabilità alleati che si donano qualcosa reciprocamente.

François Huber, il naturalista non vedente che amava le apiTutto ebbe inizio nella seconda metà del Settecento e porta il nome dell’entomologo svizzero François Huber. Vissuto fra il 1750 e il 1831, Huber fu un uomo non vedente capace di rivoluzionare le conoscenze sulle api, e di conseguenza l’apicoltura, con metodo scientifico, umiltà e attenta osservazione.Per capire come una persona priva della vista senza le odierne tecnologie sia riuscita a surclassare le teorie di naturalisti di fama e dotati di tutti i cinque sensi funzionanti, bisogna conoscere la vita e il carattere di Huber. Aveva soltanto 15 anni quando i suoi occhi cominciarono ad avere dei problemi; i medici consultati dai genitori non diedero grandi speranze, ma suggerirono di far trascorrere al ragazzo un periodo in campagna, dedicandosi ad attività all’aria aperta.

Si trasferì così in una cittadina a nord di Parigi, il contatto con la natura gli era congeniale, essendo appassionato di scienze, e stare in movimento non era una fatica per un giovanotto pieno di interessi. Lo stato generale di salute migliorò e tuttavia ben presto lo informarono che la cecità sarebbe diventata totale e permanente.La batosta avuta con la prognosi venne attenuata dalla presenza di Marie Aimée Lullin, un’amica d’infanzia divenuta fidanzata contro il parere del padre di lei, spaventato all’idea che la figlia si accompagnasse ad un ragazzo non vedente, in teoria privo di prospettive.

Marie attese la maggiore età di allora, 25 anni, per sposare il suo François che ormai distingueva soltanto luci ed ombre, ma tanto ancora gli bastava per interagire con le persone e il mondo circostante. La moglie non lo lasciava mai, era segretaria e lettrice per il compagno, osservava per lui e riferiva quanto aveva visto, mentre la famiglia si allargava e insieme crescevano i tre figli, Jean, Marie Anne e Pierre. Fu una solida colonna per François, un uomo che non si lamentava mai della sua condizione, preferendo altri argomenti di conversazione quali la poesia, la musica e ovviamente la natura.

Una raffigurazione del naturalista svizzero François Huber, che venne chiamato anche “l’osservatore cieco”

Pur non potendo ammirare il panorama con gli occhi, non rinunciò alle passeggiate in autonomia nella sua proprietà. Lungo i sentieri che l’attraversavano, infatti, fece stendere alcune corde sulle quali di tanto in tanto erano presenti dei nodi che gli consentivano di capire dove si trovava. Un approccio alla disabilità alquanto moderno, come notò l’amico Augustine de Candolle che scrisse: «I giovani devono imparare da lui l’esempio del valore della determinazione risoluta in direzione della massima concentrazione nel lavoro, e specialmente per coloro che sono soggetti alla sua stessa sfortuna che non si scoraggino per via della propria condizione ma che imitino la sua ammirabile filosofia».

Huber ara a suo agio nella vita e con gli altri, così a suo agio che rifiutò un intervento agli occhi che gli avrebbe fatto recuperare parte della vista; ormai, infatti, aveva acquisito un equilibrio che non voleva rischiare di perdere. Sagace e perseverante, capì che alcune delle nozioni dell’epoca in merito alle api erano scorrette, ad esempio la credenza che l’ape regina in realtà fosse un re. Fu uno dei primi a scoprire l’esistenza dello “spazio d’ape”, ovvero il fatto che se le api hanno a disposizione uno spazio più largo di nove millimetri e mezzo, lo riempiono di cera poi difficile da rimuovere e quindi gli apicoltori devono mantenere i favi ad una distanza inferiore, per pulirli e ispezionarli meglio (il favo è un raggruppamento di celle esagonali a base di cera che le api costruiscono nel loro nido per contenere le larve e per immagazzinare miele e polline).

Ma come condurre esperimenti e verificare queste e altre ipotesi letteralmente al buio? Oltre alla moglie, arrivò l’assistente François Burnens, un ragazzo di umili origini assunto inizialmente come domestico, ma il cui entusiasmo nella ricerca, l’intelligenza e l’abilità accanto agli alveari resero un perfetto aiutante i cui occhi facevano le veci di quelli di Huber. Collaborarono per una decina d’anni e il naturalista non mancò mai di sottolineare l’indispensabile supporto del giovane: «A causa di una serie di sfortunati incidenti, sono diventato cieco nella mia prima giovinezza; ma amavo le scienze, e non ne perdevo il gusto perdendo l’organo della vista. Mi sono fatto leggere le migliori opere di fisica e storia naturale: il mio lettore era un servo (François Burnens nato nel Pays de Vaud) che era particolarmente interessato a tutto ciò che mi leggeva».

C’era per altro un rovescio della medaglia: la comunità scientifica ufficiale avrebbe potuto accogliere con scetticismo le pubblicazioni di un entomologo cieco portate avanti da un servo contadino privo di cultura. Per questo Huber era rigoroso e maniacale nel ripetere gli esperimenti. Ogni risultato veniva controllato più volte, perché per venire preso sul serio il suo lavoro doveva essere due volte più approfondito di quello degli altri studiosi. Non cercava conferme alle sue convinzioni, anzi, le guardava da diversi punti di vista per distruggerle e soltanto quando si confermavano esatte dopo esperimenti in diverse condizioni le rendeva pubbliche. I colleghi furono sorpresi per questo approccio severo e al contempo brillante nel modo di superare le difficoltà, unito alle pittoresche descrizioni finali: leggendole pareva di stare accanto a lui mentre lavorava con le api.

La serietà e l’accuratezza di Huber abbatterono i pregiudizi, venne ammesso in molte prestigiose Accademie d’Europa, tra cui l’Accademia delle Scienze di Parigi. Negli ultimi anni si dedicò con passione all’insegnamento, gli allievi erano affezionati ed entusiasti nel seguire le sue mai banali lezioni. Morì tra le braccia della figlia a Losanna, serenamente com’era vissuto, il 22 dicembre 1831, aveva 81 anni. Si chiama come lui una specie di alberi del Brasile, Huberia laurina, così battezzata in segno di gratitudine, e alla moglie Marie nel 1991 venne dedicato un cratere di Venere.

Andrea Licari è quasi certamente l’apicoltore con disabilità più noto del nostro Paese
Attrezzature ed esperienze all’insegna dell’inclusione

Non è da escludere che la mancanza della vista sia stato un fattore determinante per il successo delle ricerche di François Huber. In altre parole, non essere “distratto” da quanto gli trasmettevano gli occhi, ha consentito alla sua mente di allargare la visione d’insieme e di concentrarsi su particolari fino ad allora considerati secondari. L’entomologo svizzero, tuttavia, è poco conosciuto nel suo Paese e anche tra gli apicoltori non è una figura citata spesso, se non per un’invenzione che porta il suo nome: l’arnia Huber. Detta anche “arnia a libro”, la progettò nel 1792 per osservare l’attività delle api senza disturbarle troppo. Come suggerisce il nome, si può “sfogliare” e gli insetti si mostrano in ogni “pagina”; il vantaggio evidente per le persone con disabilità fisiche è che non è necessario alcuno sforzo per il sollevamento dei telai, basta posizionare l’arnia ad un’altezza giusta. Lo stesso vantaggio in termini di maneggevolezza si può ottenere utilizzando l’arnia top bar che si sviluppa su un piano orizzontale e presenta sullo stesso livello sia il nido che il melario, il tutto contenuto in telai più leggeri di quelli tradizionali [il melario è una cassetta senza fondo né coperchio, quadrata o rettangolare, che si pone dentro l’arnia ed è destinata a contenere i favi in cui le api depositano il miele, N.d.A].

