Parole di Carta: Insight

Se c’è un problema, c’è la sua soluzione – Rubrica a cura di Antonella Carta – Insegnante/Scrittrice – Questa rubrica si propone di passare in rassegna alcune delle piccole-grandi difficoltà del quotidiano di persone con disabilità e, anche con la collaborazione di chi ci è già passato, proporre una strada, senza la pretesa che sia la soluzione

La soluzione dentro di noi (insight)

Di fronte a un problema in genere si spera che la soluzione possa venire dall’esterno o si procede per tentativi, per prove ed errori, o ancora ci si riflette a lungo su o si tenta di comportarsi da manuale riproponendo atteggiamenti messi in atto da altri.

Spesso la verità sta invece in ciò che si sente e non in ciò che si pensa, e la soluzione compare inaspettatamente nella mente.

La nostra società ha purtroppo imparato a desensibilizzarsi, occludendo i canali sensoriali che tanto possono dirci di noi stessi e degli altri. In tal modo viene preclusa, o quanto meno ostacolata, l’intuizione che, immediata e improvvisa, talvolta individua come risolvere un problema senza impelagarsi in ragionamenti farraginosi.

Per poterle dare modo di essere, però, è necessario aprire il canale sensoriale, condizione alla quale è possibile anche individuare il reale bisogno da soddisfare.

Insight

È ciò che la psicologia della Gestalt definisce “apprendimento per Insight”.
Ce ne parla la dottoressa Alessandra Messana, psicologa a indirizzo clinico.

Nell’apprendimento per insight, o intuitivo, accade qualcosa di simile a ciò che è successo nel corso di un esperimento messo in atto da Kohler, in cui uno scimpanzé, dopo aver esplorato gli strumenti a propria disposizione, intuisce la soluzione in un unico passaggio e usa due bastoni per prendere una banana che altrimenti non sarebbe stata accessibile per lui.

Come calare questi concetti nella vita di tutti i giorni e soprattutto quale lezione possiamo trarne?

IL CONSIGLIO

Il più delle volte – afferma la dottoressa Messana – la risposta è data da ciò che già c’è, nel senso che bisogna stare nel qui e ora, vivere il presente pienamente e in modo creativo per poter fare il passo successivo e costruire il futuro. Now for next lo definisce la psicoterapia della Gestalt, l’adesso come base di ciò che sarà nel futuro immediato, mentre il nostro passato fa da sfondo a ciò che siamo nel presente.

Insight

L’insight si fonda proprio su questo, sull’essere pienamente presenti con i nostri sensi per entrare in correlazione profonda con ciò che ci circonda “cocreando il campo”, ossia trovare una soluzione senza passare attraverso un’estenuante catena di tentativi ed errori, entrando in relazione con gli altri e con l’ambiente senza pregiudizi e preconcetti, ma a sensi aperti, permettendo alla soluzione di manifestarsi in modo intuitivo e istantaneo nella nostra mente.”

Quindi la soluzione sta spesso nel “tra”, nella relazione con l’altro o con l’ambiente, se impostata con la spontaneità del pieno contatto.
Per esplicitare il concetto la dottoressa fa ricorso a un esempio, quello delle barriere architettoniche contro cui troppo frequentemente si trovano a scontrarsi una persona con disabilità e il suo caregiver, la persona che se ne occupa a tempo pieno.

La prima cosa da valutare è cosa c’è nel campo: sicuramente il desiderio di risolvere, la relazione tra la persona disabile e il caregiver, il “tra” che, se vissuto aprendo il canale dei sensi, quindi percependo dentro di sé il bisogno dell’altro, può diventare il terreno da cui emerge la soluzione. Talvolta viene fuori in modo istantaneo, con un solo passaggio, altre è necessario procedere per piccoli passi cercando sempre di “sentire” l’altro e venendosi incontro.

A volte può risultare opportuno procedere per adattamenti, quando la soluzione che poteva andar bene in un determinato momento può non essere più efficace in seguito. Non c’è da scoraggiarsi in questo caso, l’essenziale è rimanere in contatto attivando canali profondi e quasi primordiali di comunicazione con l’altro e con l’ambiente, e ciò è possibile solo se rimaniamo pienamente presenti con i sensi che faranno da cassa di risonanza nel trovare nuove soluzioni.

Re Minore: La retorica terapeutica

Rubrica a cura di Elena Beninati – Giornalista/Fotografa

L’antica retorica greca, nella storia, è stata la prima espressione del rapporto concreto fra azione e linguaggio. La cosiddetta arte di persuadere altro non era che il corrispettivo, sperimentato nell’antichità, della moderna relazione terapeutica. L’interesse degli antichi greci ricadeva sulle emozioni evocate nell’interazione attraverso una determinata struttura del discorso, cui si connettono pensieri e significati.

La psicagogica mirava a suscitare delle emozioni intense nell’ascoltatore, al fine di ottenere un cambiamento del suo modo di agire. Più tardi, Aristotele contestualizzò il ruolo del linguaggio in termini di “opportunità” del discorso, che doveva variare a seconda delle circostanze e delle condizioni degli interlocutori. Egli sistematizzò la retorica, riconoscendone l’efficacia e stabilendo che, come la logica fa uso del sillogismo, la retorica ha il suo strumento principale nell’entimema, capace di pervenire a conclusioni probabili e confutabili, i cosiddetti “luoghi comuni”.

Oggi il retore potrebbe essere il terapeuta. Entrambi sono accomunati da parecchie similitudini: cercano entrambi di cambiare le premesse dei propri interlocutori attraverso il linguaggio e le emozioni veicolate dal linguaggio. Entrambi lavorano su parole e metafore. Ma se il retore porta avanti una sua tesi da sostenere, il terapeuta, nel dialogo con i pazienti, è continuamente alla ricerca di una tesi che tende alla definizione senza mai potervi arrivare, pur mettendo in campo una costellazione di nuove emozioni e nuovi sistemi di significato, che possono trasformarsi in nuove premesse.

Lo scopo del terapeuta è ricreare nei pazienti delle situazioni di vita tollerabili. Agendo al livello della ridefinizione degli stati emozionali, infatti, è possibile ridefinire i processi collegati all’interno della coscienza e alterarli intenzionalmente, in modo da riuscire a controllare gli impulsi senza esserne preda, generando nuove connessioni neuronali e parimenti nuove risposte adattive alle situazioni di squilibrio. Mobilitare pensieri e comportamenti finalizzati al raggiungimento e all’acquisizione di nuovi livelli di integrazione, che corrispondono a nuovi modi di reinterpretare gli eventi in base alle nuove aspettative create, costituisce l’anticamera del processo di riformulazione creativa del mondo.

Grazie a questa ricomprensione degli eventi i fatti acquisiscono una vitalità totalmente nuova.

