Topi paralizzati camminano con impianti di midollo spinale

Impianti al midollo spinale fatti con cellule umane e anti-rigetto, verso test su uomo

Ottenuti in laboratorio i primi impianti 3D di midollo spinale umano per trattare le paralisi: sperimentati sui topi, hanno ripristinato la trasmissione dei segnali nervosi consentendo di riacquisire la capacità di camminare in 8 casi su 10.

L’impianto contiene reti neurali con neuroni motori (fonte: Sagol Center for Regenerative Biotechnology)

I risultati dei test, pubblicati su Advanced Science dai ricercatori dell’Università di Tel Aviv, potrebbero aprire la strada alla sperimentazione clinica di impianti personalizzati, fatti con le stesse cellule dei pazienti e dunque senza rischio di rigetto.

La nostra tecnologia – spiega il coordinatore dello studio Tal Dvirsi basa sul prelievo di una piccola biopsia di grasso addominale dal paziente. Questo tessuto, come tutti gli altri, è formato da cellule e da una matrice extracellulare (che comprende sostanze come zuccheri e collagene).

Dopo aver separato le cellule dalla matrice, le abbiamo geneticamente riprogrammate riportandole a uno stadio simile a quello delle staminali embrionali, ossia cellule capaci di trasformarsi in ogni tipo di cellula dell’organismo. Dalla matrice extracellulare invece abbiamo prodotto un idrogel personalizzato che non evoca alcuna risposta immunitaria o rigetto dopo l’impianto.

Successivamente abbiamo incapsulato le staminali nell’idrogel e, attraverso un processo simile allo sviluppo embrionale del midollo spinale, abbiamo trasformato le cellule in impianti 3D di reti neurali contenenti neuroni motori“.

Risonanza magnetica midollo spinale
Risonanza magnetica del midollo spinale prima e dopo il trattamento (fonte: Sagol Center for Regenerative Biotechnology)

Questi ‘pezzi di ricambio‘ del midollo spinale sono stati impiantati in topi paralizzati, ripristinando la capacità di camminare nel 100% dei roditori con paralisi acuta (insorta cioè da poco tempo) e nell’80% degli animali con paralisi cronica (cioè paralizzati da un tempo equivalente a un anno per un essere umano).

Questa è la prima volta al mondo che impianti di tessuti umani ingegnerizzati hanno determinato il recupero in animali con paralisi cronica, il miglior modello per studiare i trattamenti contro la paralisi degli esseri umani“, precisa Dvir.

Il nostro obiettivo è produrre impianti di midollo spinale personalizzati, permettendo la rigenerazione del tessuto danneggiato senza rischio di rigetto. Speriamo di arrivare alla sperimentazione clinica sulle persone nel giro di pochi anni“. 

Rappresentazione grafica dei passaggi necessari per la realizzazione degli impianti di midollo spinale a partire da cellule dello stesso paziente (fonte: Sagol Center for Regenerative Biotechnology)

(ansa.it)

Tre persone paralizzate sono tornate a camminare con degli elettrodi

I primi risultati della ricerca che parla anche italiano

La ricerca è stata presentata dall’Università di Losanna, in Svizzera. Ha collaborato anche Silvestro Micera, ricercatore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

Tutto il percorso di ricerca è stata pubblicato su Nature Magazine, una delle riviste più autorevoli in campo scientifico. Tre persone paralizzate sono tornare a compiere alcuni movimenti in modo autonomo grazie a una serie di elettrodi impiantanti nelle colonna vertebrale.

Lo studio è stato condotto dal Politecnico di Losanna (Efpl), in Svizzera. Alla ricerca ha lavorato anche Silvestro Micera, ricercatore italiano della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. A coordinare il progetto sono stati Grégoire Courtine e Jocelyne Bloch. Il metodo presentato su Nature si basa sull’applicazione di una serie di elettrodi innestati nel midollo spinale.

Questi dispositivi vengono controllati dal paziente attraverso un tablet e sono in grado di stimolare i muscoli per far fare una serie di movimenti coordinati, come camminare, pedalare o nuotare. Tutto viene controllato direttamente dai pazienti attraverso un tablet.

