Re Minore: Ascolto e Azione

Rubrica a cura di Elena Beninati – Giornalista/Fotografa

Il vuoto è l’anticamera della possibilità, molto più spesso, però, l’energia libera senza contenimento si annichilisce e trasforma il vuoto in un limite, creando una immensa solitudine. Nei soggetti sani l’ostacolo alla propria realizzazione è determinato esclusivamente dalla carenza di volontà, e ogni imprevisto è superabile virando in positivo un atteggiamento statico e attendista. Per chi è caratterizzato da disabilità, fisica o psichica, l’ostacolo, tangibile impone all’orizzonte un ulteriore limite.

Da un lato il vuoto è lo sfondo inaugurale di ogni impresa, ma dall’altro il vuoto è l’enigma che vi si interpone nella comunicazione tra un uomo e ciascun altro.

A. G. Gargani

Cosa fare per superare le distanze e assecondare al meglio le proprie potenzialità?
Agire comunicando!
Da un lato vi sono le dissertazioni scientifiche che analizzano il tema del linguaggio e al contempo il tema insaturo della comunicazione, dall’altro vi è l’argomentazione fondante che affronta il dilemma dell’amore quale elemento dinamico dell’essere al mondo. Un mondo complesso articolato nel linguaggio e luogo di incontro.
Un incontro che può avvenire solo in uno spazio di fiducia e autenticità, intesa, quest’ultima, come categoria che regola l’essenza della salute psichica nel rispetto dell’unicità dei soggetti, abili o disabili allo stesso modo.

“Quando si vive soli non si parla troppo forte, perché si teme la vuota risonanza, e tutte le voci suonano in maniera diversa nella solitudine..

L’umanità ha sempre cercato di cogliere la verità oltre ogni apparenza e ben al di là dell’oggettività. La stessa umanità però, talvolta si dimentica di trovare il giusto mezzo per accedervi senza inganno. Il mezzo è un linguaggio comune che permetta di accostarsi all’altro superando la differenza.
Grazie ad una sorta di linguaggio aumentato, in cui entrano in gioco il corpo e le relazioni sociali, è possibile comprendere il “diverso”, in una dinamica di accettazione reciproca in cui svanisce la “diversità” e permane l’autenticità.

Se è vero che si può comprendere in senso vero e proprio solo ciò che ha lo stesso modo di essere di colui che comprende, il linguaggio deve essere capace di penetrare la natura della differenza. Il linguaggio è uno strumento che ci permette di agire sul mondo, come diceva il filosofo linguista Searle: “facendo cose con le parole”. La funzione di apertura della lingua, che ci orienta nel mondo secondo prospettive diverse, ci permette di incontrare l’altro nella sua diversità, ma soprattutto in un rapporto immediato, che ci apre alla condivisione e alla socialità.
Senza questa base di reciproca comprensione qualsiasi chiamata dall’altro cade nel vuoto. È proprio l’incomprensione ciò che inibisce il rapporto in qualsiasi forma di malattia.

Dunque affinché la voce del “malato” si trasformi in un appello, e quindi in una azione che reclama attenzione e vicinanza, va creato uno spazio di ascolto e luogo “vuoto” di condivisione, in cui ogni forma di espressione sia rispettata e non squalificata. Altrimenti, come ammoniva Nietzsche, si perde la vicinanza rischiando di sprofondare nel suo opposto.

