Covid: Un miliardo di euro in pensioni che l’Inps risparmia ogni anno

Considerando l’alternativa, invecchiare è la miglior cosa che possa capitare nella vita. Possibilmente in salute. Sappiamo che purtroppo non va sempre così. In Italia ci sono 3 milioni di non autosufficienti (5% della popolazione) e il loro numero è destinato a raddoppiare entro il 2030. Parliamo di persone che non sono in grado di fare niente da soli e hanno bisogno di un accompagnamento. E allora proviamo a metterci nei loro panni: cosa devono fare per avere il sostegno a cui hanno diritto?

In Italia ci sono 3 milioni di non autosufficienti (5% della popolazione) e il loro numero è destinato a raddoppiare entro il 2030

Odissea tra uffici e sportelli

Per il riconoscimento di una invalidità al 100% perché non riesco a camminare, lavarmi, vestirmi né a mangiare senza l’aiuto di un accompagnatore, devo andare dal medico di famiglia che mi fa la certificazione, che poi invio all’Inps per ottenere un codice identificativo. Con questo codice vado a fare la visita medica all’Asl, e poi presento online la domanda. Ma se non ho dimestichezza posso rivolgermi ad un patronato. A questo punto il mio caso viene esaminato da una commissione presieduta da un medico Inps. Una volta ricevuto dall’Istituto di previdenza il verbale di indennità civile, compilo il modulo AP70 che mi consente di ricevere dalla stessa Inps l’indennità di accompagnamento di 522,10 euro al mese, indipendentemente dal reddito. Non ci sono dati ufficiali sui tempi di questo iter, ma le esperienze raccolte sul campo dicono che passano dai cinque ai sei mesi.

Una commissione diversa per ogni servizio

Da non autosufficiente ho poi bisogno di altre cose: un posto in una struttura diurna che mi ospita per sei/otto ore durante il giorno; dell’infermiere che viene a casa (si chiama Adi, e sta per Assistenza domiciliare integrata), oppure dei pannoloni. Devo quindi rivolgermi all’Asl, perché questi servizi sono finanziati dal Sistema sanitario nazionale. Ogni Regione, e perfino ogni Asl, è organizzata a modo suo. In linea di massima queste richieste passano da tre commissioni diverse dove un geriatra, uno psicologo, un infermiere e un medico di famiglia decidono se ho diritto o meno a quel che chiedo.

Se ho un reddito basso e nessun familiare in grado di occuparsi di me, e ho bisogno di qualcuno che mi aiuti ad alzarmi dal letto, a vestirmi e a mangiare, mi reco agli sportelli dei Servizi sociali del Comune, dove un’altra commissione valuterà se mi spetta il voucher per pagare quello che in gergo tecnico è il Sad, ossia il Servizio di assistenza domiciliare. Ma sempre il Comune, oltre al servizio sanitario, può mettere a disposizione strutture semi-residenziali per trascorrere la giornata. Morale: se beneficio dell’indennità di accompagnamento dell’Inps, dell’assistenza domiciliare del Ssn e di servizi semi-residenziali del Comune devo passare da tre iter diversi. Ognuno con i suoi tempi e criteri di accesso. Un calvario per le famiglie che rende di per sé sfinente e disincentivante richiedere il sostegno che spetta.

Morale: se beneficio dell’indennità di accompagnamento dell’Inps, dell’assistenza domiciliare del Ssn e di servizi semi-residenziali del Comune devo passare da tre iter diversi

Sostegno solo a un anziano su due

Il quadro è così frammentato che nemmeno i ministeri competenti oggi possiedono una mappa completa della situazione reale: né sul tasso di copertura dei servizi, né sui costi perché le varie banche dati non comunicano tra loro. Una stima è appena stata realizzata dal Cergas-Bocconi. Gli anziani che ricevono l’indennità di accompagnamento sono 1,4 milioni, per una spesa pubblica di 8,8 miliardi di euro. Di questi 911 mila anziani beneficiano anche di servizi domiciliari: in 779 mila dall’Asl, mentre in 131 mila dal Comune. Per quel che riguarda l’assistenza presso i centri diurni, 270 mila anziani la ricevono nelle strutture semi-residenziali dei Comuni, mentre 24 mila dal sistema sanitario nazionale. La spesa pubblica totale per questi servizi è di 200 milioni. Il costo complessivo ammonta a 11,16 miliardi, che diventano 15,22 se ci aggiungiamo le case di riposo, dove sono ospitati altri 287 mila anziani.