I fatti assumono significati differenti a seconda del periodo storico e dell’ambito disciplinare che li delinea. Nel passaggio dall’ottica sacrale a quella medico-riparatoria, per esempio, l’attenzione si è progressivamente spostata dal riconoscimento contingente dell’alterità degli avvenimenti, all’attenzione verso tutte quelle pratiche di cura finalizzate a sostenere la salute e a contenere lo stato di malessere degli individui.

Lo sbocco terapeutico altro non è che la trasformazione del disagio, che si trova fissato in una forma cristallizzata, in movimento. Ciò è possibile solo all’interno di una relazione di aiuto, che permetta di rileggere la storia dell’individuo scoprendone le risorse, ai fini di una riorganizzazione totale del vissuto e del pensiero, e di un riannodamento dei fili dell’elaborazione emotiva dei fatti.

Ciò consiste in un vero e proprio processo educativo, del corpo e della mente, attraverso la riformulazione del quotidiano. L’educazione, in effetti, nella sua etimologia latina è riconducibile sia al significato di “tirare fuori”, che a quello di “condurre altrove”, in uno spazio che va oltre l’esperienza quotidiana, e dove, quindi, è possibile ricostruire il senso perduto dell’esistenza.

Affinché lo spazio terapeutico si proponga come matrice dal carattere transazionale, e permetta di compiere un lavoro simbolico di nominazione delle zone d’ombra, il cui contenuto possa essere avviato alla ristrutturazione, occorre la piena e totale consapevolezza delle correnti emozionali instauratesi tramite i legami, le alleanze e i conflitti, della storia dell’individuo.

La cura presuppone, quindi, il riferimento al mondo che sta fuori, e deve estendersi al mondo da cui gli individui provengono: famiglia, esperienze, ambiente, sistema di valori e logica.

La relazione terapeutica, proprio perché costituisce un campo di esperienza particolare, ed è attraversata da dimensioni pragmatiche e materiali predisposte secondo un’intenzionalità progettuale, deve tenere conto degli elementi implicati nell’incontro fra individuo e terapeuta a livello di mediazione, intendendo tutti quegli strumenti che ne regolano lo sviluppo: il ruolo, la prossemica del corpo, lo sguardo che si indirizza, la considerazione degli affetti e degli oggetti, i tempi, gli spazi, regole e rituali che dettano i ritmi e le pause all’interno dei quali la relazione si dà ed è portatrice di cambiamento.

Ai fini di una terapia di recupero, sarà allora imprescindibile la valutazione delle condizioni materiali e pragmatiche da approntare affinché l’esperienza di cura risulti formativa, ovvero il percorso di cambiamento, che include i fattori tempo, spazio, rito, linguaggio, regole, azioni, funzionali al contenimento e al supporto della sperimentazione che il soggetto compirà attraverso la propria mediazione corporea, ovvero le esperienze di quella sintonizzazione affettiva così importante per la salvaguardia della salute mentale.

(Foto di Pierre Toutain Dorbec)

Sesso e disabilità: come abbattere un tabù al quadrato

Troppo spesso le persone diversamente abili vengono automaticamente considerate «asessuate» e addirittura prive di normali pulsioni sessuali. Con il suo approccio trascinante e innovativo, la sessuologa Anna Castagna è diventata a questo riguardo una figura di spicco nel campo della divulgazione sex positive. L’abbiamo intervistata per capire il problema culturale ma, soprattutto, per diffondere soluzioni

Oggi in Italia il 5,2% della popolazione vive una qualche forma di disabilità. Si tratta di oltre tre milioni di persone che oltre alla loro condizione patiscono numerose difficoltà aggiuntive e ingiustificate. Dalle barriere architettoniche alla sottorappresentazione politica e mediatica, dalle discriminazioni sociali a quelle sessuali. Molto spesso una persona diversamente abile viene infatti automaticamente considerata «asessuata». A colpirla non è infatti solo il pregiudizio che gli unici partner desiderabili siano quelli che assomigliano ai protagonisti delle pubblicità; il nostro condizionamento culturale ci convince che non abbiano nemmeno pulsioni erotiche, desideri o fantasie sessuali che fanno invece parte della vita di qualsiasi essere umano.

Se a questo punto pensate però di sapere già tutto sull’argomento, a farvi cambiare idea sarà Anna Castagna. Sessuologa, modella fetish, una laurea in Scienze dell’Educazione, un’altra in Scienze e Tecniche Psicologiche e – come dice lei – «ah già: sono anche disabile». Il suo approccio trascinante e innovativo l’ha resa una figura di spicco nel campo della divulgazione sex positive. Invita a considerare il sesso un’avventura entusiasmante anziché un fardello da gestire nonostante tutto. Anziché concentrarci solo sul problema, l’abbiamo intervistata per parlare di soluzioni, che spesso sono più semplici di quel che si potrebbe immaginare.

La prima domanda è inevitabile: quanto è ancora tabù la sessualità delle persone disabili in Italia? C’è qualche differenza sostanziale dal resto d’Europa o del mondo?

«Pensiamo a quanto sia ancora un tabù la sessualità in generale in Italia e immaginiamoci quanto possa esserlo se intrecciata a un tema come quello della disabilità! Io direi: “tanto”. Legato a tutto ciò che vortica intorno al tema della sessualità c’è un grossissimo tabù tanto quanto verso il mondo della disabilità. Unire i due temi crea un vero e proprio “tabù al quadrato”, che per essere superato richiede un lavoro di “decostruzione al quadrato”. Escludendo quelle nazioni in cui il sesso rimane un argomento ancora tutto da sdoganare, l’Italia è ancora molto indietro rispetto, per esempio, a molti stati del nord Europa che si sono mossi e hanno attivato progetti per garantire a tutti il diritto alla sessualità».

La seconda è altrettanto obbligatoria: perché? Da cosa dipende questa situazione?

«Quando parlo di “tabù al quadrato” intendo che la disabilità viene considerata spesso e volentieri solo come condizione patologica, ossia una malattia che eclissa totalmente l’identità dell’individuo. Si tende a vedere la sedia a rotelle, la difficoltà cognitiva, la difficoltà motoria e non Luca, Sara e Andrea con le loro identità e le loro storie. La disabilità è tutt’altro: è una condizione che fa sicuramente parte della vita della persona ma non è la persona stessa – e ancor meno possiamo considerare la persona una patologia. Superato questo primo equivoco sul tema della disabilità, dobbiamo adottare una prospettiva bio-psico-sociale cominciando a osservare la persona come tale, con la sua storia, la sua identità e i suoi diritti.In questo modo possiamo imparare a decostruire e rompere tutti gli stereotipi legati al mondo della disabilità, fra cui: «al disabile non interessa il sesso», «le persone con disabilità mentale sono bambini privi di impulsi», «il disabile non è una persona in grado di svolgere attività sessuale»…

Si tratta di iniziare a pensare come alcune difficoltà possano incontrarsi con le esigenze e i desideri dell’individuo. Così come esistono stereotipi sul mondo della disabilità, ne esistono anche sul mondo della sessualità. Anch’essa andrebbe quindi colta in tutte le sue sfumature bio-psico-sociali, così da sganciarla da una visione puramente riproduttiva, penetrativa e genitale. Tutto questo preambolo era necessario per poter comprendere perché la mia risposta alla domanda sul perché è che questa situazione dipende da un errore di sguardo. Prima riusciremo a decostruire il concetto di disabilità e di sessualità che abbiamo in testa, e prima potremo offrire a tutti il diritto alla sessualità».

