Se c’è un problema, c’è la sua soluzione – Rubrica a cura di Antonella Carta – Insegnante/Scrittrice – Questa rubrica si propone di passare in rassegna alcune delle piccole-grandi difficoltà del quotidiano di persone con disabilità e, anche con la collaborazione di chi ci è già passato, proporre una strada, senza la pretesa che sia la soluzione
Il valore della Pet therapy
Ancora troppo spesso accade di constatare come una persona con particolari difficoltà o con disabilità sia emarginata dal gruppo dei pari o dalla società in generale. Indifferenza, paura, diffidenza? Poco importa quale sia la causa; fosse anche solo incapacità di comprendere come relazionarsi con chi a primo impatto può apparire “diverso”, il risultato non cambia.
Talvolta i genitori tentano di proporsi come mediatori nella relazione tra il figlio con disabilità e i compagni, altre volte sono gli insegnanti che provano a veicolare il concetto di inclusione.
Nella sostanza, è sporadico che si raggiunga l’obiettivo e, quando capita, in genere si riduce a un singolo episodio. La solitudine attiene però, purtroppo, anche ad altre “categorie”, come ad esempio gli anziani, spesso lasciati in qualche struttura ad aspettare l’uscita dal mondo, o ancora le persone in ospedale.
Basterebbe davvero poco per migliorare la qualità della vita di chi è più fragile ma è vero anche che la vita frenetica a cui ci siamo condannati lascia poco tempo per fermarsi, pensare, talvolta persino sorridere all’altro.
IL CONSIGLIO
Una via percorribile in questo senso è la Pet therapy, ossia il ricorso alla relazione con un animale, guidata dall’operatore, per superare alcuni degli ostacoli fisici e mentali sia della persona con disabilità che della società.
Giuseppe Fortunato, operatore specializzato, ci parla della propria decennale esperienza: “Il cane, o l’animale in genere, può essere considerato un facilitatore sociale. Infatti i cosiddetti normodotati, che spesso si tengono a distanza dal disabile, nel momento in cui questi si accompagna con un cane sono spinti ad avvicinarsi anche solo per fare una carezza. Anche la persona con disabilità si rilassa e si dispone meglio allo scambio di battute, proprio perché finiscono sul vertere sull’argomento “animale” e non sul tema “disabilità”, quindi si abitua a comunicare non dovendo passare prima dalla propria disabilità.
Questo accade anche quando si fa terapia con i cani nelle strutture di accoglienza per anziani o negli ospedali. Il cane fa sì che entrambe le parti abbattano la diffidenza reciproca e si velocizzi il passaggio verso la comunicazione.
Inoltre il cane è “neutro”, ossia dai suoi occhi non traspare mai alcun giudizio e quindi le persone che in genere si sentono discriminate, quando sono con il cane sono felici di avere una relazione con un essere vivente che non li guarda mai in modo diverso da come guarda gli altri.“
Oltre a migliorare la qualità delle relazioni, la Pet therapy è anche utilizzata come vera e propria terapia riabilitativa. Può spiegarci in che senso?
“Posso riportare un esempio concreto che mi pare chiarificatore: una volta mi hanno affidato un bambino che si rifiutava di usare le posate e stava sviluppando una pericolosa repulsione verso il cibo. Abbiamo cominciato ad insegnargli a dar da mangiare al cane con le posate di plastica, proponendolo come gioco. In tal modo siamo riusciti a sbloccare la sua inibizione e, condizionandola come un gioco, lo abbiamo avviato a un uso graduale delle posate anche per sé.
Fondamentale il contatto con l’animale anche per i bambini che si rifiutano di essere toccati. In questi casi l’animale veicola pian piano il contatto fisico con un altro essere vivente e, nel tempo, il bambino quasi sempre finisce col lasciarsi avvicinare anche da altri esseri umani.
Come accennavo, la Pet therapy è un valido strumento anche nei casi di demenza senile, nel Parkinson e nelle RSA, infatti regala agli anziani un imput emotivo che li aiuta ad uscire dall’isolamento. Questo però è un lavoro più intuitivo, fondato più sulla micro motricità delle mani, sulle carezze. Con soddisfazione notiamo come il cane alla fine li aiuti anche a relazionarsi positivamente tra loro.”
Dell’esperienza negli ospedali cosa può dirci?
“Nella chemioterapia o in altri ricoveri invasivi o nelle riabilitazioni dolorose, per i pazienti avere accanto il cane modifica significativamente in meglio il momento. Anche se sa che starà male, il paziente con il cane entra con più fiducia, quasi che la sofferenza diventasse secondaria, e affronta meglio ciò che sta per subire. Il cane davvero in questi casi stravolge tutto.”
C’è chi sostiene che la Pet Therapy funziona meglio se associata ad altri tipi di terapie riabilitative. Lei è d’accordo con questa affermazione?
“Assolutamente sì. Associata ad altri tipi di terapie, come ad esempio la fisioterapia, favorisce l’ottimizzazione dei risultati ottenuti. Quindi lo spirito giusto è quello di una sana collaborazione per favorire il benessere psicofisico del paziente.”