Uno dei tre pazienti che hanno preso parte a questa sperimentazione è Michel Roccati, un italiano che quattro anni fa è rimasto paralizzato. Un incidente in moto gli ha causato una lesione alla colonna vertebrale.

L’agenzia stampa Ansa ha riportato le sue reazioni: «I primi passi sono stati qualcosa di incredibile, un sogno che si avverava. Ora sono in grado di salire e scendere le scale e punto, entro primavera, di riuscire a camminare per un chilometro».

L’obiettivo ora è aumentare il numero di pazienti da testare così da commerciale il prima possibile questa tecnologia. (open.online)

Ricercatrici siciliane individuano nell’Isola rara patologia ereditaria proveniente dal Giappone

Fare ricerca medico-scientifica ad alti livelli in Sicilia – con risultati straordinari – è possibile.

Una nuova ricerca italiana su Movement Disorders, il giornale ufficiale dell’International Parkinson e Movement Disorder Society, dimostra la presenza in Sicilia di una rara malattia neurodegenerativa ereditaria, la DRPLA, acronimo di Atrofia dentato-rubro-pallido-luysiana.

Il CSR-AIAS, con la neurologa Silvia Grimaldi, e il Centro regionale di Neurogenetica di Lamezia Terme, con la neurologa Chiara Cupidi, sono i protagonisti di questa importante ricerca scientifica: più di due anni di lavoro durante i quali è stato ricostruito un enorme albero genealogico, risultato il più grande d’Europa, che partendo dai pazienti affetti dei nostri giorni, giunge nel lontano 1570 individuando una coppia di progenitori vissuti a Monte San Giuliano (l’odierna Erice).
La ricerca, avviata partendo dall’osservazione di un paziente del CSR-AIAS di Paceco, è stata condotta con l’intento di approfondire gli aspetti genetici, clinici e storici della DRPLA, patologia rarissima in tutto il mondo.

Grazie a questo lavoro, è stato possibile identificare e studiare decine di pazienti finora rimasti senza una diagnosi ed avviare un’attività divulgativa per promuovere la conoscenza sulla malattia, informare il territorio, permettere la corretta identificazione degli eventuali soggetti affetti e fornire loro un’adeguata assistenza.

Silvia Grimaldi e Chiara Cupidi sono siciliane e a questa ricerca hanno dedicato grande cura ed attenzione. Adesso pensano già agli scenari futuri che la diagnosi della patologia in Sicilia potrebbe avere in termini di ulteriori indagini e terapie efficaci.
E’ stato condotto – spiega Chiara Cupidi – uno studio molto approfondito degli archivi disponibili, sia comunali che parrocchiali, dato che in Italia non esistono archivi pubblici risalenti al periodo precedente al 1820. Abbiamo cercato il maggior numero di informazioni disponibili conducendo una ampia ricerca su tutti gli archivi che siamo riuscite a trovare nella province di Palermo e Trapani. Numerosi sono stati i pazienti visitati e caratterizzati, molti dei quali non sapevano di essere affetti proprio da questa specifica patologia”.

La presenza maggiore di Atrofia dentato-rubro-pallido-luysiana si è riscontrata sinora in Giappone, per cui l’ipotesi delle ricercatrici è che la malattia sia anticamente arrivata in Sicilia tramite gli spagnoli, l’unico popolo ad avere all’epoca rapporti commerciali con il Giappone.
I sintomi più evidenti della DRPLA sono la demenza ed i disturbi psichiatrici. Esistono due forme della malattia che si manifesta nei bambini con un grave ritardo mentale ed epilessia, mentre in età adulta anche con disturbi della coordinazione motoria e movimenti involontari. Una malattia davvero insidiosa e difficile da diagnosticare, ed i cui sintomi, se si presentano dopo i 50 anni, potrebbero essere scambiati con i disturbi tipici dell’invecchiamento.
Difficile fare una stima delle persone che ne sono affette nel mondo. “Attualmente – continua Cupidi – è una malattia molto rara, sono stati individuati e studiati singoli casi. Quello da noi ricostruito è l’albero genealogico più grande mai descritto su questa malattia fuori dal Giappone, abbiamo trovato 51 casi di patologia“.
Le ricercatrici Cupidi e Grimaldi – che ha coordinato e gestito lo studio – sono state contattate anche da alcune strutture di ricerca all’estero. Lo studio, ‘partito’ da un paziente di Paceco che aveva avuto la diagnosi di DRPLA fuori dalla Sicilia, si è spinto sino a Torino e a Palermo, con le rispettive università che hanno collaborato ‘fornendo’ pazienti da sottoporre a indagine diagnostica.
Adesso – conclude Cupidi – bisognerà studiare meglio il territorio della zona intorno alla vecchia Erice per capire se c’è una aumentata frequenza di queste malattie e di quelle considerate rare”.