È quindi possibile lavorare da seduti, risultato che si ottiene anche modificando una delle arnie più diffuse per l’apicoltura da produzione, la dadant-blatt.Curiosando su internet si trovano tutorial che spiegano come applicando alcune flange di rinforzo e un’intelaiatura che consente di inclinare l’arnia all’altezza desiderata, con una spesa minima anche un appassionato impossibilitato a stare in piedi, purché abbia un buon uso delle braccia, può cimentarsi in questa attività. E del resto l’accessibilità dell’apicoltura è un tema in larga parte inesplorato: in linea di massima si può dire che non esistono soluzioni univoche, e che quando si parla di disabilità, come sempre, ogni persona deve ricorrere a soluzioni dedicate in base a ciò che riesce a fare. Non va poi nemmeno dimenticato che, oltre alle innumerevoli disabilità fisiche, esistono quelle sensoriali e cognitive che hanno bisogno di ancora differenti adattamenti.

Il web è una miniera di informazioni per chi vuole avvicinarsi a questo settore, ed è proprio in rete che è cominciata l’avventura di quello che probabilmente è il più famoso apicoltore con disabilità d’Italia, Andrea Licari. Licari si è avvicinato a questo mondo “grazie” al veleno che questi insetti producono. Il veleno d’ape, infatti, è conosciuto fin dall’antichità per le proprietà benefiche sulla circolazione sanguigna, il potere antinfiammatorio e antidolorifico. Lo utilizzavano per scopi “terapeutici” in Egitto e nell’antica Grecia, da millenni è uno dei rimedi della medicina tradizionale cinese per la cura dell’artrite e prima della Grande Guerra il medico sloveno Filip Terč lo impiegava per i reumatismi e altre condizioni di dolore.

La comunità scientifica ha scoperto che in un milligrammo e mezzo di veleno sono contenuti 78 principi attivi.Andrea, quarantaquattrenne di Marsala (Trapani), ha cominciato a studiarlo circa quattordici anni fa, quando gli è stata diagnosticata la sclerosi multipla, e l’ha sperimentato su di sé nel tentativo di alleviare le conseguenze della propria patologia. Una passione nata a causa della malattia, dunque, è diventata un interesse spassionato per le api e, in ultimo, un lavoro. Licari, infatti, è diventato un apicoltore, che sulla sua sedia a rotelle gestisce e cura con successo dieci alveari; inoltre è diventato esperto della specie autoctona di ape nera sicula ed è un divulgatore dei segreti delle arnie. Ora sta coltivando un nuovo progetto: realizzare un apiario didattico socio-inclusivo senza barriere, per coinvolgere altre persone con disabilità.

Una delle opere dipinte in Inghilterra dallo street artist Louis Masai Michel, per sensibilizzare sulla sindrome dello spopolamento degli alveari

È vero che le api possono far paura, bisogna conoscerle e imparare a “maneggiarle” con cautela, ma è altrettanto evidente che osservarle mentre lavorano e condurre alveari sono attività che favoriscono il buonumore e la serenità, quindi possono diventare un nuovo modello di “terapia con gli animali”. Andrea sta portando avanti l’idea in collaborazione con l’ANFFAS di Marsala (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale), con la quale ha individuato alcuni luoghi idonei disponibili in comodato d’uso gratuito. Adesso si tratta di reperire i fondi per creare percorsi accessibili e un laboratorio senza barriere dotato di attrezzature e strumenti adatti affinché gli apicoltori con disabilità possano operare in sicurezza e completa autonomia. Non avendo ancora ricevuto sostegni economici concreti, le dimensioni del progetto sono da definire; nel frattempo è stata creata un’entità giuridica senza scopo di lucro, Bio Passioni Società Cooperativa Agricola Sociale, e sono iniziati dei corsi teorici in attesa di fare esperienza dal vivo.

Le opportunità educative, didattiche e sociali dell’apicoltura sono anche l’oggetto di un’iniziativa partita nel 2010 a Bracciano (Roma). Si tratta del progetto Apiabili, voluto da un gruppo di enti impegnati in ambito agricolo e ambientale (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana, Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio), con il fondamentale apporto dell’AAIS (Associazione per l’Assistenza e Integrazione Sociale), un’organizzazione che da oltre quarant’anni si occupa di persone adulte con disabilità.

Presso il Centro Sociale Polifunzionale dell’Associazione-Fattoria Sociale Sabrina Casaccia di Castel Giuliano, un appezzamento di circa quattro ettari di terreno in cui sono stati predisposti un apiario didattico e un laboratorio di smielatura, dodici anni fa una decina di ragazzi con diverse disabilità hanno iniziato ad acquisire le competenze tecniche necessarie per gestire un apiario.La bellezza di questo progetto sta nell’integrazione con il territorio e il contributo che offre alla salvaguardia della natura.

Fin dal principio, infatti, si è pensato di organizzare delle visite guidate con gli studenti della zona, per insegnare il ruolo delle api nell’ecosistema e sensibilizzare sulle problematiche legate ai cambiamenti climatici. Ultimi in ordine di tempo, alcuni mesi fa sono stati gli alunni dell’Istituto Salvo D’Acquisto di Bracciano a vivere questa esperienza didattica all’aperto: accompagnatori e docenti sono stati i ragazzi con disabilità che lavorano nella fattoria. Infatti, dopo un corso di formazione che ha coinvolto anche gli operatori sociali che li seguono, sono diventati loro i “ciceroni” di Apiabili, parte attiva che aiuta l’ambiente e mette in contatto le nuove generazioni con la disabilità, imparando a vederla come parte integrante della società.Oltre a tutto ciò, il progetto ha anche lo scopo di monitorare il fenomeno della moria delle api e per questo si sta creando un’arnia tecnologica e controllata che permette agli apicoltori di controllarne in ogni momento le condizioni interne.

Api
«Se osserviamo le api nella vita in alveare – scrive Stefania Delendati – possiamo imparare da questi piccoli insetti neri e gialli un modello di partecipazione comunitaria alla vita sociale, dove ognuno, in base alle proprie qualità, svolge un compito ben preciso per il benessere di tutti. Oltre a preservare l’ambiente, esse insegnano dunque il valore della collaborazione e, insieme alle api nei progetti che abbiamo raccontato, impariamo l’idea della “diversità” come patrimonio»

Quello laziale è un esempio ben riuscito di socialità all’insegna della cooperazione, come quello avviato ad Arcore, in provincia di Monza-Brianza. Lo racconta Giovanni Prestini nel libro La Dolce Vite. L’apicoltura come intervento di educazione assistita con le persone disabili (FrancoAngeli Editore, Collana “Traiettorie Inclusive-Open Access”, 2017), nel quale ripercorre la storia del miele La Dolce Vite, prodotto dai giovani seguiti dalla Cooperativa La Piramide, che ha portato degli alveari nei pressi di uno dei propri centri educativi, avviando un percorso occupazionale per allevare le api, estrarre il miele, confezionarlo e venderlo. Un’esperienza ricca di significati che ha preso le mosse dalla paura.

Sì, avete letto bene, il timore generato dal contatto diretto con le api, animali potenzialmente aggressivi, ha indotto i ragazzi ad un maggiore autocontrollo per placare l’ansia. Piano piano hanno imparato a lavorare su altri aspetti come la voce e la precisione dei movimenti e i risultati in termini di acquisizione di competenze psico-motorie e crescita dell’autostima sono stati sorprendenti; la positiva visione di sé è aumentata ora che toccano con mano il risultato del loro lavoro.