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A un anno dall’incidente un’intervista per raccontare le condizioni del campione paralimpico
Comunica con la famiglia, non parla, ma “lotta come un leone“. Alex Zanardi un anno fa ha rischiato la vita in un incidente sulla handbike. È stato un anno difficile ma – racconta la moglie Daniela in una intervista alla Bmw – ista dimostrando ancora una volta spirito combattivo. “Si sta impegnando per recuperare“. Lei è sempre accanto al campione paralimpico: “Le condizioni di Alex sono stabili. Al momento è ricoverato in una clinica specializzata, dove sta seguendo un programma di riabilitazione, sotto il controllo di medici, fisioterapisti, neuropsicologi e logopedisti per cercare di facilitare il suo recupero“.
Dopo un periodo dramamtico, il coma, gli interventi neurochirurgici Zanardi ha iniziato la riabilitazione: “È stato un processo molto complesso che ha richiesto diversi interventi neurochirurgici ed è stato caratterizzato da alcune battute d’arresto. Alex è in una condizione stabile, che significa che è in grado di affrontare un programma di terapia sia neurologico che fisico. Riesce a comunicare con noi, ma non è ancora in grado di parlare. Dopo molto tempo in coma, le corde vocali hanno bisogno di recuperare la loro elasticità. Questo è possibile solo con esercizio e terapia. Ha ancora molta forza nelle braccia e nelle mani e si allena duramente con le attrezzature”.
“Cosa mi aspetto per il futuro? Certamente – prosegue Daniela Zanardi – si tratta di una nuova grande sfida. È un percorso molto lungo e al momento non facciamo previsioni su quando potrà tornare a casa“. Daniela Zanardi ha scelto di informare i tantissimi tifosi del marito per rispondere alle domande e agli auguri che le arrivano tutti i giorni: “Abbiamo ricevuto così tanti messaggi di auguri per la sua guarigione, e vorrei cogliere l’occasione per fare un grande ringraziamento, da parte di Alex, per ogni singolo messaggio.“
“Seguendo il consiglio dei medici – continua – questo ci sembrava il momento giusto per dare qualche informazione sul processo di recupero di Alex con questa intervista. Vorrei dire a tutte le persone che pensano e pregano per Alex che lui sta combattendo – come ha sempre fatto. L’affetto che abbiamo ricevuto da amici, fan, conoscenti, atleti e tutte le persone del motorsport nello scorso anno è stato a dir poco commovente e travolgente ed è stato di enorme supporto per noi nell’affrontare tutto questo. In particolare, un ringraziamento speciale va al personale medico”.
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Un algoritmo musicale migliora il sonno dei bambini disabili, li rilassa e riduce lo stress dei genitori.
Si tratta di una precisa sequenza di suoni, voci, musiche e immagini sviluppata dai ricercatori dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù e personalizzata in base alle necessità di ciascun paziente. La nuova tecnica riabilitativa è stata sperimentata durante il primo il lockdown del 2020 come terapia sostitutiva delle sedute in Ospedale per garantire la continuità delle cure anche a casa. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista scientifica “Journal of Telemedicine and Telecare”.
Il metodo riabilitativo sviluppato dai ricercatori del Bambino Gesù si chiama “Euterpe”, dal nome della mitologica dea della Musica. Viene regolarmente utilizzato dai terapisti del Dipartimento di neuroriabilitazione del Bambino Gesù, diretto da Enrico Castelli, per la stimolazione multisensoriale dei bambini con disabilità motorie e neurologiche attraverso l’uso combinato – secondo le necessità del paziente – di suoni, musiche, immagini, aromi, oggetti, strumenti e luci. Durante il primo lockdown del 2020 questa terapia è stata rielaborata per essere eseguita anche a domicilio (teleriabilitazione). Sono stati così realizzati dei componimenti audio-video personalizzati che contenevano suoni a particolari frequenze, musiche originali, la voce della mamma e del bambino stesso, canzoni e ninne nanna familiari, immagini legate a momenti piacevoli registrate durante le sedute al Bambino Gesù.
Lo studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di neuroriabilitazione del Bambino Gesù ha coinvolto 14 pazienti affetti da diversi disturbi neurologici (paralisi cerebrale infantile, sindromi genetiche, malformazioni cerebrali), tutti al di sotto dei 12 anni (età media 7 anni e 5 mesi). Al termine della sperimentazione, gli effetti della terapia a domicilio sono stati valutati con appositi questionari scientificamente validati. Dall’analisi sono emersi dati statisticamente significativi. In particolare la riduzione dei disturbi del sonno dei bambini, i livelli di stress dei genitori e il miglioramento della relazione bambino-genitore.
“Oltre ai risultati raggiunti – dice la neuropsichiatra infantile Sarah Bompard – è importante sottolineare che, grazie a questo studio, i bambini hanno potuto proseguire, seppure in modi e tempi diversi, una terapia riabilitativa. Siamo riusciti a dare un importante supporto anche ai genitori, preoccupati che la disabilità dei figli potesse peggiorare con la sospensione delle terapie riabilitative in Ospedale. È importante inoltre sottolineare che tutte le famiglie hanno proseguito la somministrazione dei componimenti audio-video personalizzati anche dopo il termine dello studio, dati i numerosi benefici riscontrati. Tra i nostri obiettivi futuri vi è sicuramente quello di condurre studi su un numero maggiore di pazienti e con patologie diverse”.