(blogsicilia)

VLOG GIOVANNI – ELETTRODI COME AUSILIO

La clip di VLOG GIOVANNI andata in onda questa sera all’interno di Buone notizie su Tv2000! Presento una ricerca che proviene dalla California che tramite elettrodi permette al paziente di provare diverse sensazioni molto simili a quelle naturali

Il lunedì alle 19.30 su #Tv2000 (canale 28 – 157 Sky)

Autismo: presto uno spray dal Giappone

Dal Giappone potrebbe arrivare presto un farmaco in grado di
migliorare il deficit di attenzione spesso associato alla sindrome
autistica.

Un gruppo di ricercatori giapponesi, coordinato dal professor Hidenori
Yamasue della Scuola di Medicina dell’Università di Hamamatsu nella
prefettura di Shizuoka, sta conducendo una sperimentazione clinica del
trattamento che include l’ossitocina, noto anche come “ormone della
felicità”.
Secondo Yamasue i disturbi dello spettro autistico colpiscono una
persona su cento, i sintomi si manifestano generalmente tra i due e i
tre anni di vita anche se molte persone vengono diagnosticate in età adulta. La sindrome autistica, che colpisce in percentuale più gli uomini che le donne, è spesso caratterizzata da problemi relativi alla comunicazione interpersonale, all’empatia ed alla cooperazione con gli altri.
Lo spray all’ossitocina sembra stimolare una maggior attenzione da parte dei pazienti con autismo. Il team di Yamasue ha elaborato una teoria secondo cui l’ossitocina (un ormone che svolge un ruolo nelle contrazioni uterine e nel rilascio del latte materno) è in grado di rendere più disponibili alla collaborazione i pazienti autistici.
Durante lo studio, i soggetti maschi adulti hanno mostrato un miglioramento della loro capacità comunicativa dopo l’inalazione di
ossitocina attraverso il naso. Infatti, i ricercatori hanno riscontrato che la parte del cervello che controlla la comprensione emotiva è diventata più attiva dopo l’inalazione dello spray.
Il numero di persone con diagnosi autistica è recentemente aumentato
anche in Giappone grazie alla maggior consapevolezza acquisita dalla
cittadinanza in merito alla sindrome. Gli sforzi di Yamasue alla ricerca di un rimedio per alleviare le difficoltà quotidiane delle persone con autismo e delle loro famiglie sono stati premiati il mese scorso dall’agenzia giapponese per la ricerca medica e lo sviluppo.
Attualmente lo spray all’ossitocina, che è in uno studio di fase 2, è stato testato in sette università in Giappone.
Yamasue ha detto che il suo team punta a rendere disponibile il trattamento entro il 2023 dopo averne confermato la sicurezza e gli effetti.
(pressin.it)

Un nuovo studio dona la speranza per la perdita dell’udito

I ricercatori di USC e Harvard hanno sviluppato un nuovo approccio per riparare le cellule in profondità nell’orecchio: un potenziale rimedio che potrebbe ripristinare l’udito per milioni di persone anziane e di coloro che soffrono di perdita dell’udito.

Lo studio di laboratorio dimostra l’efficacia di un farmaco di azzerare i nervi e le cellule danneggiati all’interno dell’orecchio. È un potenziale rimedio per un problema che affligge due terzi delle persone oltre 70 anni e il 17% di tutti gli adulti, solo negli Stati Uniti.