Anna Castagna
Ma proprio non esiste alcuna iniziativa istituzionale per sdoganare l’argomento?

«Per fortuna qualcosa c’è, come l’associazione Lovegiver che oltre a difendere il diritto alla sessualità per le persone disabili sta cercando di rendere legale anche in Italia la figura dell’assistente sessuale. Si tratta di una figura professionale molto equivocata, ma l’assistenza sessuale è un percorso che permette alla persona diversamente abile di vivere e sperimentare il proprio corpo, entrando in contatto con la propria vita intima, i propri limiti e il proprio orizzonte affettivo ed erotico in modo dignitoso e consapevole».

E dire che basta davvero poco per eliminare i pregiudizi… Mi viene in mente un suo workshop di un paio d’anni fa, basato su un semplice gioco. Le va di raccontarlo?

«Ma certo! Questo esercizio riguarda in particolare la disabilità fisica. Quando parlo di questo tema amo molto far parlare l’esperienza diretta sul proprio corpo, che credo sia il miglior modo di decostruire tutti i muri e le paure che ci portiamo dentro. In pratica chiedo ai partecipanti di pescare casualmente un biglietto su cui è indicato un limite fisico. Poi faccio loro ricreare quel limite – per esempio immobilizzando una parte del corpo o bendando gli occhi – e creo coppie di “disabili” alle quali chiedo di vivere un’esperienza sensoriale. L’obiettivo è sperimentare il limite e le possibilità del nuovo corpo, ma allo stesso tempo di ascoltare le paure e le emozioni che nascono.

Oltre a permettere loro di provare il concetto di limite, la cosa più importate è che possano sperimentare quello di possibilità, scontrandosi con paure, dubbi e perplessità. Infatti è proprio partendo da queste che si riconoscono i tabù, ed è proprio partendo dai dubbi che i tabù si possono sradicare. La sessualità non è un pacchetto consegnatoci come un abito prêt-à-porter. Si tratta più di un abito di sartoria che va cucito su misura dell’individuo, e ogni individuo può cucire il proprio».

Torniamo a parlare di sesso, escludendo il capitolo delle disabilità cognitive che inficiano il concetto di ‘consenso’ alla base di ogni sessualità sana. L’incontro con corpi fuori dagli standard, o con esigenze particolari, può essere oggettivamente difficile perché non si sa come gestirli – anche solo nel chiedere indicazioni al riguardo. Cosa suggerisce di fare per superare questo ostacolo?

«Ritengo che questa considerazione possa essere estesa a ciascuno di noi. Siamo tutti diversi, e come dicevamo prima la sessualità è un abito cucito su misura – quindi la sacrosanta risposta a questa domanda è: serve dialogo. Ascoltare l’altro ci aiuta a capire le sue reali esigenze o difficoltà senza proiettare ciò che noi “crediamo rispetto alla sua situazione”. Dialogo e ascolto sono alla base di ogni rapporto sano ed equilibrato».

L’altro lato della questione è rappresentato dalla “fame di affetto” di alcune persone disabili. Pur di essere considerate anche per il loro lato sessuale rischiano brutte ricadute emotive per avere abbassato troppo i loro criteri di consenso. Cosa pensa di questo fenomeno?

«Anche questo fenomeno deriva da un concetto di stereotipo interiorizzato che colpisce in egual modo persone “normodotate” e persone diversamente abili. La risposta a tutto questo è una formazione al sesso e all’affettività che comprenda tutti, e che insegni a considerare la sessualità e la vita di ogni individuo nella sua unicità e complessità. Il primo passo verso un futuro di uguaglianza e pari diritti consiste nel farsi domande come queste e decostruire gli stereotipi. Tutti».

(vanityfaire.it)

Re Minore: Persona

Rubrica a cura di Elena Beninati – Giornalista/Fotografa

L’organizzazione nella mente, che consiste nella rappresentazione della sua struttura, dei confini, delle relazioni, dei suoi apparati valoriali e delle attività che l’individuo costruisce, equivale ad una parte del mondo interiore di ciascuno. Ogni patologia che riguarda la mente può considerarsi come un’affezione caratterizzata dal precoce affievolirsi delle sorgenti istintive della vita psichica, in cui le operazioni puramente intellettive entrano in gioco solo secondariamente, e l’indebolimento dell’élan vital costituisce l’elemento necessario e sufficiente della malattia. Nell’autismo in particolare, lo sfaldamento autistico dell’Io e del mondo è così radicale da far emergere la lacerazione dell’Io stesso e anche la sua riaggregazione, che vengono a caratterizzarsi come due momenti di sdoppiamento.

Dalla scissione di questo Io appaiono, allora, due configurazioni egoiche, che sovrapponendosi si accompagnano all’Io frantumato e creano quegli stati patologici classificati come sindrome da frattura dell’intersoggettività, trasformazione spazio-temporale, solitudine artistica, dissolvenza dell’identità e dell’unità dell’Io, allucinazione e delirio, che possono presentarsi sia nei soggetti affetti dalla malattia che in persone cosiddette normali. Sottoposti a traumi assai simili, alcuni uomini reagiscono secondo modalità patologiche vere e proprie sfumando il confine fra sani e malati.

La loro patologia sta nella disposizione di base che permette e determina un tipo di reazione schizofrenica, in cui la schizofrenia è intesa come disturbo primitivo dell’affettività e della vita istintiva dell’individuo. La maggior parte dei disturbi, infatti, sembrano originarsi e strutturarsi a partire da una primaria scissione affettiva e in particolare dalla perdita del contatto cognitivo e relazionale con la realtà soggettiva e intersoggettiva.

Lo scacco dipende dalla mancata differenziazione, intesa come analisi e sintesi della coscienza oggettiva, in cui confluiscono sia la disposizione individuale che l’ambiente culturale in cui l’individuo cresce e si struttura. Se ogni fenomeno psichico è possibile solo ad un determinato livello di differenziazione, ogni malattia mentale deve corrispondere, nel suo modo di manifestarsi, al livello psichico dell’individuo che ne è colpito. Infatti, quanto più la vita psichica risulta indifferenziata, tanto meno si può esserne consapevoli.
Il confine tra sanità e malattia che distingue il patologico dalla normalità è il diverso livello di coerenza del comportamento, che nel caso degli schizofrenici e degli psicotici raggiunge estremi tali che, nei contesti sociali della maggior parte delle comunità, la nostra compresa, risulterebbero difficilmente sostenibili.