(agensir.it)
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Giocare è una cosa seria, una delle attività più serie che esistano. È attraverso il gioco che i cuccioli di ogni specie, quella umana compresa, imparano il mestiere della vita, e per questa ragione anche i grandi, ogni tanto, avrebbero bisogno di riaprire la scatola dei giocattoli per qualche “ripetizione”.
Non immaginiamo però il gioco soltanto come un oggetto che si tiene tra le mani; quando incontra la disabilità, infatti, può assumere forme inaspettate, trasformarsi in occasione di inclusione, fare educazione e riabilitazione, addirittura aiuta a superare le barriere architettoniche.
Bambole con disabilità
Le donne con disabilità sono state bambine e hanno giocato con le bambole, come ogni altra bimba. Lo ricordo bene anch’io, i giochi prediletti si dividevano in tre categorie: le bambole-neonato, da accudire come fossimo piccole mamme; le bambole “coetanee”, somiglianti a noi, con cui inventare avventure; la Barbie con il suo guardaroba infinito, il fidanzato, la casa, la macchina, il camper e chi più ne ha più ne metta, per giocare ad essere grandi. Nessuna bambola aveva una disabilità evidente che ne cambiasse l’aspetto e la rendesse in qualche maniera “diversa”. Le piccole disabili del XXI secolo, invece, hanno l’opportunità di giocare con bambole che presentano diverse forme di disabilità.
L’idea è venuta per la prima volta nel 2015 a tre mamme inglesi (tra le quali una giornalista non udente e ipovedente dalla nascita), per rispondere ai bisogni dei loro figli e di tutti i bimbi con disabilità. Hanno aperto un gruppo Facebook e dato il via ad una campagna denominata ToyLikeMe, letteralmente “un giocattolo come me”.
Il messaggio di integrazione e sensibilizzazione è diventato virale, i genitori di bambini con disabilità hanno ampiamente condiviso l’iniziativa, raggiungendo un pubblico di 50.000 persone. Grazie alla notorietà raggiunta, il progetto è diventato realtà. È stata l’azienda britannica MakieLab, già nota per le bambole personalizzabili, ad accettare la sfida e a mettere sul mercato tre bamboline “like me” realizzate mediante la stampa 3D, Melissa, con una voglia sul volto, Eva, che si muove con un bastone da passeggio ed Hetty, con un apparecchio acustico che indica “ti amo” nella Lingua dei Segni.
Al prezzo di 69 sterline (circa 75 euro, non esattamente un prezzo popolare), le Makie Dolls sono progettate su misura per il loro proprietario, con l’azienda che prevede la possibilità di richiedere ai genitori le caratteristiche facciali dei bambini, in modo tale che le bambole possano assomigliare ai loro figli. Oggi sul loro sito si trovano indirizzi di diverse aziende che producono bambolotti e peluche sulla sedia a rotelle, con cicatrici, protesi eccetera.
Negli Stati Uniti, per la non modica cifra di 100 dollari, si può acquistare una bambola realizzata a mano che rappresenta le stesse disabilità delle bambine a cui è destinata. Anche in questo caso l’iniziativa è partita da una mamma che ha promosso la campagna di fundraising A Doll Like Me.
E c’è cascata anche la Barbie: la sua dimora superlusso, infatti, non era accessibile e la sua amica Becky, in sedia a rotelle, non passava dalle porte e non poteva salire sulla macchina! È realmente accaduto nel 1997, con la Mattel, casa produttrice della bambola più famosa del mondo, che ha commercializzato la sua compagna di avventure in carrozzina e soltanto in seguito si è accorta che non poteva entrare in casa e a bordo dell’auto. Una buona intenzione finita in un flop, come nella vita vera, se è vero che anche nell’immaginario mondo di Barbie l’accessibilità è spesso difficile da raggiungere.
Accusato di spingere le bambine verso stereotipi di bellezza irraggiungibile, nel 2016 il colosso dei giocattoli ha lanciato la linea Fashionistas con quattro tipi di bambole dalla diversa silhouette, dalla più magra alla più in carne, sette tonalità di carnagione, ventidue colori degli occhi e ventiquattro acconciature differenti.
Nel giugno del 2019, quindi, sono state messe in vendita due Barbie con disabilità, una seduta sulla sedia a rotelle disponibile in due versioni, classica bionda oppure di colore, l’altra con i capelli scuri, grandi orecchini dorati e una protesi alla gamba. Il prezzo, circa 20 dollari la prima e 10 la seconda, ha l’ambizione di raggiungere una platea vasta, anche se lo slogan che le accompagna, («Puoi essere tutto ciò che desideri»), è realistico fino a un certo punto, visto che le Barbie con disabilità hanno la vita da vespa e il viso supertruccato, nella più classica tradizione della bambola Mattel.
Come dire, se sei sulla sedia a rotelle ma con qualche chilo di troppo e in versione acqua e sapone “vai un po’ meno bene”. La nostra Giusy Versace ha disegnato, invece, una Barbie con le gambe tempestate di cristalli Swarovski, protesi gioiello da cambiare al posto delle scarpe.