E quando le arnie devono essere sostituite, cosa si fa con quelle vecchie? Seguendo i princìpi dell’economia circolare in cui nulla si butta, tutto si riutilizza e rigenera, a Parma ha preso il via il progetto TEXTURE che coinvolge una rete di undici Associazioni locali per l’inclusione socio-lavorativa di giovani adulti con disabilità usciti dal circuito scolastico. Nel concreto, i ragazzi trasformeranno il legno delle arnie non più funzionali in Bugs Hotel, piccoli rifugi che ospiteranno altre specie di insetti, contribuendo così a mantenere la biodiversità.Texture è una parola che richiama la consistenza dei materiali, come può essere appunto il legno, e rimanda anche al concetto del lavoro di rete, quello che caratterizza l’iniziativa. Con l’aiuto di figure esperte e volontari, i giovani acquisiranno competenze pratiche e imprenditoriali e alla fine saranno in grado non solo di costruire i Bugs Hotel, ma anche di promuoverli e venderli.

Per concludere, se osserviamo le api nella vita in alveare possiamo imparare da questi piccoli insetti neri e gialli un modello di partecipazione comunitaria alla vita sociale, dove ognuno, in base alle proprie qualità, svolge un compito ben preciso per il benessere di tutti. Oltre a preservare l’ambiente, esse insegnano dunque il valore della collaborazione e, insieme alle api nei progetti che abbiamo raccontato, impariamo l’idea della “diversità” come patrimonio. (superando.it)

Assistenza persone disabili e anziane in caso di incendio in casa: che fare?

L’assistenza alle persone disabili e anziane durante l’incendio in casa può avvenire dai Vigili del Fuoco e anche da persone comuni

L’assistenza alle persone disabili e anziane in caso di incendio all’interno di una casa o di un appartamento riguarda i Vigili del Fuoco, familiari, caregiver e persino i vicini. Sembra un concetto scontato, eppure è necessario sottolinearlo. In un periodo storico dove gli incendi diventano sempre più frequenti tanto da caratterizzare le cronache giornaliere, è bene ripassare le linee guida per garantire la sopravvivenza di ognuno di noi, aiutandosi e porgendo la mano a chi ha più bisogno di aiuto.

Considerazioni emerse all’interno della nostra intervista al delegato USB dei Vigili del Fuoco Paolo Cergnar che espone tutte le criticità a cui persone con disabilità e anziane sono esposte, ma anche cosa poter fare per garantire un’assistenza adeguata per evitare il peggio.

Le persone con disabilità e anziane sono le più esposte a rischi in caso di incendi? Se sì, ci sono dati?

Un dato preciso non c’è, dipende molto dall’operatore che prende la chiamata e registra il dato. Quando facciamo l’intervento nel report possiamo scrivere delle note a lato se si tratta di una persona con disabilità o una persona anziana.

Per esempio, per ciò che riguarda un incendio in un appartamento, dove ci sono vittime, abbiamo cercato di fare un lavoro molto più grande di screening atto a verificare quali sono realmente i dati, ma al momento non è attendibile o comunque non rispetta in maniera fedele la realtà.

Quello che ti posso dire però è che nell’ultimo periodo gli interventi di soccorso a persone disabili, grandi anziani e persone che vivono sole sono aumentati in maniera esponenziale. Essendo persone che hanno difficoltà nella vita comune, perché vivono ai margini della società, e se non sono seguiti da individui che si prendono cura di loro, ne risentono di più.

Uno degli ultimi episodi è successo lo scorso 11 luglio in una villetta a Roma: sono morte la mamma disabile di 74 anni e il figlio di 31 anni che si era chiuso in bagno, proprio perché le difficoltà stanno nel muoversi all’interno di un appartamento in base al fumo. E quindi se la persona è allettata e ha una disabilità motoria, sensoriale o mentale, non percepisce qual è il livello del pericolo. Infatti in questo senso la prevenzione ha un effetto importante.”

Cosa può fare una persona con disabilità e anziana in caso di incendio o per prevenire tali situazioni?

Una cosa banale, che non tutti tengono in considerazione, è tenere la porta chiusa. Se una persona è allettata e ha comunque una persona che le vigila attorno e la assiste tutta la giornata, è utile tenere la porta della stanza chiusa, in quanto si è dimostrato che, durante un incendio di appartamento, anche in caso di propagazione dei fumi, aumenta il tempo di sopravvivenza all’interno della stanza.

Quindi è necessario che la persona abbia qualcuno che la segua. Abbiamo trovato nell’ultimo periodo uno scollamento del tessuto sociale, complice anche la pandemia da Covid che non ha avvicinato le persone tra loro, che ha causato un numero importante di persone morte all’interno degli appartamenti, perché non rispondono alle chiamate o vengono trovate morte. La gente chiama perché, purtroppo, sente il cattivo odore dall’appartamento vicino. E questo evidenzia il problema della solitudine delle persone con disabilità e anziane.

Inoltre, anche se questo è un dato difficilmente estrapolabile, nell’ultimo periodo stiamo facendo molte di queste tipologie di intervento. Le abbiamo sempre fatte, però l’allontanamento delle connessioni sociali, anche in ambito familiare, ha portato a non accorgersi di chi ci sta intorno e a non avere il contatto anche con il vicino.”

Quindi la prevenzione può venire anche dai vicini di casa.

Assolutamente, una persona che sta da sola o ha familiari lontani può affidarsi o farsi aiutare da un buon rapporto con il vicinato o, se presente, dal portiere dello stabile, o comunque da meccanismi di ausilio. Lo smartphone può essere uno strumento talvolta sconosciuto, non tutti sono abili a utilizzarlo, soprattutto le persone anziane, e quindi non riescono ad avvertire in tempo se si trovano in una situazione di pericolo. Diverso invece per chi è intrappolato nel letto perché ha una disabilità motoria: se c’è un incendio, rimane intrappolato proprio perché fisicamente non puoi muoverti.”

Incendio
Foto dal web

Cosa può fare un vigile del fuoco per l’assistenza alle persone disabili e anziane in caso di incendio e aumentare le possibilità di salvare vite?

L’unico fattore che potrebbe essere abbattuto è il tempo, la tempestività dell’intervento, anche nel caso di un incendio senza fiamma che sprigiona tanto fumo. Arrivare nel più breve tempo possibile è ciò che può cambiare la situazione.

Sotto questo aspetto, c’è un progetto partito nel 2001 dedicato al soccorso delle persone con disabilità, con il Comando di Pordenone all’avanguardia in materia. Il nostro funzionario direttivo Stefano Zanut è un antesignano per ciò che riguarda l’assistenza alle persone disabili in caso di incendio, poiché ha mostrato e illustrato con un vademecum per tutti i Vigili del Fuoco quali sono le tecniche per aiutarle: come prendere una persona su carrozzina, come aiutare chi ha una disabilità cognitiva, come entrare in contatto con l’autismo e altre tipologie di disabilità.

C’è una certa attenzione soprattutto alla disabilità mentale, nel cercare il contatto e l’empatia con la persona soccorsa e viceversa. Magari anche noi in determinati frangenti non riusciamo a capire quale contesto dobbiamo affrontare. A tal proposito esiste un’applicazione per smartphone, Help for All, per vedere anche quali sono i vari approcci nelle varie fasi del soccorso per i vari tipi di disabilità.”

Che cosa consigli di fare a una persona con disabilità o a una persona anziana durante un incendio?