Una spesa consistente per interventi che tuttavia raggiungono poco più del 50% degli anziani non autosufficienti e con servizi scarsi. Basti pensare che le ore di assistenza a domicilio con l’Adi sono in media 21 in un anno, mentre per il Sad la spesa media annua in voucher è di 2.090 euro. Di fatto la cura degli anziani viene scaricata sulle famiglie: sono 8 milioni i familiari che assistono non autosufficienti.

Per supplire alla mancanza di assistenza pubblica è stata fatta la legge 104 del 1992: i parenti fino al terzo grado possono prendere 3 giorni al mese di permesso retribuito per assistere la persona bisognosa assentandosi dal lavoro: da un lato ciò è insufficiente per chi è solo, dall’altro la norma si presta a una lunga serie di abusi difficilmente controllabili. Inoltre si aggiungono un milione di badanti, per una spesa complessiva di 6,8 miliardi. E quando le famiglie non sono in grado di pagare di tasca loro i servizi domiciliari o semiresidenziali, gli anziani finiscono ricoverati in modo improprio in ospedale.

Il Recovery Plan: gli investimenti e la promessa di riforma

In Italia una riforma è attesa dalla fine degli anni Novanta. Ora sono previsti 500 milioni di investimenti in «Sostegno alle persone vulnerabili e prevenzione dei ricoveri» e 3 miliardi alla voce «Assistenza domiciliare». I soldi arriveranno dal Recovery Plan che ha raccolto alcune delle proposte sviluppate dal Network Non Autosufficienza, coordinato da Cristiano Gori, e promosse e sostenute da decine di associazioni fra cui Caritas, il Forum Diseguaglianze e Diversità e Cittadinanzattiva.

Dal Recovery Plan arriva anche la promessa di realizzare con un’apposita legge, da varare entro la primavera 2023, una «riforma organica degli interventi (…). I suoi cardini saranno la semplificazione dei percorsi di accesso alle prestazioni, un rafforzamento dei servizi territoriali di domiciliarità, e quando la permanenza in un contesto familiare non è più possibile, la progressiva riqualificazione delle strutture residenziali». Ovvero: meno burocrazia, più assistenza a casa e più case di riposo. Come tradurre nella pratica questi intenti, e integrarli di quel manca, è scritto invece nelle proposte di Francesco Longo e Gianmario Cinelli del Cergas-Bocconi, presentate nelle scorse settimane ai ministeri della Salute e del Lavoro e politiche sociali. I ricercatori del Cergas-Bocconi hanno elaborato una proposta di riforma complessiva del sistema che prevede di istituire un servizio nazionale per gli anziani non autosufficienti, come avvenuto nel 1978 per il Ssn.

Più assistenza senza aumento di spesa

Il nuovo sistema si fonda su tre elementi chiave. In primo luogo, facciamola finita con anziani e famiglie che devono peregrinare all’Inps, all’Asl e ai Comuni e istituiamo un’unica commissione che stabilisce chi può avere accesso ai servizi di sostegno. In secondo luogo, diamo un’assistenza commisurata alle effettive condizioni di salute degli anziani. Oggi il sostegno è uguale per tutti gli assistiti. Ad esempio, ricalcando il modello tedesco introdotto nel 1995, un anziano in condizione di autosufficienza limitata che sceglie un aiuto in denaro riceverebbe 288 euro al mese; un non autosufficiente che sceglie l’assistenza a domicilio e in strutture residenziali beneficerebbe di servizi per 1.815 euro al mese. Infine, bisogna affrontare di petto la questione delle badanti, spesso non in grado di assistere gli anziani adeguatamente e alle quali oggi lo Stato non riconosce il ruolo di cura. Vanno formate e regolarizzate: oggi il 60% sono clandestine.

Sarebbe, dunque, giusto indirizzare verso l’assistenza quel miliardo di euro in pensioni all’anno che l’Inps sta risparmiando sui morti Covid

Senza spendere un euro in più, ma solo riorganizzando il sistema si possono assistere meglio 590.000 anziani in più. Ma dal totale restano sempre esclusi un milione di non autosufficienti. Sarebbe, dunque, giusto indirizzare verso l’assistenza quel miliardo di euro in pensioni all’anno che l’Inps sta risparmiando sui morti Covid. La riduzione della spesa pensionistica calcolata per il 2020 è di 1,11 miliardi di euro, se la proiettiamo sul decennio 2020-2029 sulla base delle aspettative di vita rilevate dalle tavole di mortalità Istat 2019, arriviamo ad un totale di circa 11,9 miliardi di pensioni che nei prossimi 10 anni non verranno erogate.

