Disabilità: un algoritmo musicale migliora il sonno dei piccoli

Un algoritmo musicale migliora il sonno dei bambini disabili, li rilassa e riduce lo stress dei genitori.

Si tratta di una precisa sequenza di suoni, voci, musiche e immagini sviluppata dai ricercatori dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù e personalizzata in base alle necessità di ciascun paziente. La nuova tecnica riabilitativa è stata sperimentata durante il primo il lockdown del 2020 come terapia sostitutiva delle sedute in Ospedale per garantire la continuità delle cure anche a casa. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista scientifica “Journal of Telemedicine and Telecare”.

Il metodo riabilitativo sviluppato dai ricercatori del Bambino Gesù si chiama “Euterpe”, dal nome della mitologica dea della Musica. Viene regolarmente utilizzato dai terapisti del Dipartimento di neuroriabilitazione del Bambino Gesù, diretto da Enrico Castelli, per la stimolazione multisensoriale dei bambini con disabilità motorie e neurologiche attraverso l’uso combinato – secondo le necessità del paziente – di suoni, musiche, immagini, aromi, oggetti, strumenti e luci.
Durante il primo lockdown del 2020 questa terapia è stata rielaborata per essere eseguita anche a domicilio (teleriabilitazione). Sono stati così realizzati dei componimenti audio-video personalizzati che contenevano suoni a particolari frequenze, musiche originali, la voce della mamma e del bambino stesso, canzoni e ninne nanna familiari, immagini legate a momenti piacevoli registrate durante le sedute al Bambino Gesù.

Lo studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di neuroriabilitazione del Bambino Gesù ha coinvolto 14 pazienti affetti da diversi disturbi neurologici (paralisi cerebrale infantile, sindromi genetiche, malformazioni cerebrali), tutti al di sotto dei 12 anni (età media 7 anni e 5 mesi). Al termine della sperimentazione, gli effetti della terapia a domicilio sono stati valutati con appositi questionari scientificamente validati. Dall’analisi sono emersi dati statisticamente significativi. In particolare la riduzione dei disturbi del sonno dei bambini, i livelli di stress dei genitori e il miglioramento della relazione bambino-genitore.

Oltre ai risultati raggiunti – dice la neuropsichiatra infantile Sarah Bompardè importante sottolineare che, grazie a questo studio, i bambini hanno potuto proseguire, seppure in modi e tempi diversi, una terapia riabilitativa. Siamo riusciti a dare un importante supporto anche ai genitori, preoccupati che la disabilità dei figli potesse peggiorare con la sospensione delle terapie riabilitative in Ospedale. È importante inoltre sottolineare che tutte le famiglie hanno proseguito la somministrazione dei componimenti audio-video personalizzati anche dopo il termine dello studio, dati i numerosi benefici riscontrati. Tra i nostri obiettivi futuri vi è sicuramente quello di condurre studi su un numero maggiore di pazienti e con patologie diverse”.

(agensir.it)

Recovery plan e disabilità: nuove risorse e lacune antiche

Sulla disabilità che cosa esprime il PNRR? Chi ha redatto il Piano dimostra di conoscere gli elementi portanti della Strategia europea sulla disabilità 2010-2020 che spazia dalla piena inclusione, alle politiche per il lavoro, all’accessibilità, all’istruzione più inclusiva, al miglioramento dell’assistenza medica e dei sistemi di protezione sociale sostenibili e di alta qualità. Tuttavia, il “tema” disabilità è sostanzialmente confinato nella missione sull’inclusione sociale. Anzi, in una parte di quella missione

Inquadriamo lo scenario usando la stessa sintassi governativa. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) è il programma di investimenti che l’Italia deve presentare alla Commissione europea nell’ambito del Next Generation EU, lo strumento predisposto a Bruxelles per rispondere alla crisi provocata dalla pandemia da Covid-19. È strettamente necessario che il Piano sia elaborato in modo congruente alle richieste UE per poter contare su un contributo mai visto e che sfiora i 200 miliardi. Il Governo Conte ne aveva elaborato una prima deficitaria versione.