Allontanarsi da fiamme e fumo, chiudere le porte dietro di sé e mettersi in salvo e cercare di mettersi in una posizione di riparo: uno tende a mettersi in bagno, perché è il luogo più sicuro dove c’è meno materiale che potrebbe andare a fuoco. E chiamare il prima possibile il numero unico d’emergenza, il 112, dicendo che il soccorso è richiesto da una persona disabile e con quale tipo di disabilità.

E la cosa importate è sempre avere la salvaguardia di queste persone da individui normodotati, che conoscono la disabilità di chi deve essere soccorso. È chiaro se chi assiste un anziano è un compagno o una compagna anziana, diventa più complesso. Perché comunque i tempi di reazioni di una persona anziana sono molto lunghi.

Inoltre, se c’è un balcone o se si ha la possibilità, uscire dall’appartamento che sta bruciando e chiudere la porta dietro di sé. E se possibile, portarsi dietro le chiavi, è fondamentale: sembra banale, ma entrare in un appartamento in fiamme avendo le chiavi, e non dalla finestra, che in alcuni casi è inaccessibile, per noi è fondamentale, così possiamo entrare subito per accorciare i tempi del soccorso.” (abilitychannel.tv)

Sostieni il Blog

Il tuo contributo è fondamentale per poter dare un’informazione di qualità. Diventa un Sostenitore, decidi tu quante quote donare!

5,00 €

Torna “Make to Care” con la sua Call for makers

C’è tempo fino al 22 luglio per presentare a “Make to Care” progetti innovativi per pazienti e caregiver

È ai blocchi di partenza la nuova edizione di “Make to Care”, l’iniziativa di Sanofi volta a promuovere tutte le forme di innovazione che sono in grado di rispondere alle esigenze quotidiane di chi vive con una disabilità, dei loro familiari e dei loro caregiver. Nata nel 2016 dalla stretta collaborazione con Maker Faire Rome – The European Edition e giunta alla sua settima edizione, “Make to Care” ha dato inizio, per prima in Italia, ad una riflessione strutturata sulla Patient-driven-Innovation al fine di incentivarne la pratica e la diffusione, oltre che di stimolare un dibattito costruttivo in termini di nuove politiche sanitarie.

Il progetto si è distinto, nel corso degli anni, per la valorizzazione di idee uniche e non convenzionali che favorissero la qualità di vita e l’inclusione di chi vive con una disabilità. Sono idee che spesso provengono proprio da “pazienti-innovatori” che, grazie alla propria esperienza, sono capaci di guidare la ricerca di soluzioni dirompenti e concrete.

Make to care
Clicca sull’immagine per il regolamento

La Call for makers per presentare i progetti è aperta fino al prossimo 22 luglio, le modalità di presentazione e il regolamento sono consultabili sul sito Maketocare.it. Una prima scrematura dei progetti verrà attuata dagli esperti di Maker Faire Rome – The European Edition tra tutti quelli candidati alla sezione “Health & Wellbeing”.

I progetti finalisti avranno ampia visibilità dal 7 al 9 ottobre nei giorni di Maker Faire Rome e i vincitori verranno proclamati a fine novembre nella Cerimonia ufficiale di premiazione, il cui programma è in corso di definizione. I vincitori avranno la possibilità di fare un’intensa esperienza formativa in Israele, startup nation di primo piano in cui l’innovazione sociale sta catalizzando l’attenzione di innovatori e investitori. L’agenda della visita sarà costruita in collaborazione con l’Ambasciata d’Israele a Roma.  

“Make to Care” porta avanti da anni un progetto di ricerca sull’open-innovation e sulla manifattura digitale in ambito healthcare che nasce e si sviluppa anche fuori da ospedali, centri di ricerca, università ed è guidata da nuovi soggetti: start-up ma anche pazienti-innovatori che spesso collaborano con maker e fablab.

Questa attività conta sulla collaborazione di Polifactory, il maker-space del Politecnico di Milano e sul supporto di Fondazione Politecnico di Milano. L’ecosistema “Make to Care” viene costantemente mappato da Polifactory attraverso un’apposita piattaforma online.

“Make to Care” ha creato un network di partner che collaborano al successo della iniziativa; ART-ER, Società Consortile dell’Emilia-Romagna per l’innovazione, l’attrattività e l’internazionalizzazione; Venture Factory e Arrow Electronics Italia, rispettivamente Investing Partner e Technology Platform Partner che danno supporto e consulenza ai progetti in concorso, valutandone anche la scalabilità; Bugnion S.p.A. e l’Istituto di Management della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa che mettono a disposizione le proprie competenze a beneficio di vincitori e finalisti.

Da quest’anno, infine, “Make to Care” vede la collaborazione del Premio Nazionale Innovazione, che si fa promotore dell’iniziativa in ambito accademico. (osservatoriomalattierare.it)

Sostieni il Blog

Il tuo contributo è fondamentale per poter dare un’informazione di qualità. Diventa un Sostenitore, decidi tu quante quote donare!

5,00 €

TUTTI AL MARE E I DISABILI? 4 GIOIELLI ITALIANI MA L’ACCESSIBILITÀ È UN MIRAGGIO

Poche le carrozzine speciali e lettini per tetraplegici disponibili nelle spiagge italiane. La storia della Terrazza “Tutti al mare” a San Foca

Tutti al mare Tutti al mare‘ : la canzone di Gabriella Ferri degli anni ’70, diventata un inno vacanziero democratico che fa pensare subito a spiagge affollate, caldo, frittata di maccheroni e cocomero e anche per aggiornarci alla domenica a Cocciadimorto come nella commedia con Antonio Albanese e Paola Cortellesi, è un classico vintage della colonna sonora dell’estate – in un juke box che riporta indietro di decenni, anzi al secolo scorso insieme a Un’estate al mare di Giuni Russo, Sapore di sale di Gino Paoli, Una rotonda sul mare di Fred Bongusto e retrò cantando.

Ma tutti è davvero “per tutti”? ASCOLTA IL PODCAST

La Terrazza Tutti al mare a San Foca
La Terrazza Tutti al mare a San Foca ( Lecce) realizzata dall’associazione Io Posso

Se sono in sedia a rotelle, giovane o anziano, negli anni qualcosa è cambiato: i lidi in tutta Italia cominciano ad avere, non tutti non illudiamoci, l’accessibilità con le discese a mare, alcune volte fanno trovare le carrozzine con le ruote alte di gomma gialla.

Si chiamano Job e permettono di essere condotti sul bagnasciuga, dove Job non significa “lavoro” in inglese ma un napoletanissimo “Jamme O Bagne” (andiamo a tuffarci) perché napoletana è l’azienda che l’ha creata qualche anno fa, la Neatech, rispondendo alle difficoltà dei diversamente abili a bagnarsi in mare in autonomia. Con le Job non ci si affonda nella sabbia e si riesce ad arrivare in acqua. Un bel traguardo.

Ma quante sono? Ancora pochissime nonostante alcune ordinanze stabiliscano che i concessionari di spiagge abbiano l’obbligo di mettere a disposizione dei diversamente abili gli appositi ausili speciali ossia sedie per il trasporto adatte al mare, almeno uno, salvi i casi in cui la morfologia della costa non lo consenta.

Quante carrozzine da spiaggia abbiamo mai visto nei nostri lidi? Davvero poche.
Eppure anche se diversamente abili e persino a maggior ragione, le persone malate e con handicap quanta voglia avrebbero di mare, di scendere in spiaggia e fare il bagno? Quel tutti al mare è un diritto inevaso. Proviamo a pensarci dalla nostra normale abilità quanta sofferenza avremmo se dovessimo privarci di andare al mare.
Parliamo tanto di turismo accessibile e inclusivo ma siamo ancora davvero all’inizio di un percorso.

