Domenica 6 la partenza del più classico dei rally da Lima (in Perù) dove poi la “maratona” motoristica arriverà il 17 gennaio
Eccola un’altra porta del “si può” che si apre. Il protagonista, questa volta, è Nicola Dutto. Il 48enne di Beinette è il primo motociclista paraplegico di sempre al via della Dakar. Già un altro pilota l’aveva corsa nel 2017, ma a bordo di un’auto: Gianluca Tassi, presidente del Cip Umbria, è stato il primo italiano con disabilità a partecipare al rally più importante al mondo, chiudendolo con successo al 41° posto assoluto e primo della classe T2. La Dakar parte domenica 6 gennaio da Lima, e termina il 17 gennaio, dopo dieci tappe, sempre nella capitale del Perù. In gara 334 veicoli di cui 167 tra moto e quad. Le nazioni rappresentate sono 61.
CREDERCI SEMPRE — Nicola ha perso l’uso delle gambe il 20 marzo 2010 per una frattura della settima vertebra dorsale causata da una caduta all’Italian Baja, a Pordenone, in prossimità del fiume Tagliamento, a 150 chilometri orari. Il pilota cuneese, 49 anni il 13 gennaio, non ha però smarrito la sua voglia di vivere e di continuare a cavalcare la sua passione a bordo dell’amata due ruote. Non ha mai odiato la moto o rinnegato quello che ha fatto. Proprio nel Baja, dove si gareggia da soli contro il cronometro su fondi sterrati, si è affermato in Italia e in Europa facendo incetta di titoli. E due anni dopo l’incidente era già nuovamente in sella: nel 2012 ha corso la Baja Aragon in Spagna, diventando il primo pilota paraplegico a gareggiare assieme ai normodotati in un mondiale Desert Race. Si reputa fortunato perché ha potuto trasformare una passione in una professione. Quando sale sulla moto si dimentica di non poter usare le gambe. Ci ha creduto e ha coronato il suo sogno, solo sfiorato lo scorso anno a causa di un problema fisico che gli aveva impedìto di testare le moto da spedire in Sudamerica per la Dakar 2018.
MOTO ADATTATA — Nicola, numero 143, sarà al via con la KTM 450 EXC-F modificata, dotata di comandi a manubrio, ovvero cambio e frizione automatica così come il freno posteriore. Adattata con roll-bar di protezione per le gambe, schienale su misura, in caso di cadute o imprevisti sarà soccorso dai “ghost riders” Paolo Toral, Victor Rivera e Julian Villarrubia che saranno al suo fianco lungo gli oltre 5 mila chilometri del percorso.
Il paziente è riuscito a muovere la mano e a versare del liquido in una bottiglia (foto: Ohio State University Wexner Medical Center/ Batelle)
ll risultato della sperimentazione della Ohio State University, pubblicato su Nature. Il giovane ha 24 anni ed è tetraplegico dal 2010
UN RAGAZZO di 24 anni con braccia e gambe paralizzate ha potuto muovere la mano, le dita e il polso, afferrando una bottiglia e riuscendo a versarne il contenuto in un bicchiere. Gesti quotidiani resi possibili grazie a un chip impiantato nel cervello, nel secondo esperimento di questo tipo su un essere umano. Il risultato della sperimentazione, pubblicato su Nature, si deve al gruppo coordinato da Ali Rezai, della Ohio State University, Chad Bouton, dell’Istituto Feinstein per la ricerca medica, e Nick Annetta, del Battelle Memorial Institute.
Un ‘bypass neurale’. Il giovane è immobilizzato da anni a causa di una lesione del midollo spinale superiore. Il ritorno al movimento è stato ottenuto utilizzando i segnali registrati dalla sua corteccia motoria. Con un ‘bypass neurale’, fatto di un chip impiantato in testa e di un sistema hi-tech in grado di connettere il cervello ai muscoli, gli scienziati sono riusciti ad aggirare la lesione che aveva spezzato questo legame e a ripristinare il controllo degli arti.