Nella schizofrenia, per esempio, non si assiste alla perdita delle funzioni cognitive di base quanto, piuttosto, ad una sottoutilizzazione di esse che, pur restando integre, vengono operativamente coinvolte in modo inadeguato. In questa situazione morbosa la personalità perde unità, in ragione del fatto che la persona è rappresentata ora da uno, ora dall’altro complesso psichico. Le azioni e percezioni che assicurano il nostro continuo ricambio col mondo, nello schizofrenico diventano azioni e percezioni dell’altro, l’io vero interiorizzato ma esposto alla minaccia del reale.

“Lo schizofrenico non erige difese contro il pericolo di perdere una parte del proprio corpo, ma dirige, invece, tutti i suoi sforzi nella difesa del suo vuoto Io. Quella fortezza vuota dove si arretrano le linee difensive quando non si può più difendere l’intero essere”

Bruno Bettelheim, The Empty Fortress

Il contesto socio-culturale e i fattori antropologici, influenzano la percezione dell’esperienza soggettiva degli esseri umani nella sua completezza. Isolando il corpo dall’esistenza, astraendola dal vissuto quotidiano, infatti, non s’incontra più la corporeità che l’esistenza vive, ma l’organismo che la biologia descrive. Salute e malattia correlate insieme, si intendono, quindi, non come oggetti naturali da studiare e classificare, bensì come prodotti storici da comprendere a partire dai concetti di corpo, mente e linguaggio e ovviamente…persona!

(Vietata la riproduzione – Tutti i diritti riservati)

Training autogeno per i bambini con disabilità: Dieci appuntamenti on line

L’iniziativa della Fondazione Ariel. Gli incontri avranno cadenza settimanale: tutti i giovedì, fino al 1° aprile. La risposta a circa tremila richieste di aiuto da tutta Italia (numero verde 800.133.431)

Al via un’iniziativa per aiutare le famiglie che hanno bambini con disabilità. Dieci incontri gratuiti e on line per raggiungere uno stato di distensione fisiologica e di calma interiore grazie al training autogeno. L’idea è della Fondazione Ariel che cerca di offrire alle famiglie strumenti per sopportare lo stress complicatosi con le condizioni di isolamento in casa.

Il corso. Negli ultimi diciassette anni Ariel ha risposto a circa tremila richieste di aiuto da tutta Italia. Ha coinvolto più di 2.700 operatori (medici, psicologi, neuropsichiatri infantili, fisioterapisti, riabilitatori, educatori, ecc..) e 2.500 famiglie in percorsi formativi e gruppi di sostegno. Questa iniziativa è solo l’ultima, in ordine di tempo, per aiutare i genitori a mantenere o ritrovare quell’equilibrio necessario per affrontare le fatiche quotidiane.

Cos’è il Training autogeno?

La tecnica di rilassamento tramite Training autogeno, ideata da Schultz nella prima metà del ‘900, fonda i suoi presupposti sulla constatazione di due correlati fisiologici dello stato psicologico di calma: la pesantezza, esito dell’esperienza della decontrazione muscolare, e il calore, espressione della vasodilatazione periferica. Esercitandosi a percepire pesantezza e calore nei vari distretti corporei si realizza l’opposto di ciò che si verifica in una situazione di stress, di tensione o ansia e si raggiunge lo stato autogeno di rilassamento e calma mentale.

Come dice il nome stesso – “training” – si tratta di un allenamento con esercizi regolari, autoindotto dalla persona stessa, “autogeno”. Attraverso una serie di esercizi che si ripetono in un ordine prestabilito, questa tecnica mette in gioco i sistemi – muscolare, vascolare, cardiaco, respiratorio, addominale e cefalico – coinvolti negli stati di stress e di ansia, generando benessere psicofisico, prezioso per la prevenzione del disagio e della malattia. Obiettivo di questa pratica e del percorso è raggiungere sempre più rapidamente grazie a questa disciplina uno stato di distensione fisiologica e calma interiore, utili per affrontare affaticamento e stress ingenerate dall’emergenza sanitaria in corso, così come da ogni situazione protratta di difficoltà.

Si parte il 21 gennaio. I dieci incontri gratuiti e on line avranno cadenza settimanale: tutti i giovedì, fino al 1° aprile, dalle ore 18.30 alle 19. A tenere il corso sarà la psicologa e psicoterapeuta Silvia Punzi, che ha già curato le prime due edizioni di “Training autogeno” organizzate da Fondazione Ariel. Gli incontri avranno un massimo di dieci partecipanti, sulla piattaforma ZOOM. Per iscriversi è sufficiente compilare il seguente form.

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PSICOLOGIA CLINICA E SESSUALITÀ DELLA PERSONA CON DISABILITÀ

Introduzione 

Fino ad alcuni decenni fa il discorso relativo alla sessualità nei soggetti portatori di handicap veniva considerato tabù e, di conseguenza, eluso dalla letteratura. 
Attualmente, al contrario, l’argomento viene affrontato con sempre maggiore frequenza, sia da parte degli operatori sia dai mezzi di comunicazione. Le ragioni di questo mutamento e dell’interesse crescente nei confronti di tale tematica possono essere molteplici. 
La prima ragione è la caduta di alcuni tabù sessuali e la “costante penetrazione nella coscienza sociale di una nuova sensibilità relativa ai diritti dei portatori di handicap, diritti che tendono, com’è giusto, verso il più possibile” (Ianes-Folgheraiter, in Dixon H. 1990, pag. 7). 
La seconda ragione può essere attribuita al fatto che la tematica relativa alla sessualità dei disabili sia diventata “di moda”, ovvero che “faccia tendenza”. A ciò ha contribuito indubbiamente il fatto che i due termini del discorso, “handicap” e “sessualità”, progressivamente “hanno subìto una particolare forma di censura che non ha comportato l’imposizione del silenzio, quanto piuttosto l’elaborazione di un nuovo linguaggio” (Pennella, 1997). 
La terza ragione può essere individuata nella crescente richiesta di formazione da parte dei genitori e degli operatori, che spesso si trovano ad affrontare direttamente il problema della psicosessualità dei portatori di handicap. 
La quarta ragione, strettamente correlata alla precedente, rimanda al fatto che i bisogni e i desideri sessuali delle persone con disabilità non possono più essere ignorate, sia per la maggiore espansione della coscienza del disabile sia per la crescente accettazione da parte della coscienza sociale. Ciò pone fortemente in discussione la presenza educativa e rieducativa dei genitori e degli educatori e richiede una imprescindibile riflessione sul loro ruolo e sulle modalità più adeguate per affrontare questo problema, nel pieno rispetto della dignità e dei diritti del disabile. La crescente domanda formativa ha naturalmente stimolato una altrettanto crescente offerta da parte degli esperti. Occorre però precisare che, nonostante si discuta da qualche tempo della relazione problematica fra handicap e sessualità, solo recentemente essa viene affrontata in modo serio e sistematico, anche in virtù del fatto che “l’incontro tra la psicologia e l’handicap e la moderna sessuologia è molto recente ed è legato essenzialmente a quei cambiamenti all’interno di queste discipline che hanno permesso di intravedere la possibilità di insegnare la sessualità in un’ottica non veramente assistenzialistica, ma piuttosto educativa nel senso più pregnante del termine” (Veglia, 1991 cit. in Fabrizi, 1997). 