Questo poi se siamo disabili non gravi. E se avessimo una malattia più condizionante? Se fossimo tetraplegici o malati di sclerosi laterale amiotrofica ad esempio. Come potremmo andare al mare?
In Italia esistono, nell’estate del 2022, solo 4 posti dove malati di questa gravità hanno accesso al mare.

C’è un lido bellissimo pieno di discese a mare, lettini, ombrellone, bagni enormi e pulitissimi dove la persona per nulla autosufficiente e spesso collegata a qualche macchinario viene accudita dopo un bagno nell’acqua cristallina: è a San Foca (Lecce) nel Salento a nord di Otranto, poi docciata, rinfrescata e risistemata. Proprio come una persona comune e abile, cioè quel minimo sindacale che applicato ad un giovane tetraplegico un magnifico miraggio.

In effetti l’attrazione avuta per questo spazio di spiaggia è stata proprio per il comfort, la bellezza di questo lido, un’attrazione da strabuzzare gli occhi, appunto come per un miraggio.
Come è possibile? Non bisogna rassegnarsi, se vogliamo chiamarci civili.

Damiano uno dei quattro coordinatori della ‘Terrazza Tutti al mare – liberi di essere felici‘ prima di raccontare la storia di questo era impegnato al telefono a ricevere prenotazioni da tutta Italia e perfino dall’estero, persone che durante l’estate arriveranno in zona proprio per quello che offre questo stabilimento gestito dall’associazione.

E’ tutto completamente gratuito – sottolinea Damiano – e noi siamo tutti volontari”. Questo avamposto di civiltà è nato da un caso doloroso, una storia di sla  e di amore verso il mare. Gaetano Fuso, un giovane salentino, amante del mare, poliziotto di professione e di stanza a Roma, è stato colpito a 37 anni dalla Sla. Con determinazione vedendo le sue condizioni neurodegenerative e invalidanti peggiorare ha riunito un gruppo di amici e li ha impegnati a realizzare il sogno: immergersi ancora in mare nonostante la dipendenza da dispositivi medici salvavita.

E’ nata così l’associazione Io Posso che ha portato nelle acque di San Foca persone tracheostomizzate e non solo fare il bagno al mare in piena sicurezza. “E’ la nostra ottava stagione balneare – prosegue con orgoglio Damiano – Gaetano è morto ma il suo sogno si è avverato: un accesso al mare libero e attrezzato per l’uso di persone affette da disabilità anche molto gravi. Qui c’è personale specializzato, box infermieristico, postazioni super accessibili, gazebo dotato di colonnine per l’energia elettrica per  i macchinari. Ad aiutare i volontari ci sono a rotazione poliziotti delle fiamme gialle, in onore del loro ex collega. C’è il supporto della Asl di Lecce, della città di Melendugno e dell’associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica“.

Sofao

Oltre alla Job ci sono altri ausili speciali  come la Sofao un lettino per tetraplegici che dalla spiaggia va in acqua e consente il bagno al mare per le persone costrette a vivere a letto, insieme al lettino scende in acqua anche un piccolo canotto dove vengono posizionati i macchinati e i tubi per chi deve restare attaccato per respirare. Si possono fare donazioni, bomboniere solidali, 5 per mille e altre modalità di sostegno.

Quanti posti ci sono così in Italia? “A Sant’Antioco in Sardegna con l’associazione Le Rondini, a Punta Marina a Ravenna con l’associazione Insieme a te e da questa estate anche a Gallipoli in Salento presso l’ecoresort Le Sirenè che ci ha messo a disposizione uno spazio per duplicare l’esperienza di San Foca“. Quattro lidi in tutta Italia per disabili gravi, questo il totale ad oggi. Si rischia un ghetto? “Purtroppo – ci risponde Damiano – non lo vogliamo noi, nello stabilimento accanto villeggianti hanno persino chiesto di coprire in qualche modo lo spazio per non vedere i malati“. (Ansa.it)

Sostieni il Blog

Il tuo contributo è fondamentale per poter dare un’informazione di qualità. Diventa un Sostenitore, decidi tu quante quote donare!

5,00 €

Ai detenuti disabili il carcere toglie la libertà due volte

Abbiamo intervistato alcuni detenuti con disabilità per farci raccontare i problemi quotidiani che affrontano ogni giorno, tra marciapiedi e scivoli sconnessi, bagni inadeguati, assenza di ascensori, carrozzine con le ruote bucate e ausili sanitari assenti

Sulle carceri italiane sappiamo molte cose: conosciamo bene il problema cronico del sovraffollamento, la composizione della popolazione carceraria, il tasso di recidiva. Ma sappiamo molto poco di come vive un detenuto disabile in carcere. L’ultima rilevazione sul tema è del 2015: all’epoca i detenuti con disabilità presenti nelle carceri italiane erano 628.

Non esistono, però, dati più recenti, complice anche il mancato accordo tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) e il Sistema sanitario nazionale per un monitoraggio permanente sulla disabilità in carcere. Nemmeno l’onda d’urto provocata dai fatti di Santa Maria Capua Vetere è riuscita a portare in superficie il tema della disabilità nelle carceri. E per molti detenuti disabili, il carcere è un luogo in cui “si impara a subire”.

Essere un detenuto con una disabilità fisica o motoria significa non solo perdere la libertà, ma anche l’autonomia di poter disporre di se stessi. E, spesso, un ruolo attivo nella perdita di indipendenza lo giocano le strutture stesse.

«All’inizio, quando sono arrivato in carcere, riuscivo ancora camminare con l’aiuto di stampelle», spiega Marco, che è detenuto dal 2012. «Facevo anche riabilitazione con una cyclette. Ero anche in grado di vestirmi, svestirmi e andare in bagno da solo. Insomma, ero quasi una persona autonoma. Poi sono stato trasferito in un altro istituto penitenziario».

Senza una cyclette adatta e senza la possibilità di fare fisioterapia, Marco è finito in sedia a rotelle. «Nel nuovo carcere non ho potuto fare riabilitazione per tre anni e mezzo», racconta. «Per un po’ ho continuato a camminare, ma senza i giusti esercizi sono finito in carrozzina. E adesso vivo in mano agli altri».

Detenuti disabili

Anche se la situazione varia da istituto a istituto, in Italia sono poche le strutture adatte ad accogliere detenuti disabili, tra marciapiedi e scivoli sconnessi, bagni inadeguati, assenza di ascensori, carrozzine con le ruote bucate e ausili sanitari assenti o inefficaci. Tanto che anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte l’Italia per il trattamento riservato ai detenuti con disabilità.

«Il trattamento che il personale sanitario mi riserva è inumano», racconta Marco. «Mi hanno anche dimenticato nel bagno. Non ho chi mi taglia la carne o chi mi lava la tazza con cui faccio colazione. Ma io chiedo solo di andare in bagno o di essere accompagnato a letto. Il personale sanitario mi umilia: non denuncio per paura di ritorsioni».

La riforma del 2008, che ha trasferito le competenze in materia di sanità penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale ha finito per complicare il quadro. Come spiega Sandro Libianchi, Coordinamento Nazionale per la Salute nelle Carceri Italiane (CoNOSCI):

«Non c’è comunicazione tra Giustizia e Sanità». E quindi i problemi stagnano. «In molti casi non c’è nemmeno la garanzia di ambienti adeguati alle limitazioni. Tutte le carceri dovrebbero essere adeguate alla disabilità. In realtà, sono rarissime le strutture con bagni attrezzati. Questo perché il numero di disabili è basso». Anche i dispositivi sanitari sono carenti. «C’è una disputa tra Sanità e Giustizia su chi li debba fornire», dice Libianchi.

