Covid: Un miliardo di euro in pensioni che l’Inps risparmia ogni anno

Considerando l’alternativa, invecchiare è la miglior cosa che possa capitare nella vita. Possibilmente in salute. Sappiamo che purtroppo non va sempre così. In Italia ci sono 3 milioni di non autosufficienti (5% della popolazione) e il loro numero è destinato a raddoppiare entro il 2030. Parliamo di persone che non sono in grado di fare niente da soli e hanno bisogno di un accompagnamento. E allora proviamo a metterci nei loro panni: cosa devono fare per avere il sostegno a cui hanno diritto?

In Italia ci sono 3 milioni di non autosufficienti (5% della popolazione) e il loro numero è destinato a raddoppiare entro il 2030

Odissea tra uffici e sportelli

Per il riconoscimento di una invalidità al 100% perché non riesco a camminare, lavarmi, vestirmi né a mangiare senza l’aiuto di un accompagnatore, devo andare dal medico di famiglia che mi fa la certificazione, che poi invio all’Inps per ottenere un codice identificativo. Con questo codice vado a fare la visita medica all’Asl, e poi presento online la domanda. Ma se non ho dimestichezza posso rivolgermi ad un patronato. A questo punto il mio caso viene esaminato da una commissione presieduta da un medico Inps. Una volta ricevuto dall’Istituto di previdenza il verbale di indennità civile, compilo il modulo AP70 che mi consente di ricevere dalla stessa Inps l’indennità di accompagnamento di 522,10 euro al mese, indipendentemente dal reddito. Non ci sono dati ufficiali sui tempi di questo iter, ma le esperienze raccolte sul campo dicono che passano dai cinque ai sei mesi.

Una commissione diversa per ogni servizio

Da non autosufficiente ho poi bisogno di altre cose: un posto in una struttura diurna che mi ospita per sei/otto ore durante il giorno; dell’infermiere che viene a casa (si chiama Adi, e sta per Assistenza domiciliare integrata), oppure dei pannoloni. Devo quindi rivolgermi all’Asl, perché questi servizi sono finanziati dal Sistema sanitario nazionale. Ogni Regione, e perfino ogni Asl, è organizzata a modo suo. In linea di massima queste richieste passano da tre commissioni diverse dove un geriatra, uno psicologo, un infermiere e un medico di famiglia decidono se ho diritto o meno a quel che chiedo.

Se ho un reddito basso e nessun familiare in grado di occuparsi di me, e ho bisogno di qualcuno che mi aiuti ad alzarmi dal letto, a vestirmi e a mangiare, mi reco agli sportelli dei Servizi sociali del Comune, dove un’altra commissione valuterà se mi spetta il voucher per pagare quello che in gergo tecnico è il Sad, ossia il Servizio di assistenza domiciliare. Ma sempre il Comune, oltre al servizio sanitario, può mettere a disposizione strutture semi-residenziali per trascorrere la giornata. Morale: se beneficio dell’indennità di accompagnamento dell’Inps, dell’assistenza domiciliare del Ssn e di servizi semi-residenziali del Comune devo passare da tre iter diversi. Ognuno con i suoi tempi e criteri di accesso. Un calvario per le famiglie che rende di per sé sfinente e disincentivante richiedere il sostegno che spetta.

Morale: se beneficio dell’indennità di accompagnamento dell’Inps, dell’assistenza domiciliare del Ssn e di servizi semi-residenziali del Comune devo passare da tre iter diversi

Sostegno solo a un anziano su due

Il quadro è così frammentato che nemmeno i ministeri competenti oggi possiedono una mappa completa della situazione reale: né sul tasso di copertura dei servizi, né sui costi perché le varie banche dati non comunicano tra loro. Una stima è appena stata realizzata dal Cergas-Bocconi. Gli anziani che ricevono l’indennità di accompagnamento sono 1,4 milioni, per una spesa pubblica di 8,8 miliardi di euro. Di questi 911 mila anziani beneficiano anche di servizi domiciliari: in 779 mila dall’Asl, mentre in 131 mila dal Comune. Per quel che riguarda l’assistenza presso i centri diurni, 270 mila anziani la ricevono nelle strutture semi-residenziali dei Comuni, mentre 24 mila dal sistema sanitario nazionale. La spesa pubblica totale per questi servizi è di 200 milioni. Il costo complessivo ammonta a 11,16 miliardi, che diventano 15,22 se ci aggiungiamo le case di riposo, dove sono ospitati altri 287 mila anziani.