Quello che c’è di nuovo è che abbiamo capito come somministrare un farmaco all’interno dell’orecchio in modo che non si disperda e faccia quello che dovrebbe fare”, ha detto Charles E. McKenna, un corrispondente autore per il professore di chimica e di studio all’USC Dornsife College of Letters, Arts and Sciences. “Dentro la parte interna dell’orecchio c’è del fluido che scorre costantemente che spazzerebbe via i farmaci disciolti, ma il nostro nuovo approccio affronta questo problema, questo è il primo per la perdita dell’udito e l’orecchio, ed è anche importante perché può essere adattabile ad altre patologie”.

Lo studio apre nuovi orizzonti perché i ricercatori hanno sviluppato un nuovo metodo di somministrazione del farmaco. In particolare, si rivolge alla coclea, una struttura a forma di chiocciola nell’orecchio interno, dove le cellule sensibili trasmettono il suono al cervello. La perdita dell’udito si verifica a causa dell’invecchiamento. Nel tempo, cellule sensoriali simili a peli e fasci di neuroni che trasmettono le loro vibrazioni si rompono, così come le sinapsi a nastro, che connettono le cellule.

La ricerca è stata condotta su tessuti animali in una capsula di Petri. Non è ancora stato testato su animali vivi o umani. Tuttavia, i ricercatori sono fiduciosi date le somiglianze delle cellule e dei meccanismi coinvolti. Secondo McKenna, poiché la tecnica funziona in laboratorio, i risultati forniscono “prove preliminari forti” che potrebbero funzionare nelle creature viventi. Stanno già pianificando la fase successiva che coinvolge animali e perdita dell’udito.

I ricercatori hanno progettato una molecola che combina il 7,8-di idrossiflavone, che imita una proteina fondamentale per lo sviluppo e la funzione del sistema nervoso, e il bisfosfonato, un tipo di farmaco che si attacca alle ossa. L’associazione dei due ha fornito la soluzione rivoluzionaria, hanno detto i ricercatori, mentre i neuroni rispondevano alla molecola, rigenerando le sinapsi nel tessuto dell’orecchio del topo che portavano alla riparazione delle cellule ciliate e dei neuroni, che sono essenziali per l’udito.

È una prova di principio per un nuovo approccio che è estremamente promettente, è un passo importante che offre molte speranze”. ha detto McKenna.

Si prevede che la perdita uditiva aumenterà con l’invecchiamento della popolazione. Ricerche precedenti hanno dimostrato che l’ipoacusia dovrebbe quasi raddoppiare in 40 anni. Danni all’orecchio interno possono portare a “perdita dell’udito nascosta”, ovvero la difficoltà nel sentire bisbigli e suoni dolci, specialmente in luoghi rumorosi. La nuova ricerca dà speranza a molti sperando di evitare la perdita dell’udito, migliorando la qualità della vita.

Il documento è stato pubblicato il 4 aprile sulla rivista Bioconiugate Chemistry.

(beppegrillo.it)

Lesioni Midollari, una cura dalla California

da Bar Neuroscienze

FG è un ragazzo di 32 anni che, a causa di una lesione al midollo spinale, tre anni fa è rimasto paralizzato dalle spalle in giù. Essere #tetraplegico significa non solo non potersi piú muovere, ma anche non sentire piú sensazioni come tatto, cambi di tempertura, posizione corporea o dolore. La causa è l’interruzione del segnale tra il corpo e la corteccia #somatosensoriale, che processa questo tipo di informazioni.

Dei ricercatori californiani hanno creato serie di piccoli #elettrodi che hanno poi inserito nella corteccia somatosensoriale del paziente grazie a un intervento neruchirurgico. Grazie a questo impianto intracorticale, hanno poi stimolato i neuroni di quella regione inviando piccole correnti elettriche.

A seconda di tipo, intensitá e localizzazione della stimolazione, il paziente è stato in grado di ri-sentire diverse #sensazioni naturali: era come se il suo braccio (controlaterale alla regione stimolata) venisse pizzicato, tamburellato, schiacciato, o mosso… come prima della lesione.