Il Governo Draghi ci ha rimesso le mani ne ha inviato testo e schede tecniche al Parlamento. Sarà al centro del Consiglio dei Ministri di domani e poi della discussione parlamentare lunedì e martedì prossimi. Infine sarà approvato in una nuova riunione del CdM e inviato a Bruxelles.
Il Piano (chiamato anche Recovery Plan) è articolato in sei missioni: digitalizzazione; innovazione; competitività e cultura; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per la mobilità sostenibile; istruzione; cultura e ricerca; inclusione e sociale; salute.

Attorno alle oltre 318 pagine del PNRR, non solo per la vastità del documento, è difficile esprimere sia una stroncatura, che certo non merita, che un acritico apprezzamento. Molti invece gli interrogativi, talora pessimistici ma più spesso sinceramente ispirati dalla curiosità di conoscerne la effettiva applicazione e ricaduta sulle persone, sulle famiglie, sulla collettività.

Sulla disabilità che cosa esprime il PNRR? Chi ha redatto il Piano dimostra di conoscere gli elementi portanti della Strategia europea sulla disabilità 2010-2020 che spazia dalla piena inclusione, alle politiche per il lavoro, all’accessibilità, all’istruzione più inclusiva, al miglioramento dell’assistenza medica e dei sistemi di protezione sociale sostenibili e di alta qualità. Lo dimostra e la cita assieme ai preoccupati report (2017) del Parlamento europeo.

Tuttavia, il “tema” disabilità è sostanzialmente confinato nella missione sull’inclusione sociale. Anzi, in una parte di quella missione. Se alcuni elementi sono certamente apprezzabili (al netto di come verranno effettivamente realizzati), non emerge una visione d’insieme articolata e che colga, almeno in nuce, le complessità irrisolte su disabilità e non autosufficienza, su inclusione e pari opportunità, su segregazione e isolamento.

Nella missione riservata all’inclusione sono previste per la disabilità due specifiche linee di intervento. La prima è quella delle infrastrutture sociali che dovrebbero “rafforzare il ruolo dei servizi sociali locali come strumento di resilienza mirare alla definizione di modelli personalizzati per la cura e il miglioramento della qualità della vita delle persone con disabilità, anche attraverso il potenziamento delle infrastrutture sociali che coinvolgono il terzo settore.” Non è ancora chiaro di cosa si intenda nel dettaglio, ma verosimilmente vi saranno inclusi servizi residenziali, semiresidenziali e di accompagnamento.

Ci si attendeva in queste parti un più articolato dettaglio, solo ad esempio, sul tema della non autosufficienza. Aspetto invece che rimane molto debole in tutto l’impianto del Piano con quello che ne deriva per una parte significativa della popolazione.

Più stringente la seconda linea che contempla invece i percorsi di autonomia per le persone con disabilità cogliendo in parte , almeno in termini programmatici, molte istanze avanzate in questi anni. Gli intenti espressi – su cui si possono elaborare differenti letture – sono quelli di evitare la istituzionalizzazione o di favorire la destituzionalizzazione soprattutto attraverso l’assistenza domiciliare ma anche di accompagnamento all’autonomia personale. Si delineano anche sostegni all’abitare, agli interventi per la ristrutturazione delle abitazioni anche con il ricorso a strumenti di domotica o tecnologicamente avanzati. Un passaggio è dedicato al ricorso a strumentazione e allo sviluppo di competenze digitali in funzione del telelavoro. Il tutto dovrebbe essere inquadrato nella definizione di progetti personalizzati.

In altri passaggi non si rileva invece alcuna particolare attenzione alla disabilità; in particolare l’assenza brilla nelle politiche per l’occupazione (grave!) e nell’housing sociale. Come pure in altre linee dedicate alla disparità di genere e, ancora, all’istruzione o, infine, alla reale accessibilità alla salute, alla prevenzione, alla cura.
Si tace sulla disabilità anche nella parte riservata all’innovazione nella Pubblica amministrazione. Qui di apprezzabile vi è il richiamo all’accessibilità degli atti e delle risorse pubbliche (peraltro già previsto da un corpus regolamentare nazionale ed UE).