La Barbie in carrozzina della linea “Fashionistas”, prodotta dalla Mattel
Il videogioco “Dino Island”, oggetto di sperimentazione da parte dell’Università canadese Victoria, per verificarne i possibili effetti positivi su bambini e bambine con disabilità
Il set “Fun at the Park”, prodotto dalla LEGO
Rita Ebel utilizza le rampe mobili da lei stessa assemblate con mattoncini LEGO e colla vinilica
Dino Island, quando un videogioco diventa riabilitazione
Le mamme devono staccare la spina dal muro per obbligare i loro pargoli ad allontanarsi dai videogiochi. Eppure, come ogni cosa, anche questi moderni prodotti dell’industria ludica non sono “cattivi” in assoluto, bisogna solo usarli nel modo giusto. Numerosi studi ne attestano l’efficacia terapeutica per patologie e disabilità in pazienti giovanissimi, in particolare nei disturbi dello sviluppo neurologico e nelle lesioni cerebrali. La ricerca più recente è proprio di quest’anno e arriva dall’Università di Victoria, in Canada, dove è in fase di sperimentazione, su trentacinque famiglie, Dino Island, un videogioco ambientato su un’isola fantastica sulla quale si devono affrontare sfide di difficoltà progressiva.
Si parte da una constatazione elementare: se un gioco risulta interessante, non può che generare positivi cambiamenti. Dino Island comprende cinque giochi che si adattano alle performance personali del bambino, pertanto ogni livello completato regala bonus da “spendere” virtualmente per acquistare oggetti necessari nella prosecuzione dell’avventura. Il team di ricercatori ha progettato un’esperienza non troppo difficile, ma neanche troppo semplice, per non incorrere in frustrazione o perdita di interesse. I risultati preliminari sono molto incoraggianti: sono migliorati la concentrazione, la memoria, la capacità di trattenere le informazioni, il controllo delle emozioni e, in alcuni casi, ne ha beneficiato perfino il rendimento scolastico. Il videogioco è studiato per essere vissuto in compagnia di un adulto, presto si spera di coinvolgere anche bambini con disturbi dello spettro autistico e deficit dell’attenzione.
…e con i LEGO si superano le barriere architettoniche
L’inclusione si costruisce mattone dopo mattone. Anzi, mattoncino dopo mattoncino, per essere precisi con i mattoncini più divertenti e noti, quelli della LEGO. Inventati per giocare con la fantasia, sono diventati perfino materiale da costruzione per rampe utili al superamento delle barriere architettoniche, ma cominciamo dal principio. Le mamme di ToyLikeMe si sono rivolte ai vertici dell’azienda, chiedendo maggiore attenzione verso la disabilità attraverso una petizione online sul sito Change.org che ha raccolto oltre 20.000 firme. Accolto l’appello, nell’estate del 2015 la linea Duplo ha sfornato venti nuovi omini, tra cui un anziano signore in sedia a rotelle spinto da una ragazza.
Accusata di essere caduta nello stereotipo del disabile non autosufficiente e sempre bisognoso di essere accompagnato (che comunque nella realtà esiste, quindi perché non dovrebbe trovare una rappresentazione?), l’anno successivo il gruppo LEGO ha presentato il set Fun at the Park, destinato ai bambini dai 5 ai 12 anni, con un giovane in carrozzina senza “badante” e un bimbo anch’esso sulla sedia a rotelle.
Fin qui restiamo nell’àmbito del gioco vero e proprio, però, con questo particolare gioco, l’inclusione è uscita dal mondo in miniatura della scatola di mattoncini ed è approdata in città, per abbattere le barriere in modo creativo e colorato. Merito di una simpatica signora tedesca in sedia a rotelle, Rita Ebel, che ha assemblato rampe mobili con LEGO e colla vinilica. I suoi scivoli, oltre ad avere il pregio di approcciarsi alla disabilità in modo leggero e divertente, sono pratici e possono essere facilmente spostati da un negozio a un ristorante, da un ufficio a un marciapiede troppo alto.
Sono di diverse dimensioni, adattabili a spazi differenti, ognuno corredato da una scheda tecnica di realizzazione. Schede che sono arrivate in Italia, alla Cooperativa veneta L’Iride che, incuriosita dall’invenzione, ha contattato Rita, trovandola subito disponibile a collaborare per esportare la sua idea. È così che in punti strategici di Padova e dei centri limitrofi Selvazzano Dentro e Saccolongo, le città dove opera la Cooperativa, sono stati posizionati dei contenitori per raccogliere mattoncini donati dai cittadini. Con il passaparola, in pochi giorni, ne sono arrivati a sufficienza per costruire le prime rampe.
Una quindicina di persone con disabilità che frequentano Iridarte, il laboratorio della Cooperativa, si sono messe all’opera con entusiasmo e tanta voglia di fare, suddivise in gruppi di cinque per rispettare le regole di contrasto al contagio. Numerosi negozi si sono fatti avanti, sia per contribuire alla raccolta, ospitando un contenitore, sia per dotarsi di una rampa LEGO; il Comune di Selvazzano Dentro vorrebbe contribuire, idem quello di Verona. Chissà in Danimarca, nella casa madre dei mattoncini, quanti pezzi verranno scartati perché fallati e non adatti al commercio…
Questo hanno pensato in Cooperativa, e detto fatto hanno chiesto alla LEGO di mandarli in Italia, per dare ulteriore spinta all’iniziativa e una seconda vita a giocattoli altrimenti da buttare. Se l’industria accetterà, potremo vedere le nostre città “colonizzate” dai colori dell’infanzia, senza dimenticare che la priorità è abbattere le barriere con il metodo classico e costruire rispettando le normative dell’accessibilità.