Una figura a cui le strutture fanno ricorso nel caso di detenuti disabili è quella del “piantone”, un altro detenuto che si prende cura della persona con disabilità in cambio di soldi. «Non hanno, però, una formazione adeguata», spiega Libianchi. «La soluzione potrebbe essere quella di impiegare caregiver esterni. Ma non sono previsti dai budget regionali. Ci vorrebbero fondi aggiuntivi». E i problemi non finiscono qui.

«Una rete territoriale di caregiver si traduce poi nell’avere persone disponibili a chiamata, che si metterebbero a disposizione per un periodo limitato di tempo. Senza contare che il carcere resta un luogo poco allettante dove lavorare». Per i detenuti disabili, quindi, il carcere si configura più come un accanimento terapeutico che come un luogo dove vedere rispettate le stesse garanzie del “fuori”, in attesa di un ritorno all’interno della società. Una pena nella pena che accentua difficoltà e fragilità, come in un eterno ritorno. (rollingstone.it)

Sostieni il Blog

Il tuo contributo è fondamentale per poter dare un’informazione di qualità. Diventa un Sostenitore, decidi tu quante quote donare!

5,00 €

XoSoft, un esoscheletro robotico che aiuta le persone con disabilità

L’esoscheletro “XoSoft” – realizzato all’interno dell’omonimo Progetto Europeo coordinato da IIT – è un dispositivo robotico soft in grado di assistere persone con disabilità motorie lievi o moderate degli arti inferiori, dovute a patologie legate all’invecchiamento, condizioni congenite, croniche o infortuni come lesioni parziali del midollo spinale. Nei giorni scorsi è stato premiato con il prestigioso “Compasso d’Oro 2022

Il dispositivo si compone di quattro elementi: una tuta in tessuto tecnico, un sistema di attuatori, sensori di analisi e controllo e uno zaino contente un processore che analizza il movimento del paziente e gestisce tutto il sistema.

La tuta è realizzata in Lycra e cucita in modo che le zone corrispondenti alle articolazioni, come anca, ginocchio e caviglia, siano rinforzate da tessuto non estensibile, così da sostenere e agire direttamente sulla struttura muscolo-scheletrica del paziente, trasferendo le forze del sistema di attuazione.

Gli attuatori sono costituiti da una banda elastica connessa all’articolazione che necessita il supporto, e una banda a frizione variabile controllabile mediante pressione neumatica. Questa banda a frizione permette di determinare l’accumulazione e il rilascio della tensione dell’elastico.

Esoscheletro XoSoft

La sua attivazione permette alla banda elastica di trasferire energia al paziente secondo il movimento del ginocchio, dell’anca e della caviglia. Parte del movimento dell’utente è usato per allungare l’elastico caricandolo per poi ricevere assistenza durante la fase successiva di rilassamento dell’elastico stesso.

La modularità del sistema permette di inserire più attuatori a seconda del numero di articolazioni da sostenere, personalizzando l’esoscheletro alle necessità di diversi pazienti.

La camminata è monitorata da due sensori inerziali (Imu) disposti lungo ciascuna gamba, da una soletta sensorizzata presente nelle scarpe del paziente e dei sensori soffici integrati sulla tuta intorno all’area del ginocchio che sono in grado di estimare il movimento dell’articolazione durante la deambulazione. Le informazioni in arrivo dal sistema di sensori vengono trasmesse al processore che è alloggiato nello zaino, dove è presente anche una batteria per alimentare il sistema.

L’interazione con la persona che indossa il dispositivo – ha sottolineato Bernard Hartigan, ricercatore dell’Università di Limerick – insieme con gli aspetti legati all’usabilità e accettabilità sono i prossimi aspetti da approfondire. Tenere conto di questi dati durante tutte le fasi di disegno e sviluppo sono fondamentali”.

I sensori, i sistemi di controllo, ma soprattutto i sistemi di attuazione necessitano di sviluppo tecnologico per poter portare questi dispositivi ad un uso casalingo”, ha precisato Christian Di Natali, ricercatore IIT.

Fino all’11 settembre sarà possibile visionare all’interno dell’Adi Design Museum di Milano il video esplicativo delle caratteristiche tecniche dell’esoscheletro XoSoft, oltre agli altri dispositivi vincitori del premio.

Il Compasso d’Oro è il più antico e prestigioso premio di disegno industriale a livello internazionale e viene assegnato per premiare e valorizzare il design italiano. Gli oggetti premiati vengono scelti dall’Osservatorio Permanente del Design di cui fanno parte critici, storici, designer e giornalisti. Gli oggetti che superano la prima selezione, distinguendosi per l’innovazione nei materiali, nei processi, nelle tecnologie, oppure nel cambiamento dei comportamenti individuali e sociali, nella critica e nella ricerca applicata vengono inseriti nell’annuario Adi Design Index.

L’esoscheletro XoSoft si è aggiudicato il premio “Compasso d’Oro 2022” con la seguente motivazione: “Dal polo del futuro che lavora per l’oggi un’importante ricerca in grado di rendere più naturale il movimento di chi il movimento lo sta perdendo”.

Ogni due anni, una giuria internazionale seleziona, tra gli oggetti inseriti negli annuari del biennio precedente, quelli a cui assegnare il premio Compasso d’Oro.
L’edizione 2022 ha avuto come tema: Sviluppo – Sostenibile – Responsabile.
(Rimodulato da qds.it)

Sostieni il Blog

Il tuo contributo è fondamentale per poter dare un’informazione di qualità. Diventa un Sostenitore, decidi tu quante quote donare!

5,00 €

Parole di Carta: Insight

Se c’è un problema, c’è la sua soluzione – Rubrica a cura di Antonella Carta – Insegnante/Scrittrice – Questa rubrica si propone di passare in rassegna alcune delle piccole-grandi difficoltà del quotidiano di persone con disabilità e, anche con la collaborazione di chi ci è già passato, proporre una strada, senza la pretesa che sia la soluzione

La soluzione dentro di noi (insight)

Di fronte a un problema in genere si spera che la soluzione possa venire dall’esterno o si procede per tentativi, per prove ed errori, o ancora ci si riflette a lungo su o si tenta di comportarsi da manuale riproponendo atteggiamenti messi in atto da altri.

Spesso la verità sta invece in ciò che si sente e non in ciò che si pensa, e la soluzione compare inaspettatamente nella mente.

La nostra società ha purtroppo imparato a desensibilizzarsi, occludendo i canali sensoriali che tanto possono dirci di noi stessi e degli altri. In tal modo viene preclusa, o quanto meno ostacolata, l’intuizione che, immediata e improvvisa, talvolta individua come risolvere un problema senza impelagarsi in ragionamenti farraginosi.

Per poterle dare modo di essere, però, è necessario aprire il canale sensoriale, condizione alla quale è possibile anche individuare il reale bisogno da soddisfare.

Insight

È ciò che la psicologia della Gestalt definisce “apprendimento per Insight”.
Ce ne parla la dottoressa Alessandra Messana, psicologa a indirizzo clinico.

Nell’apprendimento per insight, o intuitivo, accade qualcosa di simile a ciò che è successo nel corso di un esperimento messo in atto da Kohler, in cui uno scimpanzé, dopo aver esplorato gli strumenti a propria disposizione, intuisce la soluzione in un unico passaggio e usa due bastoni per prendere una banana che altrimenti non sarebbe stata accessibile per lui.