Rimane quindi la spiacevole sensazione che la visione della disabilità sia costretta nell’ambito dell’assistenza e della protezione sociale (nel senso minimale dell’espressione) e non piuttosto in quella di una condizione umana trasversale cui riservare inclusione e opportunità.
Non è una sensazione ma una certezza invece, la lacuna rispetto alle riforme strutturali strettamente necessarie al successo stesso del Recovery Plan. È una lacuna che sappiamo essere ben chiara nella sua ampiezza sia a Draghi che al suo entourage: è quello della governance. E governance non significa solo e tanto vigilare che gli obiettivi siano raggiunti per distribuire i quattrini. Significa conservare la regia e i poteri sufficienti per far sì che quegli obiettivi siano realmente perseguiti.

Nel sociale – a noi qui quello interessa – ciò è particolarmente infido. Tentiamo di spiegarla facile e in poche righe. La legge quadro sull’assistenza (recte: sistema integrato di interventi e servizi sociali) risale al 2000. Norma risultante di una stagione di forti idealità, di condivisione, di confronti, la 328/2000 è verosimilmente la legge meno applicata alle nostre latitudini. Anche per una banale coincidenza storica: quasi contestualmente è stato riformato il Titolo V della Costituzione restituendo alle Regioni pressoché tutte le competenze in ambito sociale. Anziché generare mirabolanti effetti la pretesa sussidiarietà ha partorito 21 sistemi sociali regionali ed una profonda disparità territoriale, fortissime disequità allevate nell’assenza di livelli essenziali di assistenza sociale. E niente: con una punta di provocazione possiamo di che che forse l’unico “livello essenziale” reale è oggi l’indennità di accompagnamento, quella che eroga INPS per conto dello Stato.

Negli ultimi anni si è malamente tentato di metterci una toppa, usando i decreti di riparto di alcuni Fondi nazionali come leva a lungo braccio per imprimere un minimo di uniformità di trattamento almeno su alcuni aspetti (non autosufficienza, dopo di noi …). Ma le risorse sono troppo limitate per forzare cambiamenti radicali e strutturali nei territori. Per usare una immagine bucolica: se si gettano semi un terreno che oramai è ghiaioso, difficilmente germoglieranno. Lo stesso fenomeno che accade quando risorse arrivano in un territorio in cui i servizi sociali sono largamente assenti.
Nel sociale lo Stato non ha poteri sufficienti per governare, rendere omogenei servizi e politiche, eliminare odiose disparità territoriali (che la UE mal sopporta); deve quindi contrattare al ribasso le regole con le Regioni, tornare ai consueti decreti di riparto e incidere assai poco nei casi di latitanza.

E che c’entra il Recovery Plan? Ci si ritrova nella stessa situazione di governance monca e che le più mirabolanti intuizioni rimangano impaludate in antichi meccanismi.
A meno che… A meno che Mister Draghi, forte del consenso che per ora conserva, non tiri fuori un coniglio dal cilindro, modificando regole e norme che ci condizionano da parecchi lustri. Se ciò dovesse avvenire, ci auguriamo si inizi dal sociale.
(di Carlo Giacobini su vita.it)

Disabili, il lavoro che non c’è. Sempre più crisi: serve un piano

Marina ha 50 anni e lavora per una cooperativa che si occupava di pulizie in uno sporting club. Il centro non ha ancora riaperto, a causa dell’emergenza Covid. Marina, che ha una lieve disabilità psichica, rischia di non riprendere più a lavorare.

Damiano di anni ne ha 21 e vive nel Milanese. Due importanti operazioni mediche subite da bambino e il ritardo mentale gli hanno reso molto difficoltoso il percorso scolastico. Alla fine, con grande impegno, ha ottenuto una qualifica professionale. “Qualche mese fa – racconta sua madre Eleonora – è stato assunto in un piccolo supermercato ed era al settimo cielo. In questo periodo però la clientela scarseggia, gli hanno ridotto l’orario da otto a quattro ore e il contratto sta per scadere. A casa si annoia e senza niente da fare rischia di perdere l’autonomia così faticosamente conquistata”.