L’identificazione del bambino con i suoi giochi e la pubblicità connessa è stata analizzata da uno studio di COFACE Families Europe che nel 2015 ha sfogliato trentadue cataloghi di giocattoli di nove Paesi europei, Italia compresa, trovandovi “raffigurati” 3.125 bambini, dei quali 2.908 con la pelle bianca, 120 di colore, 59 di famiglie “miste”, 31 asiatici e 7 mediorientali, nessuno con disabilità visibili. Forse sono troppo “vecchia” per esprimere un’opinione su queste iniziative, ma non staremo esagerando con il “politicamente corretto” e perdendo di vista il nocciolo della questione? Se ripenso alla mia infanzia, non ricordo di aver mai sentito la necessità di tenere tra le mani un “fac-simile” di me, seduto sulla sedia a rotelle, ero perfettamente a mio agio con i bambolotti in commercio. Certo, è giustissimo che i giocattoli rappresentino la diversità delle persone, sia essa costituita dal colore della pelle, sia dalle caratteristiche fisiche.
Maneggiando sempre giochi “perfetti”, in una società che ha fatto dell’esteriorità il suo mantra, se non adeguatamente supportati, i bambini rischiano di diventare adulti considerando la perfezione, anche fisica, come unico modello a cui aspirare. E tuttavia, nel caso specifico ad esempio delle bambole con disabilità, c’è il rischio che diventino un prodotto di nicchia, capace di raggiungere soltanto chi ha già una particolare sensibilità verso il tema dell’inclusione, mentre bisognerebbe lavorare perché diventassero utili compagne di crescita anche e forse ancor di più per le bimbe senza disabilità.
Non possiamo delegare ai giocattoli queste tematiche e il cambiamento della cultura, non basta dare un gioco inclusivo e pretendere che i bambini capiscano da soli l’importanza di eliminare i pregiudizi; non vanno mai dimenticati, infatti, il ruolo della famiglia, dell’esempio quotidiano e della società tutta. Facciamo un esempio banale: se un genitore parcheggia sistematicamente l’auto nel posto riservato alle persone con disabilità senza averne diritto e dopo regala la Barbie in sedia a rotelle o il LEGO con l’omino disabile ai suoi figli, pensate sia sufficiente per educare alla diversità?
(superabile.it)
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Come sta oggi Alex Zanardi a 9 mesi dal gravissimo incidente in handbike. Le ultime notizie che hanno raccontato i miglioramenti progressivi fatti nel percorso di riabilitazione dal campione bolognese, oggi 54enne. La regola dei cinque secondi lo ha aiutato ancora una volta: non ha mai mollato ed è rimasto in vita.
Il 19 giugno 2020, ore 17.05, è il giorno in cui la vita di Alex Zanardi è cambiata ancora una volta. Nel 2001 subì l’amputazione delle gambe e fu un miracolo; restò in vita con un litro di sangue in corpo per 50 minuti e dopo 15 interventi chirurgici. Nove mesi fa l’ex pilota di Formula 1, oggi 54enne, fu protagonista di un terribile incidente avvenuto lungo la Statale 146 del Comune di Pienza, sulla strada che conduce a San Quirico d’Orcia (in Toscana). Era sulla handbike quando, all’uscita di una curva, perse il controllo del mezzo e si schiantò contro un Tir che proveniva nella direzione opposta della carreggiata. Quell’evento dimostrativo, organizzato a scopo benefico, si trasformò in tragedia.
Zanardi aveva le ossa della faccia e del cranio fracassate e lesioni gravissime provocate dall’impatto. Rischiò di morire di nuovo, riuscì a salvarsi. La regola dei cinque secondi, quelli in cui credi di non farcela ma se resisti hai vinto (come lui stesso ama ripetere), lo aiutò anche allora. Non ha mai mollato ed è rimasto in vita. “Le Scotte” di Siena e “San Raffaele” di Milano gli ospedali nei quali è stato ricoverato a lungo, sottoposto a operazioni di neurochirurgia molto delicate e a cure specialistiche. Lo hanno salvato anche quando, a causa delle conseguenze del violento trauma, sembrava non fosse possibile scollinare il periodo di rianimazione intensiva. A Padova ha iniziato il percorso di riabilitazione fisica e cognitiva.
Come sta oggi l’iron-man bolognese lo ha raccontato la moglie, Daniela Manni, che assieme al figlio, Niccolò, gli è rimasta accanto in tutto questo tempo. Ha recuperato percezione sensoriale mostrando progressi, mosso il pollice, riconosciuto i suoi cari, stretto la mano alla consorte, riacquistato l’uso della parola comunicando anche verbalmente con la sua famiglia. Ha visto la luce in fondo al tunnel ma prima che ne esca servirà ancora del tempo: alti e bassi scandiscono ancora il cammino verso la piena guarigione.
Quale sia la forza che lo ha sostenuto nei periodi più bui è nella narrazione della sua vita fatta in un incontro con gli studenti delle scuole romane. L’uomo che sopravvisse due volte utilizzò un esempio molto semplice, veicolando un messaggio altrettanto efficace.
“Se un fulmine mi ha colpito una volta, è possibile anche che lo faccia di nuovo. Ma restare a casa per evitare e scongiurare quest’ipotesi significherebbe smettere di vivere. Quindi no, io la vita me la prendo…“.