Lo stesso laboratorio nel 2015 aveva connesso un braccio-protesi robotica a degli elettrodi impiantati nella corteccia motoria, permettendo ad un uomo paralizzato di utilizzarla per afferrare e muovere oggetti. Nel futuro, connettere questo tipo di dispositivi con la corteccia sensorimotoria creerebbe interfacce cervello-macchina bidirezionali, permettendo a persone paralizzate di utilizzare braccia e gambe non solo per muoversi, ma anche per #sentire la protesi come parte del proprio corpo.

L’articolo: https://elifesciences.org/articles/32904

Grafene per curare le lesioni al midollo spinale

In questa illustrazione il processo usato dalla Rice: i ricercatori hanno inserito atomi di potassio tra gli strati di nanotubi di carbonio multiwalled per suddividerli in nanostrisce di grafene. A questo è seguita l’aggiunta di ossido di etilene per porre agli estremi PEG solubilizzante. Questo permette di avere superfici piatte di nanostrisce di grafene che danno ai neuroni una superfice conduttiva su cui crescere.

Il grafene, grazie alle sue innumerevoli proprietà, potrebbe essere la chiave per curare le lesioni al midollo spinale.

Chi danneggia il midollo spinale rischia la paralisi totale o parziale. La medicina attuale può fare poco per intervenire, ma in futuro – al momento molto distante – questo stato di cose potrebbe cambiare.

Un team di ricercatori della Rice University ritiene infatti che l’accoppiata di nanostrisce di grafene e un polimero comune possa portare, un giorno, alla “cura dei danni al midollo spinale“. Tutto nasce dal lavoro del chimico James Tour, che ha speso un decennio a studiare possibili applicazioni per le nanostrisce di grafene.

Questo materiale, le cui straordinarie proprietà elettriche, ottiche e meccaniche lo rendono ideale in molteplici settori, potrebbe trovare anche uso medico. Alla Rice hanno creato un materiale chiamato Texas-PEG – basato appunto su nanostrisce di grafene – che potrebbe aiutare a riparare un midollo spinale danneggiato in parte o completamente.

Lo studio è stato pubblicato, con promettenti risultati preliminari, sul giornale Surgical Neurology International. Le nanostrisce di grafene messe a punto dalla Rice sono altamente solubili nel glicole polietilenico (PEG), un gel polimerico biocompatibile usato nelle operazioni, nei prodotti farmaceutici e in altre applicazioni biologiche.

Quando le estremità delle nanostrisce biocompatibili sono rese funzionali con catene PEG e ulteriormente mischiate con il glicole polietilenico formano una rete elettricamente attiva che aiuta la riconnessione delle estremità recise del midollo spinale.

nanostrisce grafene

I neuroni crescono bene sul grafene perché è una superficie conduttiva e stimola la crescita neuronale“, ha detto Tour. “Non siamo l’unico laboratorio che ha dimostrato che i neuroni che crescono sul grafene in una piastra di Petri” ha aggiunto. “La differenza è che gli altri laboratori sperimentano comunemente con ossido di grafene solubile in acqua, che è molto meno conduttivo del grafene, o strutture di grafene non a strisce“.

Alla Rice hanno sviluppato un modo per aggiungere catene polimeriche solubili in acqua agli estremi delle nanostrisce, conservandone la conducibilità ma rendendole al tempo stesso solubili. Tour ha spiegato che solo l’1% del Texas-PEG è costituito da nanostrisce, ma ciò è sufficiente per formare una struttura conduttiva tramite la quale il midollo spinale si può ricollegare.

Tramite il Texas-PEG i ricercatori della Konkuk University (Corea del Sud) sono riusciti a ripristinare la funzionalità in un roditore con il midollo spinale reciso. Tour ha spiegato che il materiale ha favorito il passaggio dei segnali neuronali motori e sensoriali tramite il tratto precedentemente danneggiato nell’arco di 24 ore dopo la completa resezione del midollo spinale e un quasi perfetto recupero del controllo motorio dopo due settimane.