Il primo esperimento. Già nel giugno 2014 lo stesso gruppo di studiosi aveva parlato della rivincita del giovane Ian Burkhart e dei suoi primi movimenti dopo anni di immobilità assoluta. Ian era rimasto paralizzato nel 2010: tuffandosi in mare, aveva battuto la testa su un banco di sabbia nascosto dalle onde. A distanza di 4 anni dall’incidente, il ragazzo era tornato a muovere la mano. Ora, passati altri due anni, il chip lo ha aiutato a fare qualche cosa di più complicato e di insperato: afferrare una bottiglia, stringerla abbastanza da poterla maneggiare per versarne il contenuto. Ma anche altri gesti complessi come strisciare una carta di credito e usare la tastiera di un computer.
Un chip nel cervello. Il team di scienziati statunitensi ha impiantato un chip nel cervello del paziente; il microelettrodo è stato collocato nella corteccia motoria. Gli esperti hanno usato algoritmi di apprendimento automatico per decodificare l’attività neuronale e controllare l’attivazione dei muscoli dell’avambraccio attraverso un sistema di stimolazione elettrica neuromuscolare. In pratica, spiega Silvestro Micera che insegna Neuroingegneria alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, il sistema “ripristina in modo artificiale il collegamento tra i segnali che il cervello invia agli arti per farli muovere, che è interrotto nelle persone paralizzate a causa di lesioni spinali”.
Per Micera, il risultato è molto interessante e potrebbe rendere più veloce il trasferimento di questo tipo di tecnologia sui pazienti. Il sistema si chiama NeuroLife, ed è un ‘bypass nervoso elettronico’ che registra i segnali della corteccia grazie al chip, li elabora e li trasforma nei movimenti desiderati grazie a un sistema basato sull’intelligenza artificiale, e permette di muovere la mano paralizzata attraverso gli elettrodi posti sull’avambraccio.
La tecnica. Nel 2014 Burkhart è stato il primo paziente tetraplegico al mondo a far registrare progressi grazie all’utilizzo di questa tecnica. La paralisi implica l’interruzione dei percorsi lungo i quali corrono le ‘direttive’ che il cervello invia ai muscoli. Nel tempo sono stati sviluppati sistemi che traducono l’attività neurale in segnali di controllo destinati a dispositivi di assistenza, come braccia robotiche, e sono stati anche applicati per guidare l’attivazione dei muscoli paralizzati nelle scimmie. Finora però nessun approccio del genere aveva dimostrato di funzionare, ripristinando in tempo reale il movimento nell’uomo. Nel nuovo studio si è dimostrata questa possibilità. “Negli ultimi dieci anni – spiega Bouton, uno degli autori della sperimentazione – abbiamo imparato a decifrare i segnali del cervello dei pazienti che sono completamente paralizzati e ora, per la prima volta, questi segnali sono stati trasformati in movimenti”.
Gli esercizi. Dopo l’impianto, il giovane ha affrontato 3 sedute a settimana per 15 mesi per poter usare il sistema elettronico di bypass neurale che gli ha permesso di muovere un singolo dito e di compiere 6 diversi movimenti del polso e della mano. Soprattutto, spiegano gli scienziati, il paziente è stato in grado di completare gesti funzionali alla vita quotidiana, come appunto afferrare una bottiglia, versarne il contenuto in un barattolo e utilizzare un bastoncino per mescolare.
Necessari ulteriori test. E’ ancora presto per poter dire che il metodo potrà funzionare altre volte. Anche se ulteriori miglioramenti di queste tecnologie sono necessari per far sì che i risultati ottenuti siano più ampiamente applicabili, gli autori si dicono comunque convinti che questo lavoro farà avanzare la tecnologia delle ‘neuroprotesi’ dedicate a persone che convivono con gli effetti di una paralisi.