Fabio invece ha la sindrome di Down. Si è diplomato con il massimo dei voti all’alberghiero e ha ottime referenze dai tirocini. Ma oggi non trova lavoro e la scuola, su richiesta della famiglia, è riuscita ad attivare per lui un altro periodo di tirocinio: un paradosso, dato che il ragazzo ha già superato brillantemente la maturità.

Tre storie emblematiche di questa faccia dell’emergenza lavoro: in Italia ci sono un milione di persone disabili disoccupate o in cerca del primo impiego, con probabilità assai scarse di trovare un posto in tempi ragionevoli, vista anche l’emergenza sanitaria. Il sistema pubblico di collocamento non riesce a realizzare più di 20/30mila inserimenti l’anno, a fronte di oltre 800mila iscritti. Il risultato è che in Italia su 100 persone disabili tra i 15 e i 64 anni in grado di lavorare solo il 35,8 per cento lo fa, contro una media del 57,8 per cento per i normodotati. A restare quasi completamente escluse sono le persone con disabilità più complesse, determinate da problematiche psichiche, intellettive, relazionali, o da malattie rare. La media europea dell’inclusione lavorativa dei disabili supera invece il 50 per cento.

A rischio

Ma questa situazione, già drammatica, potrebbe peggiorare con il termine del blocco dei licenziamenti che mette a rischio diverse migliaia di lavoratori disabili, tra i quali molti over 50. L’età media di questa categoria, in Italia, è pari a 59 anni. Proprio per favorire una riforma strutturale del sistema di collocamento delle persone disabili è nata nei giorni scorsi «Andel – Agenzia nazionale disabili e lavoro», soggetto non profit che opererà in questo ambito. L’obiettivo? Colmare il vuoto di «idee, strumenti e professionalità adeguate a progettare e gestire il collocamento mirato e i percorsi personalizzati di accompagnamento al lavoro, indispensabili per la maggior parte delle persone con disabilità, sul modello di quanto accade in molti Paesi europei e anche in alcune realtà locali del nostro Paese, dove vengono realizzate con successo sperimentazioni e buone pratiche», spiegano dall’agenzia. A usufruire dei suoi servizi saranno aziende, Comuni, scuole, università cooperative sociali.

Per la prima volta anche il Terzo settore, con le associazioni dei disabili, sarà co-protagonista dell’inclusione lavorativa. C’è molto da fare. A partire per esempio dall’urgenza di ridurre il divario di opportunità fra Nord e Sud: stando ai dati odierni, una persona con disabilità residente nel Centro o al Sud ha probabilità quasi nulle di essere inserita lavorativamente mediante il sistema pubblico. Neppure gli incentivi alle imprese almeno per il momento funzionano: nonostante la loro consistenza (fino al 70 per cento della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali e fino a 60 mesi) le aziende che li utilizzano sono sempre state poche migliaia. E dalle circa tremila che vi hanno fatto ricorso nel 2016 e nel 2017 siamo scesi a poco più di mille negli anni successivi.

Avvicinamento

«Un dato così deludente non può che portare alla conclusione che l’intero sistema deve essere riformato», hanno spiegato Marino Bottà e Enrico Seta, direttore generale e presidente di «Andel». Entrambi recentemente hanno incontrato il ministro della Disabilità Erika Stefani, nella sede del Ministero. L’obiettivo dell’agenzia è realizzare, entro il 2026, azioni qualificate di avvicinamento al mercato del lavoro per circa 100-200 mila persone disabili. Secondo Andel «la crisi post-pandemica e il programma Next Generation Eu sono una preziosa occasione per intervenire con incisività». Per questo l’agenzia ha chiesto al Ministero di inserire una linea d’azione per l’inclusione lavorativa delle persone disabili nel piano italiano di accesso alle risorse europee del Recovery Fund.
(corriere.it)

Disabilità: Lavoratrici caregiver a rischio licenziamento

Essere un caregiver familiare oggi è decisamente drammatico, specie se si è donne: madri, mogli, sorelle di persone con disabilità, in molti casi di persone con malattie rare e croniche gravemente invalidanti, o di persone anziane non autosufficienti. Parliamo di una stima di 7milioni di persone in Italia, per la stragrande maggioranza donne.