Handicap e sessualità: una visione socioculturale

Fino ad alcuni anni fa, non molti per la verità, la dimensione della sessualità era negata alla persona disabile e i tentativi di risolvere il problema sono nati più dall’esigenza di fornire una soluzione immediata piuttosto che di affrontarlo in modo costruttivo, cioè considerando la sessualità e come mezzo per garantire il benessere attraverso una sempre maggiore affermazione e integrazione del soggetto handicappato. 
In particolare, le strategie adottate si risolvevano in interventi di tipo fisico (uso di psicofarmaci, legamento delle tube, ovariectomia per le donne ed evirazione per gli uomini), psicologico (punizioni, minacce, rinforzo di condotte sostitutive o compensatorie) o psicosociale (isolamento, impedimento di contatti con persone dell’altro sesso). Queste soluzioni si sono rivelate fallimentari per il fatto di trascurare la promozione del benessere degli individui e di misconoscere il diritto umano fondamentale anche della persona disabile di poter esprimere i propri bisogni psicosessuali. La notevole valenza ansiogena delle realtà considerate, l’handicap e la sessualità, giustifica in parte questo atteggiamento di negazione e di repressione e, nonostante la maggiore libertà verso la sfera sessuale, la difficoltà di gestire un fenomeno così complesso è tuttora presente. Genitori e educatori dei disabili, infatti, riescono con difficoltà ad accettare che una persona in situazione di handicap possa manifestare bisogni sessuali analoghi a quelli di una persona normodotata. Il disagio nell’accogliere la dimensione sessuale e la sua espressione nella persona disabile può essere imputato alla biologizzazione della sessualità, ossia alla tendenza a considerarla come mera realtà naturale/organica scarsamente o per nulla correlata a fattori affettivi, relazionali, sociali, ecc. La diretta conseguenza di tale visione è la considerazione della sessualità come dimensione fruibile solo da persone con un apparato biologico sano e funzionale. 
Questo discorso rimanda direttamente ad una questione più ampia, concernente due aspetti correlati: la dicotomia natura/cultura e la dicotomia corpo soggetto/corpo oggetto. La prima implica l’identificazione dell’handicap come complesso sintomatologico derivante da una affezione organica prenatale, natale o postnatale della persona disabile come portatrice di una lesione organica ed ha determinato per lungo tempo la considerazione quasi esclusiva dell’aspetto organico dell’handicap (Pennella, 1997). Gli interventi clinici, com’è facile prevedere, sono una prerogativa della scienza medica. 
La seconda dicotomia rinvia, come afferma Pasini (1991) ad “una visione dualista del mondo e dell’uomo, alla vecchia separazione tra il corpo e lo spirito…”Tale visione postula l’esclusiva appartenenza dell’handicap e della sessualità alla condizione biologica, lasciando poco spazio ad interpretazioni più complesse ed integrate. Al contrario, noi riteniamo che l’evoluzione individuale non possa essere interpretata al di fuori del contesto sociale, senza correre il rischio di elaborare concezioni fallaci e riduttive. La dimensione sessuale, dunque, inevitabilmente si incontra con la visione psicologica del corpo-soggetto, “entrambe pur possedendo una indubbia natura biologica, acquistano tuttavia un senso grazie al loro inserimento all’interno di una dimensione culturale” (Pennella, 1997). 