Una spesa consistente per interventi che tuttavia raggiungono poco più del 50% degli anziani non autosufficienti e con servizi scarsi. Basti pensare che le ore di assistenza a domicilio con l’Adi sono in media 21 in un anno, mentre per il Sad la spesa media annua in voucher è di 2.090 euro. Di fatto la cura degli anziani viene scaricata sulle famiglie: sono 8 milioni i familiari che assistono non autosufficienti.

Per supplire alla mancanza di assistenza pubblica è stata fatta la legge 104 del 1992: i parenti fino al terzo grado possono prendere 3 giorni al mese di permesso retribuito per assistere la persona bisognosa assentandosi dal lavoro: da un lato ciò è insufficiente per chi è solo, dall’altro la norma si presta a una lunga serie di abusi difficilmente controllabili. Inoltre si aggiungono un milione di badanti, per una spesa complessiva di 6,8 miliardi. E quando le famiglie non sono in grado di pagare di tasca loro i servizi domiciliari o semiresidenziali, gli anziani finiscono ricoverati in modo improprio in ospedale.

Il Recovery Plan: gli investimenti e la promessa di riforma

In Italia una riforma è attesa dalla fine degli anni Novanta. Ora sono previsti 500 milioni di investimenti in «Sostegno alle persone vulnerabili e prevenzione dei ricoveri» e 3 miliardi alla voce «Assistenza domiciliare». I soldi arriveranno dal Recovery Plan che ha raccolto alcune delle proposte sviluppate dal Network Non Autosufficienza, coordinato da Cristiano Gori, e promosse e sostenute da decine di associazioni fra cui Caritas, il Forum Diseguaglianze e Diversità e Cittadinanzattiva.

Dal Recovery Plan arriva anche la promessa di realizzare con un’apposita legge, da varare entro la primavera 2023, una «riforma organica degli interventi (…). I suoi cardini saranno la semplificazione dei percorsi di accesso alle prestazioni, un rafforzamento dei servizi territoriali di domiciliarità, e quando la permanenza in un contesto familiare non è più possibile, la progressiva riqualificazione delle strutture residenziali». Ovvero: meno burocrazia, più assistenza a casa e più case di riposo. Come tradurre nella pratica questi intenti, e integrarli di quel manca, è scritto invece nelle proposte di Francesco Longo e Gianmario Cinelli del Cergas-Bocconi, presentate nelle scorse settimane ai ministeri della Salute e del Lavoro e politiche sociali. I ricercatori del Cergas-Bocconi hanno elaborato una proposta di riforma complessiva del sistema che prevede di istituire un servizio nazionale per gli anziani non autosufficienti, come avvenuto nel 1978 per il Ssn.

Più assistenza senza aumento di spesa

Il nuovo sistema si fonda su tre elementi chiave. In primo luogo, facciamola finita con anziani e famiglie che devono peregrinare all’Inps, all’Asl e ai Comuni e istituiamo un’unica commissione che stabilisce chi può avere accesso ai servizi di sostegno. In secondo luogo, diamo un’assistenza commisurata alle effettive condizioni di salute degli anziani. Oggi il sostegno è uguale per tutti gli assistiti. Ad esempio, ricalcando il modello tedesco introdotto nel 1995, un anziano in condizione di autosufficienza limitata che sceglie un aiuto in denaro riceverebbe 288 euro al mese; un non autosufficiente che sceglie l’assistenza a domicilio e in strutture residenziali beneficerebbe di servizi per 1.815 euro al mese. Infine, bisogna affrontare di petto la questione delle badanti, spesso non in grado di assistere gli anziani adeguatamente e alle quali oggi lo Stato non riconosce il ruolo di cura. Vanno formate e regolarizzate: oggi il 60% sono clandestine.