Lo Sportello Legale dell’Osservatorio Malattie Rare riceve continue richieste di aiuto: “Hanno utilizzato tutti i permessi (104 e non), tutte le ferie, i congedi, perfino l’aspettativa”, spiega Ilaria Vacca, giornalista dello Sportello Legale. “Se non sono collocabili in smart working? Se i loro familiari non possono assolutamente rischiare il contagio Covid, che fare? E quando i familiari devono essere assistiti h24 e non è più possibile affidarli a strutture semiresidenziali o caregiver professionisti non ancora vaccinati? Dal DPCM 2 marzo 2021, l’ultima misura prevista dal Governo, nessuna risposta per queste persone. Quanti di loro (e quante donne soprattutto) perderanno il posto?

La situazione dei lavoratori fragili ad oggi è drammatica, perché la maggior parte delle misure di tutela introdotte nella prima fase dell’emergenza sanitaria non sono state rinnovate”, si legge in un comunicato di Omar Osservatorio Malattie Rare. “Il DPCM 2 marzo non menziona alcuna proroga rispetto alle originali tutele previste dal Decreto Cura Italia che permettevano ai lavoratori fragili di assentarsi dal lavoro, men che meno prevede forme di tutela per i cargiver familiarei. Il ricorso allo smart working è solo fortemente raccomandato, ma nessun obbligo legale è previsto in nessun caso.

Resta attivo solo il congedo parentale straordinario per i genitori dipendenti in caso di sospensione dell’attività didattica in presenza (in zona rossa sostanzialmente) delle classi seconde e terze delle scuole secondarie di primo grado”, prosegue il comunicato Omar. “Lo stesso Congedo è stato previsto per i genitori di figli in situazione di disabilità grave – riconosciuta ai sensi dell’Art. 3 comma 3 della Legge 104/92 – in caso di sospensione della didattica in presenza di scuole di ogni ordine e grado o in caso di chiusura dei centri diurni a carattere assistenziale, indipendentemente dallo scenario di gravità e dal livello di rischio in cui è inserita la regione dove è ubicata la scuola o il centro di assistenza. Il congedo prevede il riconoscimento di un’indennità pari al 50% della retribuzione, calcolata secondo quanto previsto dalla normativa precedente.”

Gli unici specifici riferimenti alla disabilità del DPCM 2 marzo riguardano le attività sociali e socio-sanitarie (da svolgere secondo i piani territoriali e seguendo i protocolli previsti), la deroga al distanziamento sociale per le categorie effettivamente impossibilitate a rispettarlo e la possibilità di svolgere sempre attività motoria all’aperto per queste stesse categorie”, riporta la nota. “A questo si aggiunge la novità, forse l’unica davvero positiva, introdotta dal comma 5 dell’Art. 11, che introduce – per i soli territori in ‘zona gialla’ – una deroga fondamentale all’assistenza da parte di caregiver per gli accessi a visite mediche e ai pronto soccorso per persone affette da grave disabilità. Gli accompagnatori dei pazienti in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, possono ora accedere al pronto soccorso insieme al paziente.

Stando alla norma il caregiver, inoltre, può prestare assistenza anche nel reparto di degenza, ma unicamente nel rispetto delle indicazioni del direttore sanitario della struttura. Il che potrebbe implicare una certa discrezionalità rispetto alla possibilità di restare con il proprio familiare durante tutto il ricovero.

Al DPCM 2 marzo seguirà il Decreto Legge ‘Sostegni’, che dovrebbe prevedere – secondo le bozze non ufficiali circolate nei giorni precedenti – un articolo dedicato alla tutela dei lavoratori fragili. Nulla – conclude il comunicato – è previsto, ancora una volta, per i caregiver, sempre più invisibili agli occhi del mondo. Specie se donne.

(clicmedicina.it)

Detto tra Noi: Caregiver e dintorni

Una Rubrica a cura di Angiola Rotella – Presidente Insieme per l’Autismo ONLUS

La crisi politica che stiamo vivendo in questo periodo, che speriamo si risolva al più presto, ci mette nelle condizioni di dover constatare che, ancora una volta e con una ennesima scusa, la disabilità continua inevitabilmente ad essere trascurata.