(dataroom@rcs.it)

Covid e disabilità. Due guide per l’assistenza in ospedale e nelle Rsa

Distanziamento sociale e divieto di visita durante la degenza hanno colpito in maniera drammatica le persone con disabilità, rendendo il loro diritto alla salute e alle migliori cure disponibili, molto precario. In realtà, già prima della crisi pandemica, la salute, il diritto alla cura e la gestione intraospedaliera delle persone con disabilità presentavano numerose criticità. L’Associazione per lo Studio dell’assistenza Medica alla persona con Disabilità, in collaborazione con la Società Italiana di Ergonomia e Fattori Umani, ha elaborato due documenti.

L’organizzazione e la gestione dei luoghi di cura – ambulatori, ospedali, case di cura, RSA – è stata stravolta dall’attuale pandemia COVID-19. In particolare misure come distanziamento sociale e divieto di visita durante la degenza hanno colpito in maniera drammatica le persone con disabilità, rendendo il loro diritto alla salute e alle migliori cure disponibili, molto precario. Inoltre, i dati ci dicono come la disabilità, ed in particolare la disabilità intellettiva, costituisca un fattore di rischio di mortalità.

In realtà, già prima della crisi pandemica la salute, il diritto alla cura e la gestione intraospedaliera delle persone con disabilità sono temi che presentano numerose criticità.

La neoformata Associazione per lo Studio dell’assistenza Medica alla persona con Disabilità (ASMeD), in collaborazione con la Società Italiana di Ergonomia e Fattori Umani, ha elaborato due documenti:

– COVID, ospedale e disabilità

– Indicazioni operative igienico-sanitarie ed ergonomiche per la gestione del rischio COVID-19 con le persone con disturbi del neuro sviluppo e/o disabilità intellettiva, nelle strutture semiresidenziali, residenziali e negli inserimenti lavorativi (con allegati)

Si tratta di indicazioni operative igienico-sanitarie ed ergonomiche, messe a punto sulla base dell’esperienza professionale maturata in molti anni di attività in questo ambito. ASMeD infatti riunisce i professionisti sanitari che operano nell’ambito della salute di queste persone; ne fanno parte, in particolare, operatori sanitari che svolgono il loro lavoro in strutture ospedaliere dotate di percorsi dedicati alla gestione delle problematiche mediche delle persone con disabilità, sul modello organizzativo DAMA (Disabled Advanced Medical Assistance).

ASMeD nell’elaborare questi documenti si è basata sui principi contenuti nella Convenzione delle Nazione Unite sui diritti delle persone con disabilità e nella Carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale, promossa dalla cooperativa Spes Contra Spem (https://spescontraspem.it/).  È un dovere di giustizia da parte della società mettere in grado le persone con disabilità di essere curate su una base di eguaglianza e non discriminazione.

Abbiamo ritenuto anche in una situazione così difficile sia quanto mai necessario garantire in modo concreto il diritto alla salute e l’accesso alle cure ti tutte le persone. Questo può avvenire mediante la promozione di un’organizzazione sanitaria, di una medicina e di un nursing centrati sul paziente e sulla personalizzazione delle cure. E’ necessario rimettere al centro le persone e costruire risposte attorno ai più vulnerabili: in questo modo ambienti di vita e di cura, protocolli e prassi saranno costruiti intorno a loro e alle loro esigenze e non calati dall’alto.

I due documenti si fondono quindi su alcuni principi che vengono tradotti in pratiche operative:

• il diritto della persona con disabilità a ricevere le cure più adeguate alle sue necessità e al suo stato di salute, su base di eguaglianza con gli altri;

• la residenzialità a misura di persona, di nucleo familiare, che dovrebbe essere un elemento fondante nella gestione del rischio da contagio Covid-19, avviando così tutte le riorganizzazioni possibili nel breve e medio periodo, seguite da una riforma generale nel lungo periodo;

• i principi e metodi ergonomici del design for all – “progettazione universale” guida agli interventi di progettazione, riprogettazione e accomodamento degli ambienti di vita e di cura, degli arredi, degli oggetti d’uso quotidiano;

• il diritto della persona con disabilità a non subire discriminazioni per la sua condizione di disabilità.