È un importante progresso rispetto al lavoro precedente con il solo PEG, che non ha dato alcun recupero dei segnali neuronali sensoriali nello stesso periodo di tempo e ha restituito un controllo motorio solo del 10% dopo quattro settimane“, ha aggiunto Tour.

Secondo Tour il potenziale di Texas-PEG per aiutare i pazienti con lesioni del midollo spinale è troppo promettente per essere minimizzato. “Il nostro obiettivo è di svilupparlo come un modo per affrontare le lesioni del midollo spinale. Pensiamo di essere sulla strada giusta“, ha concluso.

(tomshw.it)

Paralizzato da quattro anni, torna a muovere la mano grazie a un chip nel cervello

L’ultima volta che la mano aveva obbedito ai suoi comandi era il 2010. Ian Burkhart stava correndo verso l’Oceano Atlantico. Il primo anno all’università dell’Ohio era agli sgoccioli e con gli amici aveva deciso di festeggiare l’arrivo delle vacanze con una giornata al mare. Burkhart si tuffa in acqua. Succede tutto in un istante: lo schianto contro un banco di sabbia nascosto dalle onde, il collo che si rompe, le gambe e le braccia inerti. Oggi a 23 anni, a distanza di 4 anni dall’incidente che lo ha lasciato paralizzato, Burkhart è tornato a muovere la mano.

Un’impresa che ha trasformato la fantascienza in realtà: i suoi pensieri hanno bypassato il suo midollo spinale lesionato con l’aiuto di un algoritmo e alcuni elettrodi. Burkhart ha chiamato a raccolta tutti i suoi neuroni, ha pensato intensamente alla sua mano paralizzata ed è successo: le sue dita si sono mosse, sotto lo sguardo soddisfatto degli scienziati che lo hanno seguito nell’esperimento pionieristico. Un primo piccolo grande traguardo che apre la strada al sogno di riuscire di nuovo a compiere almeno le gestualità più semplici.

Il percorso è ancora lungo e difficile, ed è cominciato quando i medici gli hanno impiantato un chip nel cervello e hanno fissato sul suo cranio un piccolo cilindro di metallo, collegato al chip. Dopo l’intervento, 3 volte a settimana Burkhart è stato davanti a un monitor e ha permesso agli scienziati di Battelle, l’ente di ricerca no-profit che ha inventato la tecnologia Neurobridge, di ‘entrare’ nel suo cervello e di ‘collegarlo’. Lui guardava i movimenti di una mano in versione digitale sullo schermo e pensava di replicarli con la sua e intanto il computer leggeva i suoi pensieri e spostava una seconda mano animata secondo gli impulsi inviati. Alla fine di questo lungo percorso, la scorsa settimana è arrivata l’ora di provarci davvero.

In una stanza del Wexner Medical Center di Columbus, tutti i presenti – scienziati e giornalisti armati di blocchetti e telecamere – hanno potuto assistere ai suoi primi movimenti. Gli ingegneri hanno collegato il cavo, il chip era al posto giusto per captare i segnali del cervello, l’algoritmo era pronto a tradurre i pensieri in movimenti e le strisce simili a una vecchia pellicola cinematografica legate intorno all’avambraccio a stimolare i muscoli. Poco prima delle 3 del pomeriggio Burkhart ha mosso di nuovo la mano, dopo 4 anni di immobilità assoluta. L’ha aperta un po’ incerto, poi più sicuro è riuscito a stringerla in un pugno, ancora e ancora.

L’ultima sfida era quella di afferrare un cucchiaio. Anche questa centrata, solo per un attimo prima di lasciarlo scivolare giù. Un video pubblicato sul sito del ‘Washington Post’ documenta l’impresa. Il futuro ‘bionico’ immaginato dagli scienziati è meno lontano.

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Giornata autismo, da uno studio canadese “Spiegazione scientifica a introspezione”

Fino a meno di dieci anni fa era ancora consideratosinonimo di pazzia. Per sfatare questo pregiudizio, le Nazioni Unite nel 2007 hanno istituito la Giornata mondiale per la consapevolezza dell’autismo, con l’obiettivo di “Promuovere la ricerca scientifica in tutto il mondo e la solidarietà verso le persone colpite dalla malattia”. Da allora, per accendere i riflettori su questo disturbo, il 2 aprile di ogni anno, grazie alla campagna “Light it up blue” promossa dall’organizzazione internazionale Autism Speaks, i principali monumenti delle città del mondo s’illuminano di blu. 