(Vietata la riproduzione)

“Disabilità non significa inabilità, ma semplicemente adattabilità”

Avere una disabilità non significa necessariamente essere inabile a fare qualcosa, ma bisogna adattarsi alle difficoltà che si presentano; questo è quello che ha affermato Chris Bradford in uno dei suoi aforismi e sul quale vogliamo soffermarci. L’adattamento nel mondo della disabilità assume un ruolo fondamentale nelle relazioni sociali quotidiane. Lo spirito di adattamento nei rapporti interpersonali non riguarda solo la persona con disabilità, ma soprattutto una persona abile che entra in relazione con una persona che presenta una qualsiasi inabilità è necessario che si adatti alle sue esigenze. Ma adattarsi all’altro, soprattutto se si tratta di una persona con disabilità, è una cosa facile da fare? Siamo in grado di cambiare i nostri modi di agire per il prossimo? Adattarsi ad una persona con disabilità assume un valore importante, per non farlo sentire un diverso, per non fagli pesare il fatto di avere una disabilità e quindi di essere inabile in qualcosa.
Nella società ogni persona può ricoprire un ruolo anche se presenta una disabilità. Molto spesso però la società non è in grado di fare questo perché nella natura umana purtroppo esiste un’altra “disabilità” che si chiama egoismo, dove ognuno pensa a se stesso e con i suoi comportamenti tenta di escludere l’altro. In particolare quando si tratta di una persona con disabilità invece di tentare di adattarsi alle sue esigenze, non si dà l’opportunità eliminando tutti quegli ostacoli che lo potrebbero fare sentire un diverso. La società, lo Stato in generale, ha il compito di eliminare tutte quelle barriere che potrebbero escludere l’altro adattandosi alle esigenze dei propri cittadini disabili e no. Uno dei principi fondamentali nella nostra Carta Costituzionale è l’uguaglianza dove tutti devono avere gli stessi diritti-doveri ma per fare questo bisogna realizzare delle politiche adatte alle esigenze della popolazione, soprattutto quando questa ha una disabilità. Un’azione che lo Stato può applicare per adattarsi alle esigenze delle persone con disabilità e per non farli sentire diversi ad esempio può essere l’abbattimento delle barriere architettoniche; adattare quindi le strutture pubbliche e private per l’accesso alle persone con disabilità. Adattabilità significa anche mettersi nei panni dell’altro, capire le sue esigenze e magari fare un passo indietro nelle proprie convinzioni.

(dedalomultimedia.it)

Design e disabilità: le ultime novità in mostra a New York

Fino al 3 settembre 2018, il museo Cooper Hewitt di New York ospita prodotti, progetti e servizi sviluppati con e per persone con disabilità, fisiche, cognitive e sensoriali. Per riflettere sul ruolo del design all’interno della società, anche a tutela di specifiche fasce della popolazione.

Accompagnata dal primo Cooper Hewitt Lab – un programma di iniziative di due settimane, in arrivo a febbraio, che include conferenze, attività, workshop ed eventi destinati a specialisti del settore e non, sui temi dell’accessibilità e dell’inclusione – la mostra Access+Ability riunisce prodotti, progetti e servizi sviluppati con e per persone con disabilità, fisiche, cognitive e sensoriali.
Compresa in una serie di esposizioni che intendono riflettere sul ruolo del design all’interno della comunità, la rassegna testimonia le evoluzioni avvenute nel corso dell’ultimo decennio nel cosiddetto “design inclusivo”, facendo ricorso a circa 70 esempi, eterogenei per scopo, materiali e metodo di produzione.
Dai dispositivi per la mobilità agli utensili da cucina; dalle app “intelligenti” che aiutano nelle interazioni sociali e nell’esperienza di conoscenza dello spazio, ai dispositivi di controllo dei tremori degli arti superiori, per “riguadagnare” l’uso delle mani, nelle tre sezioni tematiche – Moving, Connecting e Living – Access+Ability promuove anche l’interazione con il pubblico.
Una selezione di progetti interattivi e alcuni prototipi dislocati lungo il percorso espositivo punta infattial coinvolgimento diretto dei visitatori. Una modalità scelta per sottolineare l’importanza di operare con figure competenti in questo settore, oltre che con i futuri utenti stessi, e di mostrare come difficoltà fino a qualche anno fa insormontabili possano essere superate con l’uso delle nuove tecnologie.