In particolare è necessario l’applicazione – nella prevenzione, così come nei percorsi clinici e diagnostico terapeutici – del principio dell’accomodamento ragionevole, sancito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, molto spesso totalmente ignorato in ambito sanitario. La sua applicazione comporterebbe un impatto notevole nell’organizzazione sanitaria e nella pratica clinica e garantirebbe il diritto alla salute della persone con disabilità:
 
– esecuzione di test di provata affidabilità, che comportino una minor invasività ed una maggiore tolleranza (salivare, nasale superficiale), in sostituzione del tampone nasofaringeo e, in caso di indisponibilità, adottare procedure di prevenzione adattate; soprattutto nelle persone con disabilità il tampone naso salivare presente notevoli difficoltà di esecuzione;

– presenza di un accompagnatore / caregiver durante la degenza ospedaliera; spesso si dimentica che il caregiver è uno strumento di cura indispensabile, è l’interfaccia tra la persona con disabilità e gli operatori sanitari. Privare la persona con disabilità del suo caregiver, significa non essere in grado di comprendere le sue necessità, anche essenziali (sete, fame, dolore). È quindi necessario creare le condizioni per ricoverare in sicurezza il caregiver assieme alla persona con disabilità con COVID-19. A questo proposito va dato atto alla Regione Lazio di aver deliberato già in tal senso;

– rendere possibili le visite dei familiari nei reparti di degenza e nelle residenze;

– rendere possibili le uscite delle persone con disabilità dalla residenza, nel rispetto delle misure di prevenzione necessarie;

– organizzare uno spazio vitale per le relazioni negli ambienti in cui prestare l’assistenza, in caso di contagio da Sars-CoV-2, in condizioni asintomatiche e sintomatiche;

– rendere possibili le normali attività delle persone con disabilità, alla stregua della popolazione generale.

Inoltre ASMeD ritiene che vada data priorità nella somministrazione del vaccino alle persone con disabilità residenti nelle RSD, nelle case famiglie e agli operatori. Questa richiesta assume maggior forza dal dato che, mentre abbiamo certezza che il vaccino riduce la mortalità, non abbiamo certezza che le persone vaccinate non lo trasmettano.

L’applicazione di questi principi, non deve essere considerata come eccezione, un privilegio per una categoria di persone, ma come una questione di giustizia: le persone con disabilità non hanno diritti speciali, hanno gli stessi diritti di tutti, ma hanno necessità di strumenti speciali che possano garantire la fruizione di questi diritti.

Questa visione ha inoltre il grande valore di mettere al centro della cura la persona malata, anche in corso di crisi pandemica e di scarsità di risorse. Ha anche il vantaggio di restituire valore alla medicina basata sulla persona, che in questo frangente sembra essere stata dimenticata perchè ritenuta non applicabile. Ma è solo partendo dalla persona malata che si può costruire una medicina di comunità che includa e non discrimini, per garantire davvero a tutti la sicurezza e la salute in ambienti ergonomici, con strumenti di diagnosi e cura adattati ai limiti e alle potenzialità di ogni persona.

Filippo Ghelma
Presidente ASMeD (Associazione per lo Studio dell’assistenza Medica alla persona con Disabilità

Dalla fermata del bus all’edicola: viaggio nel centro all’avanguardia di Sesto dove i malati di Alzheimer non perdono la loro routine

La Rsa Fondazione Pelucca a Sesto San Giovanni è una delle due strutture italiane inserite nell’elenco degli esempi di design innovativo per le persone affette da demenza scelti in 27 paesi per la giornata mondiale dell’Alzheimer


Tra le stanze, nello spazio comune, c’è una fermata del bus arancione. Gli ospiti allora si fermano, leggono gli orari, si siedono su di una panchina, di tanto in tanto vedendo scorrere i minuti si domandano come mai il bus non arrivi mai. Ma non ricordando da dove vengono e spesso non sapendo dove stanno andando perché se ne sono dimenticati, vivono l’attesa del mezzo che non c’è per quello che è, un breve istante di normalità beckettiano. “Il sindaco Sala ci aveva promesso anche una pensilina vera, poi purtroppo è arrivato il Covid” si dispiace Mariarosaria Liscio, psicologa responsabile alla Fondazione Pelucca a Sesto San Giovanni del reparto Alzheimer inaugurato nel 2019 e inserito tra gli 84 esempi scelti in 27 paesi per raccontate i progressi compiuti dal design inclusivo per le persone affette da demenza.
 