Come calare questi concetti nella vita di tutti i giorni e soprattutto quale lezione possiamo trarne?

IL CONSIGLIO

Il più delle volte – afferma la dottoressa Messana – la risposta è data da ciò che già c’è, nel senso che bisogna stare nel qui e ora, vivere il presente pienamente e in modo creativo per poter fare il passo successivo e costruire il futuro. Now for next lo definisce la psicoterapia della Gestalt, l’adesso come base di ciò che sarà nel futuro immediato, mentre il nostro passato fa da sfondo a ciò che siamo nel presente.

Insight

L’insight si fonda proprio su questo, sull’essere pienamente presenti con i nostri sensi per entrare in correlazione profonda con ciò che ci circonda “cocreando il campo”, ossia trovare una soluzione senza passare attraverso un’estenuante catena di tentativi ed errori, entrando in relazione con gli altri e con l’ambiente senza pregiudizi e preconcetti, ma a sensi aperti, permettendo alla soluzione di manifestarsi in modo intuitivo e istantaneo nella nostra mente.”

Quindi la soluzione sta spesso nel “tra”, nella relazione con l’altro o con l’ambiente, se impostata con la spontaneità del pieno contatto.
Per esplicitare il concetto la dottoressa fa ricorso a un esempio, quello delle barriere architettoniche contro cui troppo frequentemente si trovano a scontrarsi una persona con disabilità e il suo caregiver, la persona che se ne occupa a tempo pieno.

La prima cosa da valutare è cosa c’è nel campo: sicuramente il desiderio di risolvere, la relazione tra la persona disabile e il caregiver, il “tra” che, se vissuto aprendo il canale dei sensi, quindi percependo dentro di sé il bisogno dell’altro, può diventare il terreno da cui emerge la soluzione. Talvolta viene fuori in modo istantaneo, con un solo passaggio, altre è necessario procedere per piccoli passi cercando sempre di “sentire” l’altro e venendosi incontro.

A volte può risultare opportuno procedere per adattamenti, quando la soluzione che poteva andar bene in un determinato momento può non essere più efficace in seguito. Non c’è da scoraggiarsi in questo caso, l’essenziale è rimanere in contatto attivando canali profondi e quasi primordiali di comunicazione con l’altro e con l’ambiente, e ciò è possibile solo se rimaniamo pienamente presenti con i sensi che faranno da cassa di risonanza nel trovare nuove soluzioni.

Sostieni il Blog

Il tuo contributo è fondamentale per poter dare un’informazione di qualità. Diventa un Sostenitore, decidi tu quante quote donare!

5,00 €

Parole di Carta: La forza di non mollare

Se c’è un problema, c’è la sua soluzione – Rubrica a cura di Antonella Carta – Insegnante/Scrittrice – Questa rubrica si propone di passare in rassegna alcune delle piccole-grandi difficoltà del quotidiano di persone con disabilità e, anche con la collaborazione di chi ci è già passato, proporre una strada, senza la pretesa che sia la soluzione
Testimonianza di forza di una donna che ce l’ha fatta

Il quotidiano di una donna è in genere fitto d’incombenze: casa, lavoro, famiglia e quant’altro.
Non è sempre facile poter gestire tutto, incastrare gli impegni con precisione millimetrica e farlo mantenendo comunque una certa serenità.

Le cose si complicano se interviene un imprevisto, soprattutto se si tratta di qualcosa di importante come una malattia.

Allora in molti casi, guardandosi indietro, si capisce che la vita condotta fino a quel momento, sia pur caotica e magari stressante, non è nulla rispetto al presente e si sarebbe potuta affrontare anche con meno ansia da prestazione.

Qualcuno tra coloro che ci sono passati racconta che nel periodo immediatamente successivo alla scoperta della malattia non ci si rende immediatamente conto di ciò che si sta per affrontare.Qualcuno tra coloro che ci sono passati racconta che nel periodo immediatamente successivo alla scoperta della malattia non ci si rende immediatamente conto di ciò che si sta per affrontare.

Doriana, una donna, una mamma, un’amica, racconta: “Quando mi hanno diagnosticato il tumore, all’inizio era come se stessi guardando un film, come se la cosa non mi riguardasse direttamente. Le prime lotte cominciano subito, nella ricerca del medico giusto, del centro migliore, nelle prenotazioni e nelle liste d’attesa. E’ come stare in un sogno e tutto è un’incognita. Procedendo con gli esami, si inizia a capire la gravità e allora il primo pensiero va alle persone amate, in primo luogo ai figli se ne hai. Ricordo che prima dell’intervento feci dei regali a ciascuna delle mie figlie e le affidai a persone vicine nel caso qualcosa fosse andata storta.

Come affrontare una situazione del genere senza lasciarsi travolgere dagli eventi e mantenendo la forza e la determinazione per cercare di tornare a star bene? Non ci sono purtroppo ricette valide per tutti, ma ci auguriamo che riportare la testimonianza di una donna che è riuscita a venirne fuori ricostituendo la propria vita possa essere d’aiuto ad altri.

IL CONSIGLIO

I momenti peggiori sono stati quelli successivi ai vari cicli di chemioterapia – aggiunge Doriana – Mi chiudevo in camera giorno e notte, qualunque stimolo mi faceva star peggio. Non appena mi sentivo meglio, mi precipitavo in cucina, cucinavo e mangiavo di tutto. Tutto sommato, il ricordo di quei momenti di sollievo riesce a farmi sorridere, così come l’immagine delle piante del giardino che vedevo quando finalmente mi decidevo ad aprire le persiane e mi sembravano sempre più verdi e brillanti.

Forza delle donne

Riscoprire la bellezza di ciò che di solito si dà per scontato. Un disagio non indifferente, soprattutto per una donna, è l’inevitabile perdita dei capelli che la chemio provoca. Anche in questo caso, cercare dentro di sé lo spirito giusto può fare la differenza.

Doriana ricorda: “Scelsi di tagliarli molto corti per non affrontare il trauma di vederli cadere a ciocche. Mi procurai dei turbanti colorati che mettevo in modo che una parte mi cadesse sulla spalla a mo’ di coda. Ne avevo di vari colori e li abbinavo ai vestiti. In qualche modo diventò un vezzo, m’illudevo di avere i capelli lunghi, incoraggiata anche dal fatto che chi m’incontrava e non sapeva della malattia mi faceva i complimenti per l’estro.

E’ importante anche avere un progetto, un sogno da custodire, programmarne la realizzazione quando la tempesta sarà passata. Proiettarsi nel futuro con un obiettivo da realizzare.

Nelle pause mi dedicavo alla stesura del mio libro-testimonianza Spenderò il mio capitale in cielo e appena sono stata un po’ meglio sono tornata in palestra da allieva, io che ero sempre stata un’istruttrice di fitness musicale. Il pensiero di tornare al mio lavoro mi spaventava, non sapevo se sarei stata in grado dato anche il fatto che le cure mi avevano modificato il fisico. Inoltre avevo già 42 anni e anche questo non giocava a mio favore. Una volta, in un momento di crisi lanciai contro il muro i libri sul pilates che tenevo a casa.

Anche chi ha una buona capacità reattiva, come la nostra amica, può avere momenti in cui si viene sopraffatti dallo scoraggiamento.
Che fare in questi casi? Mollare può sembrare la soluzione più a portata di mano quando le battaglie sono troppo dure e sfiancano.