Uomo, sportivo, campione, esempio di vita. Forza Alex, non mollare. Mai. (fanpage.it)
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Rubrica a cura di Lidia Ianuario – Blogger e Social Media Marketing Specialist / CM in Sociologia
Questa è ‘nata storia, sì. Tutta un’altra storia. Mi risveglio in terapia intensiva, con addosso solo il mio camice e richiedo di assaggiare il caffè, scherzando sulla sua provenienza. Con lo spazzolino da denti, sterilizzato di tutto punto, mi strofinano i denti: ”Non può bere, Signora Ianuario. Lidia, si chiama Lidia, vero?” chiede una voce a me non nota, eppure apparentemente così familiare. Caldo, sento caldo: per l’operazione, lunga, lunghissima, che ha alterato le mie percezioni, e per quella voce, che mi trasmette appunto tepore. Mi lascio cullare, per una volta. Straordinariamente accetto l’aiuto altrui, io – Lidia Ianuario – poco o per nulla abituata a chiedere, grazie agli insegnamenti di mia madre che, fin da piccola, periodo in cui lei lavorava più di mio padre, mi ha insegnato ad essere autonoma. Ritorno al ricordo di quella voce, ora, dal mio ateneo, dove digito, e sorrido.
Affrontare la disabilità sdrammatizzando, è stato questo il mio punto di forza. Con ironia, sì, e con estrema fiducia, anzi, con abbandono. Completamente paralizzata dal collo in giù, con la possibilità, sebbene attenuata, di poter muovere gli arti superiori, pian piano mi rendo conto che è un’abilità, seppur latente, ancora presente. Sentire, tutta un’altra cosa. La mia amica mi accarezza le gambe, io avverto bruciore. In tutte quelle coccole – chi mi massaggia con una crema fitoterapica, chi con un olio, chi mi tocca e basta, chi ha paura per evitarmi il disagio di scoprire quanto si sia alterato il tatto – la sensazione che provo è apparentemente negativa.
Poi, conosco lui, di un Paese povero, brasiliano, ma anche tanto gioioso, e lo avverto, quel calore tanto agognato, tramite le sue mani, come un cioccolatino che si ingoia lentamente e non si vuole mandar giù, mentre la gianduia si scioglie naturalmente in bocca. Qualcosa non quadra e più che mettermi in crisi mi stupisce piacevolmente. Raramente amo essere ignara di quel che accade, la mia razionalità mi porta a trovare sempre una spiegazione a tutto, eppure non c’è.
Questo è il testamento della scoperta della mia ritrovata sessualità.
Posso sentire, anche se solo una persona.
Lo conosco in un giardinetto, lì al centro di riabilitazione, col suo cappellino, messo di traverso, e la gamba poggiata su una panchina. Lo sguardo rivolto davanti, la sigaretta in mano, spenta. Iniziamo a parlare con una delle mie solite battute goliardiche, e se ci penso ora rido a crepapelle, perché lo scambio per qualcun altro. Lui è solo, il calar del sole accompagna la nostra conoscenza e in un battibaleno è già sera. La cena è in stanza da un pezzo. A noi non importa, ci inondiamo della nostra reciproca voglia di andare oltre la nostra sofferenza.
Tutto tace intorno. Intorno, sì, e fuori. Dentro di me, il caos: lui lo intuisce, forse, e mi guarda accondiscendente, come a dire :”Sii serena”, piuttosto che ”Non preoccuparti”. Allora comprendo. Mi guardo intorno, osservo le case in lontananza, il cielo rosso che diventa violaceo e lo fisso negli occhi. Così ho affrontato la mia sessualità: dritta negli occhi, come fosse una persona in carne ed ossa, solo che è, ed era, una parte di me. Da sfiorare, come i miei polpastrelli su questa tastiera, o come i suoi, dopo, in camera, mentre mette a dura prova tutte le mie certezze. Il tatto non mi ha abbandonato.
“Vieni con me, la strada giusta la troviamo […],Portami in alto come gli aeroplani /Saltiamo insieme, vieni con me /Anche se ci hanno spezzato le ali [.. ]”. Le mie ali sono queste parole: vieni con me, sorvoliamole insieme, su questo blog.
L’ATLETA PARALIMPICO, DOPO L’INCIDENTE DELLO SCORSO ANNO, SAREBBE IN GRADO DI COMUNICARE
LA NOTIZIA È STATA DATA DALLA DOTTORESSA CHE LO HA IN CURA, NESSUNO CI CREDEVA, HA DETTO IL MEDICO
Alex Zanardi, l’ex pilota vittima di un grave incidente in handbike lo scorso giugno, ha ripreso a parlare. La notizia l’ha data la dottoressa che lo aveva in cura, Federica Alemanno, che, in un’intervista al Corriere della Sera, ha detto: “È stata una grande emozione quando ha cominciato a parlare, nessuno ci credeva. Lui c’era! E ha comunicato con la sua famiglia“.
LA DEGENZA
L’ex pilota di Formula 1 è ricoverato per la riabilitazione all’Ospedale di Padova dopo l’incidente subito in Val d’Orcia. Sono stati mesi molto difficili con notizie altalenanti sulle condizioni di Zanardi e con un’inchiesta ancora in corso per capire cosa sia realmente accaduto il giorno dell’incidente. La neuropsicologa che lo ha curato al San Raffaele di Milano, Federica Alemanno, ha parlato del risveglio del grande campione e ha detto: “E’ stata una grande emozione quando ha cominciato a parlare, nessuno ci credeva. Lui c’era! E ha comunicato con la sua famiglia“.