L’Rsa Monsignor Olgiati è insieme al Paese Ritrovato di Monza l’unica struttura italiana entrata nell’elenco pubblicato in occasione della giornata mondiale dell’Alzheimer e contenuto nel più grande report del genere mai realizzato. Frutto della collaborazione tra Federazione Alzheimer Italia, Alzheimer’s Disease International, Alzheimer Europe e Adi, è accompagnato da un appello di Gabriella Salvini Porro, presidente della Fondazone tricolore, perché “le ricerche sulla demenza interrotte a causa del Covid riprendano al più presto“. Anche perché si stima che una vittima su cinque della pandemia soffrisse della malattia. 
Si stima anche che in Italia i malati di Alzheimer siano tra i 300 e i 400mila e rappresentino circa il 60% delle persone afflitte da demenza. “Senile non si dice più, capita l’Alzheimer colpisca precocemente i quarantenni” precisa Liscio. 

Impegnata da quasi trent’anni nel capire come migliorare le vite di chi smarrisce il passato, da psicologa ha collaborato con un équipe di medici e architetti alla progettazione del reparto di Sesto inaugurato nel 2019. “L’idea fondamentale era superare la cultura dell’asilo. La maggior parte dei centri dedicati costringe infatti persone in media di 80 anni in un ambiente infantile. Ma se da un lato è vero che perdono i ricordi, dall’altro conservano l’emotività costruita nel tempo. Dunque un anziano si sente umiliato se costretto a disegnare farfalle“. È stato così studiato per 16 pazienti un ambiente teatrale che ospitasse routine quotidiane e adulte.

L’attesa alla fermata ad esempio, ma anche un supermercato interno dove i pazienti ogni mattina fanno la spesa col carrello, o degli stendini “con grande nostra sorpresa molto apprezzati anche dai maschi” su cui ciascuno provvede a sistemare i propri panni dopo averli lavati. “Abbiamo ideato tutto da zero, anche le porte delle stanze che somigliano ai portoni di una volta intonandosi al vissuto dei pazienti. Ogni portone ha un colore diverso corrispondente a una funzione così più facile da ricordare“. C’è un terrazzo con giardino scaldato da termo lampade aperto anche d’inverno e dove quest’estate qualcuno ha piantato delle melanzane. C’è persino l’edicola. “Perché aspettando il bus che non arriva serve qualcosa da leggere“. C’è l’esperto di musicoterapia. “La musica è tra i ricordi più tenaci, resta fino alla fine. Ma abbiamo dovuto tararci sulle hit anni ’70, oppure sui cori alpini. Il personale è tutto formato e specializzato“. Non c’è invece purtroppo ancora nessuna cura per l’Alzheimer. “L’unica forma di cura è accudire, meglio si fa più è facile vedere dei miglioramenti. Se non della memoria perlomeno dell’umore“. 

Ma è plausibile vedere diffondersi il modello Sesto? “Secondo me sì” si sbilancia Gianmaria Battaglia, direttore della Fondazione La Pelucca. “La nostra scommessa è partita grazie a un bando della Regione. Ma la grande diffusione della malattia imporrà sempre più investimenti e idee. Può aiutare anche la tecnologia. Disponiamo di un sistema luminoso automatizzato che guida i pazienti verso la toilette di notte, di televisori smart che simulano caminetti, di un social dove i parenti postano foto vecchie e nuove. Un grande aiuto con il regime delle visite fermo“. Ma pare che nella Rsa di Sesto, dove il Covid è entrato senza dilagare, questo non turbi i malati di Alzheimer. “Non avere memoria in questo caso aiuta, chi ricorda soffre e temo saluterà i parenti dalle finestre se va bene fino alla prossima primavera“.
(repubblica.it)

Lettera al Ministro: Non siate complici degli abusi di quelle “strutture-lager”