Sarebbe, dunque, giusto indirizzare verso l’assistenza quel miliardo di euro in pensioni all’anno che l’Inps sta risparmiando sui morti Covid

Senza spendere un euro in più, ma solo riorganizzando il sistema si possono assistere meglio 590.000 anziani in più. Ma dal totale restano sempre esclusi un milione di non autosufficienti. Sarebbe, dunque, giusto indirizzare verso l’assistenza quel miliardo di euro in pensioni all’anno che l’Inps sta risparmiando sui morti Covid. La riduzione della spesa pensionistica calcolata per il 2020 è di 1,11 miliardi di euro, se la proiettiamo sul decennio 2020-2029 sulla base delle aspettative di vita rilevate dalle tavole di mortalità Istat 2019, arriviamo ad un totale di circa 11,9 miliardi di pensioni che nei prossimi 10 anni non verranno erogate.

(dataroom@rcs.it)

Aumento pensioni di invalidità: tutte le ultime novità nel decreto Agosto

Con la bozza del decreto legge di Agosto, arrivano alcune novità per quanto riguarda l’aumento delle pensioni di invalidità, soprattutto per gli invalidi civili totali, ciechi assoluti e sordomuti a partire dai 18 anni invece che dai 60 anni. Al momento ricordiamo che dopo la sentenza della consulta del 23 giugno 2020 dal mese di agosto per gli inabili al lavoro scatta l’aumento dagli attuali 286,81 euro ai 516 euro mensili.

Aumento Pensioni di invalidità: nel DL agosto diminuisce l’età minima a 18 anni

Per prima cosa ricordiamo ancora una volta che al momento l’aumento delle pensioni di invalidità spetta soltanto agli invalidi civili con una percentuale del 100% e entro una certa soglia di reddito: i 516 euro al mese scattano soltanto entro un reddito annuo personale di 6.713,98 euro, mentre per il momento resta uguale l’assegno per tutti coloro con un reddito compreso tra i 6.713,98 fino ai 16.982,49 euro annui.
La novità più importante che si può leggere nella bozza del Decreto legge di Agosto però riguarda l’età minima. Infatti stando a quanto si legge nella bozza avranno diritto alla maggiorazione sociale della pensione gli invalidi civili totali, ciechi assoluti e sordomuti a partire dai 18 anni senza dover aspettare i 60 anni. L’età minima necessaria era già stata abbassata nel 2001 passando da 70 a 60, mentre ora potrebbe fare un salto d

Decisamente maggiore e scendere ancora fino ai 18 anni. Per la sentenza della consulta infatti: E’ irragionevole il requisito anagrafico stabilito dalla legge: non è logico rimandare il cosiddetto incremento dal momento che le minorazioni psico-fisiche non dipendono dall’invecchiamento ma derivano a monte da una condizione patologica intrinseca.

Nel decreto di Agosto sono stati previsti 48 milioni di euro per l’anno 2020.

Isee, nuovo metodo danneggia i disabili: “Pensioni invalidità assimilate a stipendi”

Le associazioni per i diritti delle persone con disabilità hanno presentato tre ricorsi al Tar contro l’aggiornamento del metodo di calcolo dell’indicatore indispensabile per accedere a prestazioni sociali agevolate. Chi riceve assegni e altre indennità risulta in molti casi “ricco” e perde il diritto a ulteriori aiuti o l’accesso alle case popolari

Stop al nuovo Isee. La protesta dei famigliari delle persone disabili va avanti da mesi. La revisione dell’Indicatore della situazione economica equivalente rischia infatti di sfavorire soprattutto chi è in condizioni più gravi. Le novità sono state approvate dal governo a fine 2013, ma sono entrate in vigore solo a inizio 2015, dopo che a novembre un decreto del ministero del Lavoro ha predisposto i nuovi modelli per la dichiarazione sostitutiva unica (Dsu) a fine Isee. A essere coinvolti dalle modifiche sono milioni di persone, visto che la dichiarazione Isee è indispensabile per l’accesso aprestazioni sociali agevolate e aiuti per le situazioni di bisogno. L’Isee è stato ripensato anche per rendere il modello meno permeabile a elusionie abusi. Ma ora sfavorisce i disabili più gravi. Queste almeno le accuse di diverse associazioni, che hanno presentato ben tre ricorsi al Tar, la cui sentenza è attesa a breve.