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Il campione di handbike sta lentamente recuperando le funzioni vitali, in un percorso che somiglia a una scalata all’Everest.
Il recupero delle funzioni sensoriali
Vedere, vede. Sentire, sente. Parlare ancora no perché gli tengono per precauzione il buco nella trachea ma presto potrebbero chiudergli anche quello, come già hanno fatto con la scatola cranica dopo averla riparata frammento per frammento. E il cervello che ci sta dentro, tornato al sicuro, ha ricominciato a tessere i collegamenti, a recuperare una per una le meravigliose funzioni di cui è capace. Insomma, Alessandro Zanardiè vivo, e lotta come solo lui. Quanto alla faccia, la sua bella faccia appuntita con gli occhi blu, è tornata come prima, più di prima.
Recordman di resurrezioni
L’impresa impossibile sta diventando possibile. Trovando le forze chissà dove, andandole a pescare dentro abissi sconosciuti a noi umani, Sandrino da Bologna, professione pilota, recordman mondiale di resurrezioni, piano piano sta scalando il secondo Everest che gli si è parato davanti all’improvviso, e questa è una delle poche notizie buone di un anno cattivissimo. Il suo primo Everest è già leggenda.
Non soltanto uscì vivo da un incidente che lo tagliò letteralmente in due, gambe da una parte e resto del corpo dall’altra, durante una gara automobilistica in Germania (era il 2001, aveva 35 anni), ma diventò addirittura più forte e più campione buttandosi come un pazzo nel mondo delle handbike, le biciclette da spingere a braccia. Quattro ori e due argenti olimpici, un’infilata di titoli, una fama da monumento vivente al non arrendersi mai, il proposito di concedersi una sfida ancora, Tokyo 2021, i primi Giochi dopo il virus. A 54 anni e passa.
Faccia a a faccia con la morte
Poi il fracasso della sua testa che si frantuma nell’impatto con un camion su una strada nella campagna senese, il 19 giugno di questo disgraziato Ventiventi, durante una tappa di una specie di giro d’Italia su due ruote, una cosa tra la beneficenza e la voglia di portare a spasso un po’ di gioia dopo mesi infami. La seconda montagna stregata lo aspetta dietro una curva cieca, maledetta e imprevedibile come la prima. E come la prima lo mette sguardo contro sguardo con la morte.
La sua terza vita
Stavolta è spacciato, le favole non concedono il bis. I primi soccorritori scuotono le teste. Ma il cuore batte ancora, la moglie Daniela si butta sopra il suo Alex come ad impedire all’anima di scappare via. «Stai qui, resta sveglio, sono io, guardami, guardami». Riesce a tenerlo cosciente, nonostante lo strazio di ritrovarselo, una volta ancora, sfregiato dal destino. Ma è proprio da quell’istante, dalla forza straripante di un amore che impedisce al niente di risucchiarlo, che Zanardi riparte per la sua terza vita. Sono in pochi a sperarci in quelle ore, conciato com’è, molto più di là che di qua. Ma passa la prima notte, poi la seconda, la terza. Il figlio Niccolò posta una foto della sua mano sopra la mano bianca e immobile del padre: «Lui è una tigre. Ce la farà».
L’infezione e la ripresa
E la tigre, ancora una volta, per la seconda volta, fa di tutto per non deluderlo, per non smentirlo. Come gli eroi dei fumetti dei bambini che si rialzano dopo ogni botta tremendissima, Zanardi ingaggia con il destino un’altra battaglia feroce e invisibile. Non si arrende neanche quando, dopo gli sforzi ultraterreni dei primi mesi, un’infezione lo riporta alla casella di partenza. Scivoli in parete e ti ritrovi spossato al principio della scalata. Altre operazioni, altri ospedali, il San Raffaele di Milano che ricompone con infinita pazienza e perizia il puzzle di un uomo scollato.
La forza di Daniela
E sopra ogni cura, sopra ogni chirurgo, in cima all’onda dell’affetto popolare che penetrando da sotto le camere di terapia intensiva carezza il corpo esausto del campione di tutti, dietro ogni disperante ricaduta e ogni impercettibile progresso, c’è una donna, Daniela, Manni Daniela in Zanardi, che ha sposato il suo Sandrino nel 1996 e da 24 anni, nella buona e nella più terribile sorte, lo risposa ogni giorno.
Le passioni comuni
Non troverete una sua intervista, una foto posata, un’ospitata in televisione. Lei c’è per lui e per il loro Niccolò, silenziosa, infaticabile, inavvicinabile non per spocchia ma per pudore. Una volta le dissero: «Che bel marito che ti sei trovata!». E lei: «Verissimo, ma a lui è andata meglio». Si erano conosciuti sulle piste di Formula 3. Daniela era manager di un team, bella competitiva, le gare seguite dal muretto. Sandrino, uno che attaccava le macchine ai muri piuttosto che rinunciare a un sorpasso. Stesso sangue, stesse passioni, caratteri simili, grandissimo amore.