Marina Cometto insieme alla figlia Claudia

Gentilissima Beatrice Lorenzin, Ministro della Salute,
le rubo dieci minuti del suo preziosissimo tempo, per raccontarle una notte vissuta accanto a una persona con gravissima disabilità. Ho appunto una figlia di 40 anni con gravissima disabilità, causata dalla sindrome di Rett, una malattia genetica rara, che in lei ha avuto effetti devastanti, rendendola non autosufficiente sin dall’infanzia.
Ebbene, l’altra notte mia figlia si è svegliata verso le quattro, chiamandomi come è capace, con un continuo «aaaaa, eeeee», suoni che per il nostro modo di comunicare sono sinonimi di «qualcosa mi disturba, mi vieni ad aiutare?». Mi sono alzata – i nostri letti distano circa cinque metri tra una stanza e l’altra – e da quando mi hanno informata che la sua patologia ha tra le possibili complicanze anche quella della morte improvvisa, sono ancora più attenta e sollecita nell’ascoltare, anche di notte, anche se “dormo”. Mi sono quindi subito recata da lei e ho notato che muovendosi nel sonno, un braccio le era rimasto bloccato in posizione scomoda, e non essendo lei in grado di fare movimenti volontari, per liberarsi dalla posizione che le procurava dolore, le ho messo il braccio a posto, l’ho girata, le ho cambiato il pannolone, le ho fatto sentire la sua musichetta preferita – la nostra “musicoterapia casareccia” – pensando che si sarebbe rimessa a dormire.
E invece, rimessami a letto nella speranza di riprendere sonno anch’io, non sono passati nemmeno cinque minuti che ancora una volta ha ricominciato a chiamarmi, nella stessa maniera di pochi minuti prima. Sono tornata da lei e tutto sembrava a posto, non erano suoni “da dolore”, di questo ero certa. Le ho chiesto allora se aveva sete, ma lei ovviamente non mi ha risposto, non è in grado di farlo. Cosa potevo fare? Faceva caldo, ho pensato che potesse avere sete, ho preparato due vasetti di acqua gelificata, cui ho aggiunto un po’ di acqua fresca e le ho dato da bere. L’ha bevuta tutta con piacere e velocemente. Questa era la verità, aveva sete!!!
A quel punto non ho potuto fare a meno di pensare a ciò che avevo letto solo qualche giorno prima sui quotidiani, di quell’RSA [Residenza Sanitaria Assistenziale, N.d.R.] per persone con disabilità in provincia di Napoli [esattamente a Meta di Sorrento, struttura di cui ci siamo già occupati anche nel nostro giornale, N.d.R.] in cui gli ospiti venivano maltrattati, isolati, picchiati, una struttura in cui era presente un solo “operatore” di notte, e mi sono chiesta come sarebbe stata trattata mia figlia, se fosse stata ricoverata in quel posto, durante un’emergenza come quella vissuta da noi la notte scorsa…
Forse l’operatore l’avrebbe rinchiusa in bagno, come era stato fatto con quella povera creatura di cui ho letto sui giornali, per far sì che non svegliasse tutti gli altri “ospiti”? Non avrebbe però potuto farlo, perché Claudia non cammina e non credo che chi “massacra” le persone fragili abbia voglia di prendere in braccio 53 chili per trasportarli in bagno… Avrebbe allora preso un sollevatore? Dubito però che in quella struttura ce ne fossero o che l’“operatore” fosse in grado di usarlo. Cosa avrebbe fatto allora? Semplice, avrebbe fatto trangugiare a mia figlia qualche goccia di Valium (parecchie), farmaco che “stordisce un cavallo” se uno non è abituato a prenderlo, senza preoccuparsi troppo di fare del male a una persona con una patologia come la sua. E se poi fosse passata a miglior vita, chi se ne sarebbe preoccupato? Infatti, in certi “lager” è troppo umano e caritatevole dare da bere a una persona che ha sete. In certi “lager” tutto quello che è umanamente fattibile è dimenticato e conta solo il ritorno economicoche i Comuni senza troppi controlli assicurano, infischiandosene anche loro di controllare che le persone ricoverate vengano trattate con umanità e professionalità, con rispetto e dignitosamente.
Ecco perché – Caro Ministro – il suo Dicastero deveprendere posizione e responsabilità anche verso i Comuni e le Regioni che “foraggiano” ampiamente molte di queste strutture disumane.
Una possibilità di controllo più idoneo potrebbe essere quella di inserire obbligatoriamente nella gestione ifamiliari dei ricoverati, questa sarebbe la garanzia maggiore, per tutti coloro che purtroppo non hanno proprio alcuna possibilità di essere assistiti a domicilio, perché – non dimentichiamolo – la maggior parte delle persone preferirebbe stare in casa propria e anche per la spesa pubblica questo sarebbe molto meno  oneroso.Parliamone, parlatene, coinvolgeteci, ascoltateci, non siate complici di chi abusa di queste persone, che sono ifigli fragili della nostra società ed è dovere di tutti occuparsene, specie di chi ha potere politico e decisionale.

Presidente dell’Associazione ”Claudia Bottigelli” per la Difesa dei Diritti Umani e l’Aiuto alle Famiglie con Figli Disabili Gravissimi (Torino).19 luglio 2013

di Giovanni Cupidi