(repubblica.it)
Una frazione di secondo. L’inquadratura dura solo un attimo. Un arbitro bambino alza il cartellino rosso e i ballerini della cerimonia di apertura si arrestano. Il “giudice di gara” corre a bordo campo dove Juliano Pinto, paraplegico brasiliano con un esoscheletro tira un calcetto a un pallone. Molte regie dei network tv internazionali si sono persi lo storico gesto durato pochi frame. L’hanno inquadrato per un momento e poi via verso la festa di apertura dei mondiali di Calcio in Brasile. Il protagonista di quest’istante è un ragazzo paraplegico di 29 anni in sedia a rotelle che grazie a gambe bioniche si alza in piedi e dà il calcio d’inizio. Di cinguettio in cinguettio la foto vola sui social network (@walkagainprojct). Guardo il ragazzo ingabbiato in un esoscheletro bionico a controllo cerebrale e penso a un bambino malfermo sulle gambe nell’atto di spingere la palla con il piede. Così imponente grazie alla supertuta che lo fa somigliare a Robocop e così fragile dentro quell’armatura mentre si alza dalla sedia a rotelle.
Mi sembra di rileggere sul suo volto quell’emozione/stupore di tornare a guardare il mondo da un’altezza considerata nella norma. L’ho provata e ho cercato di raccontarla quando testai un esoscheletro simile (a controllo meccanico e non cerebrale). Immagino lo sforzo fisico e psicologico di quel ragazzo a dare il via ai Mondiali di Calcio. Il suo gesto meccanico, ma dettato dalla sua volontà, in mezzo ai gesti atletici dei migliori calciatori al mondo. Macchine perfette, corpi scolpiti… il calciatore è il “figo” per eccellenza. Ecco quindi il sogno che si realizza. E’ difficile trasmettere la complessità di quel movimento. Sono stato “bipede” prima di avere l’incidente e mai avrei pensato che un atto tanto banale, come tirare un calcio a un pallone, fosse in realtà tanto complesso. Una volta avrei visto il pallone e quasi senza impegno… tac un bel calcione. Pensiero e azione. Millesimi di secondo. Il cervello che comanda e il corpo che esegue.
Compresi dove stava la difficoltà a 26 anni adagiato in un letto di ospedale. L’avrei capito quando di nascosto (forse un po’ anche da me stesso, per paura della terribile delusione) chiudevo gli occhi e concentravo tutto il mio pensiero sul pollice del piede. Volontà e cervello impegnati allo stremo per impartire un ordine semplicissimo: “muoviti”. Il “muoviti è un ordine” è diventato pian piano un “ti prego dai un segno di vita”. Nulla se non cloni temporanei, micromovimenti dovuti a contrazioni involontarie dei muscoli. Una volta immaginai pure che mi stessero premendo un piede. Nulla. Rimasero deluse anche quelle persone che per curiosità o speranza mi toccavano mentre ero distratto (come si fa quando si arriva alle spalle di una persona). Nulla. La paraplegia non è soltanto il non movimento. E’ anche questo. E’ il non sentire le sensazioni sulla pelle dal petto in giù (almeno per il mio tipo di lesione), è il non sentire se hai mal di pancia, il non controllare le proprie funzioni fisiologiche. E’ il sentirsi inferiore agli altri (e la società contribuisce molto a questa sensazione) perché non hai le stesse capacità degli altri. Poco importa che tu ne abbia altre, ma in cima ad una scala – che porta magari al tuo vecchio impiego – non ci arriverai mai. E’ il vivere in attesa che qualcosa cambi, che si arrivi a una cura (Leggi Carrozzine di Stoccolma)
E ora in mondo visione quel gesto, semplice e banale, che viene compiuto da una persona in carrozzina. Sotto gli occhi di milioni, se non miliardi, di persone. E un fremito mi corre lungo la schiena. Si è riacceso il motore della speranza, ma anche quello della paura. Il terrore che si gridi al miracolo (purtroppo come ho letto in vari articoli sul web accanto all’errore di indicare il ragazzo come tetraplegico – lesione che non consente l’uso degli arti superiori – invece che paraplegico). Io ho provato quelle gambe bioniche, e anche se si tratta di una versione avanzata, non è ancora una soluzione per tutti. Quel bellissimo oggetto frutto del lavoro di 170 ricercatori (e molte migliaia impegnate su altri progetti) è un passo avanti nella ricerca.
La speranza non deve diventare illusione. Il confine è sottilissimo. In attesa dell’evoluzione della specie degli esoscheletri, godiamoci lo spettacolo dei mondiali e Forza Azzurri!
(invisibili – corriere.it)