La psicosessualità nella struttura della persona 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità offre una definizione della sessualità che consideriamo pienamente condivisibile e che recita così: “La salute sessuale è l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali dell’essere sessuato, allo scopo di pervenire ad un arricchimento della personalità umana e della comunicazione dell’essere. 
Alcuni autori (Covigli, 1987; Valente Torre , Cerrato, 1987; Sbardella , Secchi, 1997) evidenziano che la sessualità non coincide esclusivamente con la genitalità e la soluzione della “questione sessuale” non può trascurare altri aspetti ad essa connessi, quali la corporeità, il contatto fisico, la tenerezza, l’affettività, ecc. 
“La sessualità è una dimensione strettamente psichica, di enorme complessità, come hanno rilevato gli studi psicoanalitici: tutta la letteratura di impostazione analitica ha sottolineato la dinamica affettiva, profonda e precoce nella relazione primaria del bambino con i genitori (o con gli adulti significativi sostitutivi) nel determinare la genesi e lo sviluppo della sessualità” (Sbardella, Secchi, id). 
La sessualità, o meglio la psicosessualità, possiede una dimensione genetica in quanto aspetto umano fondamentale che appartiene all’individuo fin dalla nascita e ne accompagnerà l’esistenza, sviluppandosi verso una strutturazione sempre più complessa e integrata. Essa si inserisce in una prospettiva dinamica, essendo intimamente connessa ad ogni altra dimensione della personalità. 
La psicosessualità possiede, inoltre, una dimensione strutturale in quanto comprende elementi e caratteristiche proprie sia del Super-Io che dell’Io e dell’Es, seppure in modo variabile lungo il corso dell’esistenza. 
Dal punto di vista topico, la psicosessualità possiede aspetti consci, preconsci ed inconsci, la cui conoscenza consente di attribuire significato al comportamento e di operare scelte libere e gratificanti. Nell’economia psichica, la psicosessualità possiede una spinta maturativa uguale e, molto spesso, maggiore ad altre dimensioni psicosociali ed ambientali. Essa, infatti, può contribuire alla promozione dell’immagine di sè, dell’autostima, della capacità di affermazione e di interazione significativa e gratificante. 
La psicosessualità rappresenta una realtà complessa e composta da numerosi elementi, la cui scarsa articolazione e sconnessione iniziali vengono gradualmente superate, per giungere ad una integrazione più o meno completa, favorita, peraltro, dalla stessa maturità psicosessuale. Gli elementi che la compongono possiedono una fondamentale valenza maturativa, tanto che l’assenza o la carenza di uno di essi può compromettere lo sviluppo e la stabilità della dimensione psicosessuale dell’individuo. Tali elementi coincidono con sei differenti aspetti: l’area biofisiologica, definita dalla dimensione cromosomica, genetica, endocrina, morfologica e funzionale della sessualità; l’aspetto pulsionale che rimanda alla energia sessuale propria dei bisogni, dei desideri, delle aspettative individuali; l’ambito emotivo-affettivo, cui appartengono i sentimenti e le emozioni, sostanzialmente euforici, che accompagnano la dimensione psicosessuale, in particolare il riconoscimento e l’accettazione della propria identità di persona sessuata, e rappresentano una fonte di soddisfacimento, di gratificazione e di realizzazione; l’ambito cognitivo coincide con il riconoscimento e la comprensione della realtà sessuale, sia in generale sia della propria, che consente di attribuire alla dimensione sessuale la giusta importanza, di comprendere la propria identità psicosessuale, definendo in modo autonomo e personale il proprio ruolo sessuale e, infine, individuare e valutare realisticamente i propri desideri, le proprie aspirazioni e le aspettative nei confronti di questa particolare dimensione della personalità; l’aspetto storico-culturale, ossia la conoscenza e la comprensione dei condizionamenti che la storia e la cultura hanno imposto alla realtà psicosessuale, per poter assumere nei loro confronti un atteggiamento critico, operando scelte autonome e personali; infine, l’ambito dei valori che definisce la collocazione, responsabile, critica e autonoma, della sessualità all’interno del proprio quadro assiologico. 
La sessualità umana è, dunque, profondamente e inevitabilmente intrisa di psiche, in quanto oltre l’imprescindibile aspetto biofisiologico, comprende e interessa aspetti presenti in ogni area della personalità, quella affettiva, percettiva, emotiva, relazionale, pulsionale, motivazionale, ecc. Tale interdipendenza giustifica l’estrema difficoltà di comprendere la sessualità, analizzandola esclusivamente secondo la prospettiva biofisiologica, indubbiamente importante, ma non unica. La dimensione sessuale, per i motivi che abbiamo proposto, rappresenta un elemento primario per definire e valutare la maturità individuale, in quanto costituisce uno degli aspetti fondamentali che la integrano e la determinano e, al tempo stesso, ne è un indicatore basilare. Tuttavia, la stabilità della realtà sessuale risente notevolmente delle sollecitazioni contraddittorie cui è sottoposta, ed è perciò spesso fragile e precaria. In condizioni di crisi, infatti, la dimensione psicosessuale è uno dei primi aspetti della personalità a manifestare disturbi di diversa gravità, che interessano non solo il livello del desiderio, ma anche quello più concreto della condotta sessuale. 
Il discorso sulla psicosessualità risulta particolarmente complesso a causa della notevole influenza esercitata da una considerevole serie di fattori, personali, storici, educativi, socio-culturali, religiosi, ecc., e che può determinare l’emergere di vissuti negativi che impediscono di affrontarla e viverla con serenità, apertura e obiettività nei suoi diversi aspetti. Inoltre, nonostante la notevole quantità di informazioni disponibili per tutti, si riscontra, soprattutto negli adulti e negli anziani, la difficoltà di raggiungere un livello adeguato di comprensione e di consapevolezza circa la complessità della dimensione psicosessuale. Tale carenza può essere in parte attribuita alla difficoltà di accedere ad una appropriata condizione formativa, che consenta di utilizzare la realtà psicosessuale come strumento di integrazione e di crescita personale, attraverso un approccio libero, aperto, sereno e consapevole. In molte circostanze, infatti, nonostante il crollo dei tabù riguardanti la sessualità, quest’ultima non è oggetto di comunicazioni obiettive, chiare e costruttive. 
Si assiste perciò ancora oggi alla attuazione di processi formativi parziali e riduttivi, che non rappresentano delle valide esperienze educative, riducendosi, in molti casi, ad una sterile e inefficace trasmissione di informazioni. Tale condizione può essere attribuita al fatto che i contenuti relativi alla sessualità sono spesso condizionati negativamente da interessi, preoccupazioni e scopi poco sereni e, a livello più o meno conscio, da sentimenti di colpa, vergogna e inadeguatezza. Queste difficoltà si riverberano in modo sfavorevole sulla possibilità degli individui di raggiungere la piena maturazione psicosessuale. 

Psicosessualità e persone con disabilità

L’esistenza e la manifestazione da parte degli individui disabili di bisogni, desideri e condotte psicosessuali, contrariamente a quanto avveniva in passato, non possono più essere negate o ignorate, ma esigono pieno rispetto e impegno per una possibile la realizzazione. 
Tali manifestazioni sessuali si esprimono nelle diverse tappe evolutive, in accordo con il grado e il livello di integrazione personale, di sviluppo cognitivo e fisico, di competenza relazionale e di adattamento e autonomia sociale. Ciò non significa che le difficoltà che il disabile presenta, in particolare se portatore di un handicap psichico, a livello di comunicazione verbale e non verbale, di sviluppo sociale, di integrazione emotiva, di dinamica relazionale, ecc. consentano di instaurare e mantenere relazioni affettivo- sessuali o anche solo genitali significative. Nel caso il cui ciò avvenga, è molto raro che il rapporto si trasformi in una relazione di coppia stabile e duratura. L’esigenza, infatti, di costruire legami durevoli appartiene generalmente a disabili che hanno raggiunto un buon livello di sviluppo cognitivo ed emotivo. 
Queste persone devono essere aiutate e sostenute nei momenti decisivi, che riguardano l’instaurarsi e il consolidarsi del rapporto ed eventuali desideri di formalizzazione del legame o di procreazione. Riteniamo, infatti, che la possibilità di manifestare e vivere i bisogni e i desideri sessuali, in accordo con il proprio grado di coscienza e capacità, sia un diritto umano fondamentale, che non deve essere ignorato ma rispettato e reso possibile. Ciò in particolare per le persone che, a causa delle loro difficoltà, necessitano dell’aiuto degli altri per realizzare la propria psicosessualità. 
E’ necessario, inoltre, distinguere con precisione le pulsioni e i desideri sessuali e le condotte attuate per realizzarli, dai comportamenti che hanno un significato più ampio, poichè rimandano ad esigenze di tipo affettivo-erotiche o a bisogni di relazioni interpersonali più durevoli. Con questo si vuole sottolineare la necessità di interpretare correttamente le esigenze e le richieste del disabile, giacchè alcune condotte apparentemente sessuali celano invece problematiche o richieste più diffusamente affettive e relazionali. 