(SkyArteHD)

Pensare il disabile adulto

Per un soggetto con sindrome di Down, portare a spasso il cane, in una grande città – è un segno di forte autonomia, una sfida, una scommessa. Basta poco – una indecisione mentre attraversa la strada – per finire sotto un autobus in corsa – o mostrarsi insicuro – per essere avvicinato da sconosciuti, a volte male intenzionati, ed essere deriso, o diventare il bersaglio di giochi crudeli, o correre il rischio di essere derubato di qualsiasi cosa, del portafoglio, delle chiavi di casa, perfino del cane. Tuttavia Mario, un giovane Down accetta la scommessa e ogni giorno esce con il suo cane al guinzaglio, desideroso di andare incontro alla vita. Il giovane cammina barcollando leggermente mentre il cane tira dritto, sa benissimo dove andare, conosce a memoria la strada fino al giardino pubblico più vicino
Matteo è un ragazzo Down di 22 anni. Frequenta ancora le scuole superiori. È rimasto figlio unico da quando il fratello è scomparso in un incidente stradale. Da allora la madre ha riversato su di lui un amore esclusivo ed iperprotettivo. Matteo a scuola ha una autonomia di movimento pari a quella dei suoi compagni di classe, ama la compagnia, scherza e ride con i professori e i compagni, è sensibile al fascino femminile e si innamora facilmente, anche di donne più grandi di lui. Quest’anno ha seguito a scuola un programma di attività assistite dagli animali volto a sostenere l’autonomia delle persone con disabilità. Matteo ha familiarizzato subito con Eva, il cane di razza golden che era al centro delle attività: le accarezzava il mantello con delicatezza ed Eva ricambiava il piacere offrendosi a quelle carezze con totale fiducia. Pur capace di orientamento e di autonomia comportamentale, Matteo non esce mai da solo per strada – la madre lo accompagna ovunque – tuttavia potrebbe uscire per brevi tragitti accompagnato da un cane, se solo la madre riuscisse a vincere le proprie paure.
Giulia, una ragazza di 19 anni con un leggero ritardo cognitivo, dall’aspetto fragile e minuto – ad un primo sguardo sembra una delicata e graziosa bambina, anche se vestita e truccata in modo sbarazzino – esce da sola, di giorno, per andare a prendere la sorellina a scuola. La mamma le affida anche altri compiti da ragazza grande, come fare la spesa, badare alla sorelle più piccole, stirare, cucinare. Giulia ha conseguito quest’anno la maturità classica, e si prepara a seguire dei corsi professionali post diploma, probabilmente un corso di assistente all’infanzia. “Ho già delle competenze, ho fatto esperienza con le mie sorelle e i miei cuginetti – dice Giulia, alquanto serena sul suo futuro – voglio rendermi autonoma economicamente, voglio mantenermi da sola”. Durante gli anni di liceo la ragazza ha frequentato a scuola diversi laboratori (cucina, artigianale-artistico, musicale, scientifico, informatico, sportivo), partecipando a feste, gite, gare e spettacoli, brillando sempre per entusiasmo e voglia di fare, facendosi amare da tutti, acquisendo autostima e senso di autoefficacia. Ha anche usufruito di una borsa lavoro, e prima del termine degli studi ha seguito un tirocinio in un supermercato (sistemava la merce negli scaffali) vicino al luogo dove abita, in modo da essere autonoma anche nello spostamento verso la sede lavorativa. Non si arrende Giulia, non resterà chiusa in casa a fare la donnina di casa. Forse riuscirà anche a crearsi una famiglia propria, ad amare e a farsi amare in modo maturo e consapevole.
