Re Minore: Col tempo sai…

Rubrica a cura di Elena Beninati – Giornalista/Fotografa

Il senso ontologico-metafisico del concetto di tempo, da sempre inteso come una delle strutture portanti della condizione umana, è uno dei massimi indicatori dello stato di salute degli individui. Una diversa articolazione del tempo soggettivo, nei confronti del tempo comunemente inteso, ritmato sull’orologio sociale ancor più che biologico, è capace di provocare quelle situazioni umane di disagio etichettate sotto le definizioni di angoscia e disperazione, ottima anticamera di uno stato di malessere che può condurre alla malattia mentale. Nella vita quotidiana le persone, abili o inabili, sane o “malate”, fanno i conti con questa imprescindibile temporalizzazione dell’esistenza e delle proprie azioni.

È quando sentiamo di non poter influire sulle cose più importanti che ci accadono, quando gli eventi sembrano obbedire agli ordini di qualche potere estraneo e inesorabile, che rinunciamo a cercare di agire sulle cose e a tentare di modificarle. Per entrare in rapporto con il mondo esterno deve sussistere la speranza di poter agire su di esso. Immergersi soggettivamente nella lacerazione tra tempo interiore e tempo mondano, permette di rintracciare i nessi che permettono di giungere alle esperienze limite della patologia umana.

La capacità di agire intenzionalmente si fonda sulla nozione delle conseguenze probabili delle nostre azioni. Ciò non è possibile senza un orientamento nel tempo e nello spazio e senza che gli eventi così osservati si organizzino in termini causali. Ma nemmeno questa capacità di predire gli eventi futuri partendo da indizi esatti può spiegare come e perché si divenga umani.

Queste le parole di Bruno Bettelheim esponente di spicco della psicanalisi del secolo scorso.

L’orientamento nel tempo e nello spazio, dunque, oltre a precedere i nessi di causalità tra gli eventi, detta il senso di direzionalità, senza la quale la vita non si potrebbe considerare neppure vita. Il tempo, che storicizza le nostre esperienze, le incasella in un discorso di continuità che ne definisce il senso, senza il quale non avremmo né i singoli fenomeno temporali, né la concezione di futuro.

L’uomo, che ha imparato a organizzare la propria vita in funzione del tempo e dello spazio, considera sia l’aspetto ciclico che quello direzionale. Il suo comportamento intenzionale, infatti, è sempre guidato da un progetto, nel senso di conseguimento di un fine ultimo verso cui il progetto orienta tutti gli sforzi. L’umanità, da sempre, per difendersi dall’angoscia dell’imprevedibile è andata alla ricerca del principio di causalità, in modo da giustificare i fatti e gli eventi che sfuggivano al suo controllo. In un mondo privato della sua causalità, assistiamo alla totale assenza di progetto e la predittività scompare.

Nella malattia, che si esplica proprio nella mancanza di intenzionalità, il soggetto si sente sprofondare nell’avvenire, urtando, nella sua disperata ricerca di salvezza, incontro a categorie temporali così sfalsate da risultare inapplicabili. Perso il contatto vitale e creativo con la realtà, il collegamento tra passato e futuro si inceppa irrimediabilmente, e senza alcuna possibilità di retrocessione, ormai fissato ad un tempo irreale e immobile, pietrificato nell’assenza di temporalizzazione, l’individuo sprofonda in quella dimensione che gli psichiatri definiscono “momentaneizzazione” del tempo, in cui la vita è deserto.
Senza tempo non v’è salvezza. Ma il tempo rapportato all’infinito non ammette né la vita né la morte. E dunque, in tale condizione di alienazione temporale, l’individuo non può che sentirsi incastrato fra lo spazio e il vuoto, che determinano la perdita del suo contatto col mondo.