La speranza è ormai il sentimento motore delle persone che vivono questa condizione ed è un sentimento che fa credere che, presto o tardi, si esca da questo anonimato forzato e si riconquisti quella dignità che purtroppo continua ad essere calpestata dalle innumerevoli priorità che, evidentemente, non tengono conto del diritto alla vita negato alle persone con disabilità ed ai caregiver per naturale conseguenza.

Infatti oggi voglio soffermarmi sulla figura “disgraziata” del caregiver.
E’ stato pubblicato, infatti, pochi giorni fa, su G.U., il decreto ed il riparto delle risorse relative al triennio 2018/2019/2020 destinate alle regioni che devono utilizzarle per “interventi di sollievo” ai caregiver familiari.
La cosa mi preoccupa molto, se si tiene conto di quanto già evidenziato prima.
Proprio perché in un momento di totale assenza dello Stato, gli interventi di sollievo potrebbero essere molto distanti dai reali bisogni dei caregiver che mai come oggi si traducono in “emergenza economica”.

Tocca fare molta attenzione a come le regioni intendono interpretare il decreto in questione perché di avvoltoi sulle spalle dei disabili e delle loro famiglie ce ne sono già abbastanza.
A tal proposito numerose associazioni a tutela dei diritti delle persone con disabilità e loro famiglie si sono già premurate di chiedere incontri alle relative regioni per poter insieme individuare i percorsi migliori.

Sarà sufficiente?
Essendo direttamente coinvolta, in quanto io stessa caregiver, mi auguro che si tenga conto del momento storico che si sta attraversando e di tutte le relative ripercussioni a danno dei caregiver.
E’ stato ed è tuttora molto duro occuparsi dei propri cari con disabilità al tempo del covid. E’ necessario uno sforzo in più per entrare davvero nelle case delle persone con disabilità e rendersi conto delle infinite sfumature che rappresentano i giorni difficili che viviamo.
Il mio personale augurio di potervi dare al più presto, buone notizie.

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La pandemia è un’occasione per ripensare alla vita delle persone con disabilità

È arrivato il covid ed è stato un colpo non indifferente. Non ci si può più abbracciare, toccare. Non ci si vede più, si comunica via Skype e Whatsapp. Durante il lockdown c’è stato un momento di cosiddetto panico da impossibilità fisica, anche se il rapporto di reciproca alleanza con gli operatori, gli educatori e il coordinatore è stato positivo”.
La mamma di Luca, un uomo di 32 anni affetto da tetraparesi spastica e che ha vissuto in un “gruppo appartamento” convenzionato con l’azienda sanitaria di Padova, commenta così i mesi di emergenza sanitaria. “Poi, sempre questa primavera, siamo passati alla fase due”, continua. “Potevo andarlo a trovare. Ora la realtà è più problematica per via dell’aumento dei contagi. C’è stato un focolaio in una comunità, quindi sono stati assenti diversi operatori… E non c’era personale sufficiente a gestire le varie realtà. Circa due settimane giorni fa mi hanno chiesto se ero disponibile a portare a casa Luca perché non sono in grado di garantire le presenze. Inoltre le strutture sono ancora chiuse: niente visite né rientri in famiglia”.
Luca è dovuto quindi rientrare in famiglia: anche se non per sua volontà, sia lui sia sua madre ne sono contenti, nonostante le difficoltà dovute alla riorganizzazione del ménage domestico. Ma gli altri ospiti delle residenze socioassistenziali e sociosanitarie italiane – 273.316 secondo i dati riportati nel rapporto del Garante per le persone private della libertà del 2018 – chissà per quanto tempo ancora non potranno incontrare parenti e amici.