Gli atteggiamenti degli educatori

Le affermazioni precedenti introducono il discorso relativo all’importanza e alle responsabilità che gli educatori hanno nel favorire la realizzazione del diritto dei disabili di esprimere e vivere la dimensione psicosessuale, al pari delle altre sfere della personalità e sempre secondo le proprie possibilità e in funzione del proprio benessere. Il presupposto fondamentale che consente agli educatori di dare una risposta efficace a tale esigenza, è la capacità di vivere senza angoscia le manifestazioni sessuali dei portatori di handicap, evitando atteggiamenti repressivi o di negazione. 
Un altro aspetto importante è l’acquisizione di una preparazione adeguata per rispondere alle esigenze di educazione sessuale dei soggetti disabili. 
E’ opportuno evidenziare che ci si riferisce ad una educazione sessuale che non riguarda restrittivamente la realtà e la attività propriamente genitale (riguardanti cioè il rapporto genitale, le misure contraccettive o la prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili), ma anche i presupposti per una genitalità vissuta positivamente, ovvero la conoscenza del corpo proprio e altrui, la coscienza della propria identità sessuale e delle differenze sessuali, la comprensione della varietà dei rapporti interpersonali e dei differenti gradi di coinvolgimento e implicazioni, la consapevolezza dei significati del rapporto genitale, inteso nella sua funzione di soddisfacimento sia dei bisogni specificamente sessuali sia di quelli più ampiamente affettivi e relazionali. 
L’intervento pedagogico presuppone, naturalmente, la previa conoscenza delle capacità di comprensione del soggetto, del suo livello di sviluppo emotivo e pulsionale e deve essere attuato in seguito alla manifestazione dei bisogni e degli interessi specifici. 
E’ opportuno che gli educatori siano in grado di gestire adeguatamente i comportamenti del disabile di tipo sessuale, sensuale o specificamente genitale, evitando reazioni di negazione, di colpevolizzazione o di indifferenza. Affrontare correttamente le manifestazioni psicosessuali del soggetto rappresenta, inoltre, un importante deterrente per l’instaurarsi di condotte dagli esiti spesso irrimediabili, quali sfruttamento sessuale del disabile, gravidanze o trasmissione di malattie, o che compromettono od ostacolano l’inserimento sociale del portatore di handicap, perchè rifiutate o stigmatizzate a causa di pregiudizi. 
L’azione educativa deve essere mirata alla ricerca di nuove e stimolanti conoscenze, per instaurare relazioni affettive significative e gratificanti. La presenza attenta e benevola dell’educatore può evitare che tali relazioni divengano fonte di malessere e delusione perchè investite di aspettative irrealizzabili. 
L’attuazione di una azione pedagogica efficace, in grado di promuovere il benessere e la crescita dei disabili, nei limiti e nel rispetto delle difficoltà, dipende anche dalla capacità degli educatori di operare una chiara e consapevole distinzione fra i bisogni e le condotte psicosessuali del soggetto disabile dai propri vissuti emotivi e dagli eventuali conflitti non risolti relativi alla sessualità, per dare una risposta adeguata alle esigenze della persona in situazione di handicap. 
La dimensione psicosessuale dovrebbe essere affrontata e considerata al pari delle altre dimensioni della personalità e dl comportamento. Questo discorso rimanda necessariamente all’importanza di un adeguato percorso formativo per gli educatori e gli operatori che interagiscono con i soggetti disabili. Nel paragrafo seguente cercheremo di delineare un possibile percorso formativo, evidenziando gli imprescindibili presupposti che, a nostro avviso, devono orientarlo. 

La formazione:proposta di un progetto 

Ogni processo formativo costituisce un cammino faticoso e complesso e implica necessariamente una trasformazione personale, oltre che professionale, avendo come presupposto la ricerca della autenticità personale. Ciò è particolarmente importante per chi si occupa di soggetti disabili, giacchè si confronta con due realtà, l’handicap inteso come diversità e la sessualità, che per lungo tempo, e in alcuni casi tuttora, hanno rappresentato due tabù, sia considerati singolarmente sia in interazione. Ciò significa che gli operatori in formazione, a qualunque categoria appartengano, devono affrontare, elaborare e metabolizzare primariamente in sè due dimensioni di notevole pregnanza emotiva, psicologica, sociale e perfino morale. 
La sessualità, da un lato, intesa come dimensione umana fondamentale, deve essere profondamente analizzata e conosciuta dagli operatori, per evitare i condizionamenti di concezioni preconcette e/o stereotipate, a lungo diffuse e fuorvianti il rapporto con i soggetti disabili. 
L’handicap, dall’altro lato, presuppone da parte dell’operatore la necessità di confrontarsi con il vissuto emotivo suscitato dalla disabilità, che spesso ed a lungo si è tradotto in un atteggiamento pietistico o di superficiale solidarietà, inutili e da superare. Accostarsi all’handicap implica, inoltre, la riflessione e il confronto sul concetto di limite umano, che riguarda non solo la persona disabile, ma rappresenta una condizione ineluttabile dell’essere. 
Queste considerazioni inducono una serie di interrogativi che riguardano il processo formativo e le caratteristiche che esso deve possedere per essere efficace. In particolare, ci si domanda quali siano le responsabilità dell’operatore rispetto alle manifestazioni psicosessuali del disabile e di quali strategie e mezzi egli disponga per rispondervi adeguatamente. 
Dare risposta a tali quesiti non è semplice, così com’è difficile proporre un progetto formativo esauriente. Tuttavia, riteniamo che un possibile campo di indagine e di lavoro sia rappresentato dalla riflessione sul vissuto emotivo dell’operatore relativamente all’handicap e alla sessualità. 
Il presupposto su cui si basa il percorso formativo che intendiamo proporre è la convinzione che il soggetto disabile possieda delle peculiarità personali e di condotta che si distinguono per grado di gravità, di strutturazione e di manifestazione e che sia una persona unica e irripetibile, diversa ma non necessariamente malata e con il diritto imprescindibile di esprimere e vivere pienamente, per quel che la natura può permettergli, la propria psicosessualità. 
Sulla base di tali presupposti, riteniamo che il processo formativo non possa trascurare che il bisogno psicosessuale del disabile debba essere riconosciuto, accettato, difeso e favorito. Abbiamo già evidenziato che ciò implica lo sviluppo, anche se graduale, della capacità degli operatori di vivere le esigenze e le richieste psicosessuali della persona in situazione di handicap senza angoscia o panico e senza atteggiamenti di negazione, banalizzazione o di colpevolizzazione del disabile. 