Le iniziative previste in Italia: medici e vip. In Italia, contro l’isolamento dei 500 mila individui colpiti da autismo, filo conduttore delle iniziative promosse nel nostro Paese, a fianco di medici e scienziati scendono in campo anche scrittori, attori e registi, tra i qualiStefano Benni, Gianni Amelio, Pierfrancesco Favino e Neri Marcorè, solo per citarne alcuni. Obiettivo comune sensibilizzare il Parlamento, affinché recepisca una proposta di legge “Per una normativa adeguata ai bisogni delle persone con disturbi dello spettro autistico”, presentata due mesi fa in Senato dall’Associazione nazionale genitori soggetti autistici (Angsa) 

L’autismo, che colpisce 1 bambino su 80disturbo ancora poco conosciuto, nonostante i passi avanti compiuti dalla ricerca, come l’individuazione di una componente genetica all’origine della malattia.Secondo gli scienziati, un ruolo importante nella predisposizione allo sviluppo della patologia lo avrebbero anche alcuni fattori ambientali, ad esempioinfezioni materne, deficit immunitari o esposizione in fase prenatale ad agenti neurotossici. Rischio, quest’ultimo, piuttosto concreto, in base ai risultati di uno studio pubblicato proprio in questi giorni su PLOS Computational Biology. 

Gli sforzi della ricerca contro un disturbo ancora poco conosciuto. Gli sforzi dei ricercatori si stanno concentrando sempre più sulla comprensione deicircuiti neuronali di un individuo colpito da autismo. Uno studio canadese, pubblicato sulla rivista “Frontiers in Neuroinformatics” e condotto dalla Case Western Reserve University e dall’University of Toronto, dimostra, ad esempio, attraverso unascansione dell’attività cerebrale nota come nmagnetoencefalografia, che il cervello della maggior parte delle persone autistiche genera più informazioni quando è a riposo, con un aumento medio pari al 42%. “Un risultato – si legge nella ricerca – che potrebbe offrire una spiegazione scientifica della caratteristica più tipica che contraddistingue gli individui colpiti dalla malattia, il ritiro nel proprio mondo interiore”. “L’eccesso di produzione di informazioni – afferma Roberto Fernández Galán, neuroscienziato della Case Western Reserve School of Medicine a capo del team di ricerca – potrebbe ad esempio spiegare il distaccodi un bambino autistico dal suo ambiente. I nostri risultati – sottolinea lo studioso canadese – suggeriscono che i bambini malati potrebbero essere meno interessati alle interazioni sociali, proprio perché il loro cervello genera più informazioni a riposo, che noi interpretiamo come maggiore introspezione, in linea con le prime descrizioni della patologia”.

Usa e Ue uniti in un comune progetto di ricerca. La ricerca sull’autismo prosegue, legata ormai a doppio filo negli ultimi anni allo studio complessivo dell’attività cerebrale. È proprio di questi giorni la notizia che Stati Uniti e Unione Europea hanno deciso di unire i loro sforzi, e finanziamenti, in un comune progetto di ricerca, ancor più articolato e ambizioso di quello che nel 2000 ha permesso di decodificare il codice genetico umano. Secondo quanto riportato dalla rivista Nature, per migliorare l’efficienza della ricerca e minimizzare eventuali sovrapposizioni nascerà una partnership formale tra la “Brain Initiative” americana, lanciata a maggio dello scorso anno con un finanziamento di 1 miliardo di dollari, e lo “Human Brain Project”, analogo europeo nato sei mesi dopo con uno stanziamento di 1 miliardo di euro (circa 1,3 miliardi di dollari). Il fine è comune: la comprensione dell’evoluzione e del funzionamento dell’organo più complesso della natura, il cervello umano.
(ilfattoquotidiano.it)

di Giovanni Cupidi