Anche Giusi Spagnolo, palermitana affetta da sindrome di Down, ha deciso di andare incontro alla vita. Il 21 marzo 2011, Giornata mondiale sulla Sindrome di Down, si è laureata in Beni demoetnoantropologici alla facoltà di Lettere dell’Università di Palermo, presentando una tesi sul ruolo del gioco nell’apprendimento. Giusi ha sempre cercato di evitare che etichette e definizioni le piombassero addosso come un macigno. «Io non sono Down, sono Giusi, Giusi Spagnolo», ripete sin da piccola a parenti ed amici. Una affermazione di identità che rifiuta la marginalità e si apre alla costruzione di un progetto di vita. A Giusi aver conseguito la laurea a 26 anni non basta: «Mi piace lavorare con i bambini – racconta – spero di poterlo fare sul serio».
È talora possibile al soggetto che vive una fragilità o una disabilità intellettiva non totalmente invalidante, organizzarsi attorno ai propri limiti per superarli, sviluppando un percorso di «resilienza» dovuto anche, ma non solo, alle sue caratteristiche personali. Si tratta di un percorso non semplice poiché i pregiudizi e gli stereotipi culturali e sociali hanno per un tempo lunghissimo rinviato alla persona in situazione di disabilità un’immagine negativa che – come sostiene Enrico Montobbio, esperto della relazione d’aiuto nel contesto della disabilità – l’hanno fatta sentire un soggetto in costante terapia e dunque necessitante di assistenza. La Pedagogia Speciale è in parte riuscita a scardinare tale concezione e a dimostrare che, se la persona è supportata da una rete di sostegno diffusa, se la fragilità non è vista come limite, mancanza o problema in quanto tale (modello medico della malattia da curare e modello pedagogico “antico” del bambino da educare) non vi sono limiti alle possibilità di emancipazione e realizzazione personale.
Il compito di coloro che accompagnano lo sviluppo di un soggetto con disabilità è eminentemente quello di favorire l’emergere di una soggettività autentica e dunque di far assumere alla persona interessata da disabilità capacità di autodeterminazione e orientamento nelle proprie scelte di vita.
Ma come sostenere l’emergere dell’identità della persona fragile? Lo sviluppo dell’identità è strettamente legato all’esperienza del riconoscimento, all’essere percepito e rispettato nella propria unicità. Il rispetto e il sostegno alla dignità della persona, in special modo della persona con fragilità, comporta in primo luogo il riconoscimento del suo sé e del suo bisogno di percepirsi capace di rispondere ad alcuni bisogni fondamentali.
“La creazione di un sé adulto rappresenta il presupposto indispensabile per poter vivere, relazionarsi e percepirsi come adulto, nella maggior misura possibile – scrive Silvia Maggiolini, ricercatore presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel saggio Pedagogia speciale oltre la scuola (a cura di Antonello Mura, Edizioni Franco Angeli, 2011) -. Si tratta tuttavia di un processo che non si sviluppa in un solo istante del ciclo vitale, quando si conclude l’iter scolastico e diviene necessario, come spesso accade, fare i conti sul destino del ragazzo, sul possibile inserimento lavorativo, quando le dinamiche dello sviluppo affettivo e sessuale richiedono la risoluzione di molte problematiche emergenti, oppure quando i genitori iniziano ad avvertire il proprio naturale declino, ed il venir meno della salute e della forza rende inevitabile il confronto con il presente ed il futuro della persona disabile. È evidente, invece, che il percorso deve iniziare sin dalle fasi di vita precedenti, dalla più giovane età del soggetto, sia in famiglia, sia, soprattutto, all’interno delle istituzioni deputate alla sua formazione, e chiamate a sostenerlo nella costruzione di una realistica immagine di sé, e nell’apprendimento graduale delle capacità necessarie per poter agire, il più possibile, da soli”.
Il punto di partenza è voler immaginare persone con disabilità come capaci anche di assumere un ruolo e un lavoro, di partecipare alla vita della collettività, di sentire di farne parte; a partire da qui si potranno sperimentare percorsi, trovando risorse nuove e insospettate.
(lastampa.it)

di Giovanni Cupidi