L’esperienza formativa 

In questi ultimi anni l’attività del nostro Centro si è concentrata sulla strutturazione e realizzazione di un percorso formativo per operatori che collaborano con soggetti disabili. Tale percorso, come ogni formazione che intenda essere valida ed efficace, rispetta una condizione teorica e una più propriamente pratica. Tuttavia, l’obiettivo peculiare del progetto è rappresentato dal tentativo di operare una trasformazione profonda dell’operatore, promuovendo la sua autenticità storica, esistenziale e professionale. In particolare, il percorso proposto comprende indicazioni di carattere teorico-tecnico, relative alla dimensione psicosessuale e si fonda sulla teoria psicoanalitica, nello specifico sul modello di sviluppo elaborato da Erikson e proposto nel famoso libro “Infanzia e società”. 
Il percorso in sè non è dunque originale, ma crediamo che l’obiettivo di promuovere il confronto da parte dell’operatore con la propria dimensione psicosessuale, al fine di individuare, sperimentare ed elaborare i propri vissuti, spesso conflittuali, possa essere considerato un elemento creativo e innovativo. Molto spesso, infatti, i progetti formativi prendono in considerazione solo gli aspetti conoscitivi, informativi del problema e solamente in riferimento all’utente o paziente, disconoscendo l’importanza dei fattori emotivi e relazionali dell’operatore. Tali fattori inevitabilmente intervengono quando si instaura un rapporto umano, seppure di tipo professionale, e lo condizionano. Riteniamo, infatti, che ogni relazione d’aiuto, educativa o rieducativa, si declini all’interno di un “campo bipersonale”, un campo, cioè, in cui l’analisi della realtà dell’utente si associa necessariamente alla analisi e alla verifica dell’interazione che si costituisce nel setting lavorativo. In altri termini, uno spazio in cui la costruzione della realtà del disabile si intreccia in modo inevitabile con quella dell’operatore e in cui la nteso nella sua funzione di soddisfadimensione profonda dell’uno interagisce con quella dell’altro. 
Per quel che concerne la dimensione più propriamente tecnica, operativa il percorso formativo che intendiamo proporre e che riprende, come abbiamo detto, il modello evolutivo di Erikson (1976), consiste nell’elaborazione, assimilazione e accomodamento delle varie fasi della vita, che l’Autore individua in otto stadi cui corrisponde una specifica crisi psicosociale che deve essere superata. Il superamento della crisi e, dunque, il passaggio alla successiva fase di sviluppo dipende, oltre che dalle innate tendenze alla crescita di origine biologica, anche dalla risposta dell’ambiente familiare e sociale.
(superabile.it)

Bibliografia 

1) Carli R, 1987, L’analisi della domanda,in Rivista di Psicologia clinica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 
2) Di Sauro R.,1991,L’interiorizzazione del processo diagnostico nel vissuto del paziente come elemento costitutivo per la verifica e la comunicabilità del cambiamento in psicoterapia,in Gentili P. (a cura di), Il cambiamento terapeutico. modelli, verifica e tecniche, Borla, Roma 
3) Di Sauro R.,2002,L’ importanza della valutazione clinica in psicoterapia psicoanalitica,in Psicologia Clinica e Psicoterapia Psicoanalitica, Città Nuova, Roma 
4) Di Sauro R., La formazione alla psicoterapia psicoanalitica, in Pennella A. R. (a cura di). Il confine incerto, Kappa, Roma 
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6) Grasso M., Cordella B, Pennella A R,2003 L’intervento in psicologia clinica,Carocci, Roma 
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8) Ianes D,Folgheraiter,F.in Dixon H,1990, L’educazione sessuale dell’handicappato,Erikson, Trento 
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10) Pennella A. R., 1997, Handicap e sessualità: alcune riflessioni su possibili analogie, Quaderni del Centro Italiano Psicomotricità, Latina, stampato in proprio 
11) Sbardella A, Secchi A,1997, Sessualità ed handicap in Quaderni Centro Italiano Psicomotricità, Latina, stampato in proprio 
12) Valente Torre L, CerratoM.T., 1987, La sessualità degli handicappati, Cortina, Roma 
13) Veglia F.,1991, Una carne sola, insegnare la sessualità agli handicappati, Franco Angeli,Milano 

Come spiegare ai bambini la disabilità?

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Come spiegare ai bambini la disabilità?
I bambini sono molto curiosi, fanno molte domande e, così facendo … con la loro spontaneità ed ingenuità, non sanno di poter causare talvolta dei problemi. E’ certo comunque che i bambini percepiscono le reazioni degli adulti e se c’è imbarazzo da parte dei genitori, è sicuro che essi lo percepiranno e si comporteranno di conseguenza!
Di norma i bambini tendono inoltre ad indicare col dito una particolare persona o cosa, sia per richiamare l’attenzione del genitore, che per chiedergli delle spiegazioni. Un comportamento che è assolutamente normale possa avvenire se il bambino vede per la prima volta nella propria vita una persona disabile.
Bisogna infatti tener presente, come spiega Lelio Bizzarri – coordinatore per il Lazio della SIPAP (Società Italiana Psicologi Area Professionale Privata) – che per un bambino si tratta di “una cosa nuova”mai vistra prima … che lo attrae ed incurioscie, per cui, proprio come se volesse indicare il nuovo giocattolo presente nella vetrina di un negozio, molto probabilmente indicherà con tanto di dito puntato, quel “qualcuno” che per lui è fuori dall’ordinario.
A questo punto va detto che il comportamento degli adulti è fondamentale: mai censurare le emozioni del bambino, bensì aiutarlo a rielaborarle. Se chiede delle spiegazioni, è bene dargliele sinceramente senza esitazioni, evidenziando che nonostante le difficoltà che deve affrontare ogni giorno, questa persona è esattamente uguale a lui e a noi, perché la sua vita, proprio come la nostra, è fatta di gioia, di dolore e della soddisfazione nel superare sfide e difficoltà.
Dev’essere chiaro che la disabilità non deve essere affrontata come una sorta di tabù ma bisogna rassicurare il bambino, trovando un equilibrio: se la persona disabile usa la sedia a rotelle, stampelle o altro, non bisogna permettere al bambino di considerarli come un tabù o come oggetti curiosi, ma spiegare a cosa servono in maniera tranquilla.
E’ raro per i bambini piccoli, ma a volte una persona che non è in grado di muoversi in modo autonomo ma deve ricorrere ad un dispositivo, può essere presa di mira dal bambino, perché considerata come un oggetto da manipolare. In fondo, se non ne ha mai vista una, un bimbo può paragonarla ingenuamente ad una macchinina e quindi può trattarla come un giocattolo: ci gioca e poi la butta via quando si stufa, per passare a un nuovo giocattolo. Ecco perché gli adulti in generale – dai genitori agli insegnanti – devono seguire l’approccio del bambino con il mondo della disabilità, in modo che sia rispettoso e senza remore, ma soprattutto senza atteggiamenti che possono essere manipolatori, invadenti o di derisione.Come spiegare ai bambini la disabilita’? D’altro canto va detto, che la persona disabile può non prendere bene la curiosità di un bambino. Gli adulti dovrebbero in tal caso fare da contenimento, spiegando cioè al bambino che un’eventuale brutta reazione è dovuta semplicemente al fatto che la persona in questione si è infastidita solo per l’eccessiva curiosità: non a tutti in fondo piace essere al centro dell’attenzione!
In conclusione comunque, bisogna ricordare che, come scrive Lelio Bizzarri:

“L’incontro tra bambini e disabilità è certamente molto delicato, ma è bene tenere presente che le difficoltà sono maggiori tanto più è minore la serenità che gli adulti hanno verso la disabilità».

(bambinizerotre.it)

di Giovanni Cupidi