In particolare, tra gli aspetti più criticati c’è il fatto che i contributiricevuti a fine assistenziale devono essere conteggiati nel reddito. Sebbene il decreto del 2013 prevedesse di prendere in considerazione tutti i trattamenti pensionistici, le indennità e gliassegni percepiti, il modello approvato a dicembre indica esplicitamente solo gli aiuti erogati dall’Inps, come le pensioni di invalidità e le indennità di accompagnamento. Rimangono pertanto esclusi nel computo del reddito i contributi erogati dagli enti locali, come per esempio quelli per la rimozione delle barriere architettoniche, per i progetti di vita indipendente, per il trasporto o lasocial card. Un cambiamento in corsa che si è reso necessario forse proprio per rispondere ad alcune delle contestazioni mosse nei ricorsi.

Ma questo non basta a chi si è rivolto alla giustizia amministrativa: “E’ assurdo dal punto di vista giuridico che tali entrate vengano equiparate al reddito da lavoro – sostiene Silvana Giovannini, referente del coordinamento Disabili Isee No Grazie -. Disabilità e lavoro sono la stessa cosa?”. E non è sufficiente a placare le polemiche una serie difranchigie – comprese tra 4mila e 9.500 euro in base a gravità della disabilità e a seconda che il disabile sia maggiorenne o minorenne – previste proprio per abbattere la parte di reddito derivante dai contributi di tipo assistenziale. “Io sono madre di un ragazzo costretto a letto che ha diritto a due indennità, come invalido civile e come non vedente – racconta Chiara Bonanno, una delle coordinatrici di Stop al nuovo Isee, altra realtà che è ricorsa al Tar -. Ora questi soldi faranno reddito e avranno conseguenze sulla mia richiesta di affitto agevolato nelle case popolari, nonostante abbia lasciato il lavoro per assistere mio figlio. Noi siamo considerati più ricchi rispetto a una famiglia senza handicap, con una madre vedova e un figlio che risultino senza occupazione, magari perché lavorano in nero. Il problema è questo”.

Altro punto sotto accusa è il tetto da 5mila euro per le spese che si possono detrarre nel calcolo dell’Isee, come quelle mediche o per l’acquisto di cani guida. “Anche questa è una illegittimità palese – continua Giovannini -. Una persona disabile di solito è costretta dalle sue condizioni a cure particolari e costose”. Per la richiesta di prestazioni sociosanitarie il nuovo Isee dà poi la possibilità ai disabili maggiorenni, senza coniuge e senza figli, che vivano con i genitori, di indicare un nucleo famigliare ristretto, composto dalla sola persona con disabilità senza i genitori. Un vantaggio che non hanno invece i disabili minorenni. E nemmeno i disabili anziani, che nel calcolo del loro reddito devono considerare anche quello di coniugi e figli non conviventi. “Se parliamo di non autosufficienza – sostiene Giovannini – non fa differenza essere minorenni o meno. Perché un disabile minorenne o anziano devono essere penalizzati? Non si possono considerare in modo diverso stati di disabilità identici”. “Facendo così lo Stato dice che un anziano non autosufficiente è un problema della famiglia, non dello Stato stesso”, aggiunge Bonanno.

La battaglia al Tar contro il nuovo Isee va di pari passo a quella da portare avanti negli enti locali per l’innalzamento delle soglie di accesso alle prestazioni sociali agevolate. Il rischio, altrimenti, è uno. “L’esclusione dai servizi essenziali di persone con disabilità gravi e non autosufficienti e con un reddito molto basso”, dice Giovannini. Un rischio reale anche secondo Carlo Giacobini, direttore della testata onlineHandyLex.org, che dopo avere eseguito una serie di simulazioni spiega: “Nella maggior parte dei casi con il nuovo Isee, ferme restando le soglie di accesso ai servizi, non cambia molto. E in certi casi ci sono pure dei miglioramenti. Ma per chi ha disabilità più gravi e ha quindi diritto a indennità plurime, il nuovo sistema rischia di essere svantaggioso. E questi sono proprio coloro che avrebbero più bisogno di tutele, come i pluriminorati con nuclei famigliari ristretti. Elementi di svantaggio ci sono pure per i non vedenti e per gli invalidi sul lavoro”.
(ilfattoquotidiano.it)

di Giovanni Cupidi