Svanito il legame col mondo esterno, il malato si trova in una condizione atemporale in cui la perdita del senso coincide con la frattura tra il mondo e il noi. La peggiore delle disabilità!
In uno spazio privo di temporalità si coglie il rallentare e l’arrestarsi del tempo dell’io rispetto a quello esterno, e il soggetto si trova immerso in una perfetta disarticolazione, che scompagina radicalmente il tempo. Scriveva Pascal:

Il presente non è mai il nostro fine: il passato e il presente sono dei mezzi, solo l’avvenire è il nostro fine. Così noi non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e disponendoci sempre ad essere felici è inevitabile che non lo saremo mai.”

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Re Minore: Ascolto e Azione

Rubrica a cura di Elena Beninati – Giornalista/Fotografa

Il vuoto è l’anticamera della possibilità, molto più spesso, però, l’energia libera senza contenimento si annichilisce e trasforma il vuoto in un limite, creando una immensa solitudine. Nei soggetti sani l’ostacolo alla propria realizzazione è determinato esclusivamente dalla carenza di volontà, e ogni imprevisto è superabile virando in positivo un atteggiamento statico e attendista. Per chi è caratterizzato da disabilità, fisica o psichica, l’ostacolo, tangibile impone all’orizzonte un ulteriore limite.

Da un lato il vuoto è lo sfondo inaugurale di ogni impresa, ma dall’altro il vuoto è l’enigma che vi si interpone nella comunicazione tra un uomo e ciascun altro.

A. G. Gargani

Cosa fare per superare le distanze e assecondare al meglio le proprie potenzialità?
Agire comunicando!
Da un lato vi sono le dissertazioni scientifiche che analizzano il tema del linguaggio e al contempo il tema insaturo della comunicazione, dall’altro vi è l’argomentazione fondante che affronta il dilemma dell’amore quale elemento dinamico dell’essere al mondo. Un mondo complesso articolato nel linguaggio e luogo di incontro.
Un incontro che può avvenire solo in uno spazio di fiducia e autenticità, intesa, quest’ultima, come categoria che regola l’essenza della salute psichica nel rispetto dell’unicità dei soggetti, abili o disabili allo stesso modo.

“Quando si vive soli non si parla troppo forte, perché si teme la vuota risonanza, e tutte le voci suonano in maniera diversa nella solitudine..

L’umanità ha sempre cercato di cogliere la verità oltre ogni apparenza e ben al di là dell’oggettività. La stessa umanità però, talvolta si dimentica di trovare il giusto mezzo per accedervi senza inganno. Il mezzo è un linguaggio comune che permetta di accostarsi all’altro superando la differenza.
Grazie ad una sorta di linguaggio aumentato, in cui entrano in gioco il corpo e le relazioni sociali, è possibile comprendere il “diverso”, in una dinamica di accettazione reciproca in cui svanisce la “diversità” e permane l’autenticità.

Se è vero che si può comprendere in senso vero e proprio solo ciò che ha lo stesso modo di essere di colui che comprende, il linguaggio deve essere capace di penetrare la natura della differenza. Il linguaggio è uno strumento che ci permette di agire sul mondo, come diceva il filosofo linguista Searle: “facendo cose con le parole”. La funzione di apertura della lingua, che ci orienta nel mondo secondo prospettive diverse, ci permette di incontrare l’altro nella sua diversità, ma soprattutto in un rapporto immediato, che ci apre alla condivisione e alla socialità.
Senza questa base di reciproca comprensione qualsiasi chiamata dall’altro cade nel vuoto. È proprio l’incomprensione ciò che inibisce il rapporto in qualsiasi forma di malattia.

Dunque affinché la voce del “malato” si trasformi in un appello, e quindi in una azione che reclama attenzione e vicinanza, va creato uno spazio di ascolto e luogo “vuoto” di condivisione, in cui ogni forma di espressione sia rispettata e non squalificata. Altrimenti, come ammoniva Nietzsche, si perde la vicinanza rischiando di sprofondare nel suo opposto.

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