È grazie a Daniela se Zanardi è nato per la seconda volta, dopo la tragedia tedesca del Lausitzring. È grazie a Daniela se Zanardi è sulla buona strada per mettersi ai blocchi di partenza della sua terza vita. Lui non molla mai, lei non molla mai lui. Insieme, non c’è Everest che li scoraggi, per quanto tagliente. La prima domanda che la signora Daniela ha fatto ai medici dopo l’ultimo schianto non è stata «che ne sarà di lui, come resterà se sopravvive, a che futuro va incontro?». No, la prima e definitiva domanda è stata: «Possiamo salvarlo? E allora fate tutto quello che si deve».
I prossimi passi
Il 21 novembre, Alex è stato trasferito nel reparto di neurochirurgia di Padova, vicino a casa (la famiglia Zanardi abita a Noventa, 8 chilometri). Stringe la mano su richiesta. Se gli chiedono di fare ok, alza il pollice. Dov’è Daniela? E lui gira appena il capo verso di lei. Non è certo la vetta ma almeno siamo ai piedi dell’arrampicata, che è già un risultato insperato. Al resto ci penserà la «tigre», un poco alla volta, un centimetro dopo l’altro, a forza di braccia e cuore, fino al traguardo. Il prossimo passo, a cui i medici danno molta importanza, sarà quello di riuscire a tirare fuori la lingua. Non lo vedremo, non ce lo diranno. Ma quando succederà, perché succederà, sembrerà uno sberleffo al dio crudele che dall’Olimpo ha preso così tanto di mira il figlio pilota di una sarta e di un idraulico.
(rielaborazione da corriere.it)
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Una nota dell’Ospedale San Raffaele informa che Alex Zanardi è stato trasferito presso l’ospedale di Padova: una condizione fisica e neurologica di generale stabilità ha consentito il trasferimento, lasciando la struttura milanese in cui è stato curato dallo scorso 24 luglio
L’Ospedale San Raffaele informa che oggi Alex Zanardi è stato trasferito presso l’ospedale di Padova: così spiega in una nota la struttura dove era stato trasferito lo scorso 24 luglio. “Il paziente – spiegano dall’ospedale milanese – ha raggiunto una condizione fisica e neurologica di generale stabilità che ha consentito il trasferimento ad altra struttura ospedaliera dotata di tutte le specialità cliniche necessarie e il conseguente avvicinamento al domicilio familiare”.
Le tappe del percorso riabilitativo
Dopo il drammatico incidente del 19 giugno a bordo della sua handbike vicino a Siena, Zanardi era stato trasportato d’urgenza, operato e ricoverato fino al 21 luglio per poi essere trasferito a Villa Beretta, struttura specializzata in riabilitazione nel Lecchese.
Solo tre giorni dopo però il trasferimento al San Raffaele dove è arrivato “in condizioni di grave instabilità neurologica e sistemica“. Qui il pilota 54enne “ha affrontato dapprima un periodo di rianimazione intensiva, quindi un percorso chirurgico, in primo luogo per risolvere le complicanze tardive dovute al trauma primitivo e in seguito per la ricostruzione facciale e cranica“.
“Negli ultimi due mesi, ha potuto intraprendere anche un percorso di riabilitazione fisica e cognitiva” spiegano dall’ospedale augurando “ad Alex e alla sua famiglia un futuro di progressivo miglioramento clinico“.
Nota dell’IRCCS Ospedale San Raffaele
Milano, 21 novembre 2020 – L’Ospedale San Raffaele informa che oggi Alex Zanardi è stato trasferito presso l’Ospedale di Padova. Il paziente ha raggiunto una condizione fisica e neurologica di generale stabilità che ha consentito il trasferimento ad altra struttura ospedaliera dotata di tutte le specialità cliniche necessarie e il conseguente avvicinamento al domicilio familiare. Il paziente giunto al San Raffaele il 24 luglio scorso, in condizioni di grave instabilità neurologica e sistemica, ha affrontato dapprima un periodo di rianimazione intensiva, quindi un percorso chirurgico, in primo luogo per risolvere le complicanze tardive dovute al trauma primitivo e in seguito per la ricostruzione facciale e cranica. Negli ultimi due mesi, ha potuto intraprendere anche un percorso di riabilitazione fisica e cognitiva. Ad Alex e alla sua famiglia tutto l’ospedale augura un futuro di progressivo miglioramento clinico.
(skysport)
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Il Presidio dell’Ospedale Valduce “Villa Beretta” di Costa Masnaga, è una struttura diventata famosa per gli ospiti “illustri” che ha ospitato negli anni come il fondatore della Lega Nord Umberto Bossi e l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. “Villa Beretta è una struttura di riabilitazione ad alta intensità e complessità riabilitativa. Si occupa di disabilità maggiori, traumi del sistema muscolare e del sistema nervoso a livello cerebrale e midollare“, spiega il dottor Franco Molteni, primario e capo del dipartimento di riabilitazione specialistica. “Abbiamo tecnologie all’avanguardia come esoscheletri indossabili per la rieducazione del cammino e degli arti superiori“. Per quanto riguarda i pazienti come Alex Zanardi la terapia “può durare mesi – spiega il medico – Parliamo di una medicina riabilitativa che punta a mantenere le condizioni di stabilità clinica del paziente. Quando ci sono condizioni cosi complesse tutti gli organi vitali devono essere monitorati costantemente considerando che poi c’è anche il recupero motorio e cognitivo del paziente: un lavoro svolto da psicologi e logopedisti“. (repubblica.it)
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