Eppure: “Per caso mi accorsi che nella palestra che frequentavo c’era una sala aerobica libera e, un po’ per gioco, iniziai a intrattenere alcune delle mie compagne di corso. In breve riuscii a ricostituirmi un gruppo di allieve e da allora, un passo alla volta, ho continuato nel mio cammino d’istruttrice e di mamma, ho gradualmente recuperato le forze fisiche e mentali e rimesso in piedi la mia vita. Oggi ho una mia palestra dove insegno pilates e il mio lavoro continua a essere per me fonte di forza.”

Nei momenti in cui si sta peggio è inevitabile dover affidare la cura dei figli più piccoli ad altri. E’ possibile poi recuperare appieno il rapporto? Come procedere?

A me è successo di riavvicinarmi alle mie figlie riprendendo un po’ alla volta a fare per loro ciò che facevo prima della malattia: cucinare, accudirle, accompagnarle a scuola. E’ così, riprendendo la routine quotidiana a piccoli passi, evitando di colpevolizzarmi per i momenti in cui non avevo potuto esserci, e cercando di dare di me tutto ciò che potevo, che la mia vita ha ripreso il proprio percorso.

(Non sconfiggerai mai la mia anima)

Per concludere, Doriana ci dice che secondo lei tra le cose più importanti rimane la capacità di chiedere aiuto quando se ne ha bisogno e lasciare che al proprio posto entrino altre figure che provvisoriamente possano svolgere i nostri compiti. Se si semina bene, al momento del bisogno qualcuno disposto ad aiutarci si trova.

Sostieni il Blog

Il tuo contributo è fondamentale per poter dare un’informazione di qualità. Diventa un Sostenitore, decidi tu quante quote donare!

5,00 €

Persone sorde, Due bandi per abbattere le barriere e favorirne l’inclusione

Disponibili due nuovi bandi del PIS – Pio Istituto Sordi – uno nazionale, un altro riservato alla città di Milano – per finanziare progetti con attività aggregative, educative, culturali, sportive o di sensibilizzazione e favorire l’inclusione delle persone sorde.

La condizione della sordità è tanto diffusa quanto sommersa. Secondo l’OMS, nel mondo sono circa 460 milioni le persone in condizione di perdita dell’udito di cui 34 milioni in età infantile, con un progressivo incremento nel prossimo futuro.

La condizione della sordità è tanto diffusa quanto sommersa. Secondo l’OMS, nel mondo sono circa 460 milioni le persone in condizione di perdita dell’udito di cui 34 milioni in età infantile, con un progressivo incremento nel prossimo futuro.

Il PIS, Pio Istituto Sordi, storica Istituzione educativa milanese oggi divenuta Fondazione di erogazione, mette a disposizione due dotazioni, una a rilevanza nazionale una locale rispettivamente di 80 e 30mila euro per supportare attività mirate sulla disabilità uditiva. Le scadenze per la presentazione delle candidature sono 31 maggio e 30 giugno.

La sordità neonatale è la più frequente disabilità sensoriale congenita e, sempre secondo l’OMS, incide in circa 1-4 casi ogni mille abitanti. In Italia sono almeno 90mila le persone con disabilità uditiva (certificati ai fini INPS), con un’incidenza intorno al 1,5%. Perdere l’udito in età precoce spesso significa incorrere in difficoltà di acquisizione del linguaggio con tutto ciò che ne consegue: disagio, rischio di isolamento, difficoltà di comunicazione e relazione.

In Italia le persone che hanno una perdita uditiva sono circa 5 milioni di cui il 75% ha una perdita uditiva leggera o media e il 5% grave o profonda. La maggior parte di loro ha perso l’udito dopo l’acquisizione del linguaggio, soprattutto a partire dai 50 anni di età. Un terzo delle persone sopra i 65 anni convive con una perdita di udito. In Europa la perdita di udito coinvolge oltre 34 milioni di persone ed è considerata condizione a vario titolo disabilizzante.

Le opportunità messe costantemente a disposizione dal PIS sono molte, tutte focalizzate sull’abbattere le barriere che incontra chi convive, a diverso titolo, con la sordità e siamo felici di valutare e accogliere idee e progetti innovativi e mirati” riferisce Daniele Donzelli, Presidente del PIS.

Di inizio anno è anche la messa online del nuovo sito web, una vetrina più moderna e intuitiva, ricca di informazioni per conoscere la storia, le attività, i progetti svolti e le opportunità per realtà onlus e singoli individui coinvolti a vario titolo con la disabilità uditiva.

Persone sorde

Anche in pandemia la Fondazione non si è fermata: sono state distribuite mascherine trasparenti per consentire la labiolettura, sono stati organizzati eventi sportivi come il progetto sostenuto da Fondazione Vodafone Campioni Sordi ieri, oggi e domani, sono state erogate borse di studio per giovani universitari con sordità (opportunità tuttora attiva con un bando ad hoc in scadenza al 30 settembre), è stata avviata una collaborazione per l’attivazione di uno sportello di consulenza psicologica gratuito per i soggetti più isolati a causa dei lockdown e sono state, infine, sostenute iniziative all’estero destinate alle persone con disabilità uditiva nei paesi in via di sviluppo.

Nata come istituzione scolastica nel lontano 1854, la Fondazione ha mantenuto negli anni il suo ruolo di guida per le famiglie e le persone che devono fare i conti con la sordità e gli enti che si adoperano per abbattere pregiudizi e barriere favorendo l’inclusione a scuola, al lavoro e nelle relazioni sociali quotidiane.

La sua trasformazione da Istituto pedagogico in Fondazione di erogazione di contributi la rende oggi una delle realtà di riferimento nel Terzo Settore per questa forma specifica di disabilità. “Valuteremo ogni progetto, di qualunque natura, che abbia come focus l’inclusione delle persone sorde – commenta Stefano Cattaneo, Direttore del PIS – e metta la persona sorda al centro, in linea con le raccomandazioni della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e con lo spirito della nostra Fondazione”.

Il PIS partecipa stabilmente anche al Tavolo Disabilità sensoriali della Comune di Milano, a UNEBA Unione Nazionale Istituzioni e Iniziative di Assistenza sociale, alla Commissione Gioco al Centro – Parchi gioco per tutti della Fondazione di Comunità Milano Città Sud Ovest ed Est Martesana. Proprio con la Fondazione di Comunità, ha preso vita il secondo bando (scadenza 30 giugno) riservato ad attività con sviluppo sulla città di Milano per un massimo di 5mila a progetto finanziato.

Il PIS finanzia le proprie attività con fondi propri e donazioni, e proprio la dotazione del Fondo Sordità Milano costituito in Fondazione di Comunità Milano può essere incrementata con ulteriori contributi liberali da parte della cittadinanza.

Conoscere tutte le attività legate al mondo della sordità potrebbe far meglio percepire l’entità del fenomeno, la sua diffusione in Italia e quanto questa sia una limitazione le cui conseguenze vengono spesso percepite meno rispetto a svantaggi più facilmente visibili.

La sordità influisce molto sulle relazioni interpersonali e sociali – confermano dal Pio Istituto dei Sordi – per cui serve sensibilizzare le Istituzioni e la società civile su quanto sia importante fare qualcosa ogni giorno per abbattere barriere che spesso non riusciamo nemmeno a immaginare. Questo, soprattutto per bambini e giovani, alle prese con l’inserimento a scuola, le amicizie, lo sport e il mondo del lavoro”.

Favorire anche attraverso questi bandi nuove attività inclusive resta il fine costante del PIS: per ogni dettaglio sui requisiti e informazioni consultare il sito o contattare gli organizzatori.
https://www.pioistitutodeisordi.org/

Sostieni il Blog

Il tuo contributo è fondamentale per poter dare un’informazione di qualità. Diventa un Sostenitore, decidi tu quante quote donare!

5,00 €