In un centro di riabilitazione per disabili a Roma, 13 ottobre 2018. (Simona Granati, Corbis/Getty Images)

Residenze isolate
Come previsto dalle disposizioni inserite nel dpcm del 18 ottobre 2020 e confermate nel successivo dpcm del 3 novembre, per contrastare il rischio di contagio da covid-19, infatti, gli accessi dei visitatori alle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) sono limitati ai casi indicati dalla direzione sanitaria della struttura, che è tenuta ad adottare le misure necessarie a prevenire possibili contagi finché non sarà finito lo stato di emergenza.
È più difficile da verificare quello che sta succedendo nelle residenze di natura sociale o socioassistenziale, come le comunità alloggio o i gruppi appartamento, perché la loro gestione spesso dipende da regolamenti interni. Ma l’orientamento generale resta quello di un divieto di contatti con l’esterno.
La rete residenziale dedicata alle persone con disabilità (che è di competenza regionale, salvo alcuni criteri comuni definiti a livello nazionale), è una realtà molto complessa da monitorare: sia perché manca una sistematizzazione dei dati sia perché ci sono molte differenze a livello regionale sull’autorizzazione e la convenzione delle strutture con le autorità sanitarie regionali (l’accreditamento), che seguono standard e criteri diversi. La regionalizzazione delle procedure ha prodotto anche un sistema di classificazione dei servizi abitativi frammentato in una molteplicità di tipologie che sono solo parzialmente coincidenti e comparabili.

La sanità è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattia o infermità

L’offerta di assistenza residenziale per persone con disabilità non è quindi completamente omogenea sul territorio nazionale, e spazia dalle strutture a connotazione prevalentemente sanitaria e assistenziale, finalizzate quindi principalmente alla cura e alla riabilitazione (le Residenze sanitarie per persone con disabilità, Rsd), ai servizi di natura sociale o socio-assistenziale, come le comunità alloggio e di tipo familiare o i gruppi appartamento, il cui obiettivo è più orientato alla promozione dell’autonomia e della vita indipendente.
La scelta del governo e, conseguentemente, delle regioni, risponde all’esigenza di tutelare la condizione fisica degli ospiti. Ma la “salute” di una persona non coincide con la “sanità” del suo corpo, come ha riconosciuto l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che la definisce uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattia o infermità” .
Le fortissime limitazioni all’accesso degli esterni alle strutture residenziali dovrebbero salvare gli ospiti da un’ecatombe come quella a cui abbiamo assistito pochi mesi fa nelle Rsa, ma la limitazione delle relazioni sociali e della libertà di movimento di chi in quei luoghi ci vive, quale impatto avranno sulla salute?
Tutelare la “sanità” del corpo non dovrebbe essere in antitesi con la promozione di altri diritti, principalmente di inclusione nella comunità e di autodeterminazione, riconosciuti nella Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.
Ma nelle strutture residenziali il processo di empowerment personale è limitato, visto che la responsabilità del rapporto di cura difficilmente è condivisa alla pari tra chi elargisce le prestazioni assistenziali e/o educative e chi le riceve. Sono gli operatori e/o educatori, i dirigenti o direttori della residenza, la regione, lo stato a essere garanti della salute degli ospiti: quindi il potere decisionale dei singoli rispetto alla gestione della propria vita e delle proprie relazioni ne risulta fortemente ridotto.

Ridiscutere il sistema
La natura stessa della residenzialità in una struttura andrebbe quindi messa in discussione, in quanto mette a rischio uno dei princìpi contenuti all’interno della Convenzione ovvero il rispetto per l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone sia nell’ordinarietà sia nell’emergenza.
Forse questa crisi può diventare un’occasione per pensare politiche differenti, che rispettino e promuovano il diritto per le persone con disabilità di scegliere il proprio luogo di residenza e con chi eventualmente vivere, senza essere obbligate a una particolare soluzione abitativa, come sancito nell’articolo 19 della Convenzione. È in questa direzione che si orienta anche “Iniziative per il rilancio. Italia 2020-2022”, il documento prodotto dal comitato di esperti guidato da Vittorio Colao, consegnato alla presidenza del consiglio lo scorso giugno. Nel rapporto viene chiaramente esplicitata la necessità di adottare un approccio basato sulla domiciliarità dell’assistenza, per mantenere i legami sociali e proteggere sia l’individuo sia la comunità. Si raccomanda inoltre “la costruzione di un’alternativa al ricovero in Rsa e Rsd tramite progetti terapeutico-riabilitativi individualizzati e di vita indipendente”.
Più recentemente il ministro della salute Roberto Speranza ha istituto una commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana che favorisca un’efficace transizione dalla residenzialità a forme di assistenza domiciliare. Finora però ciò che è scritto sulla carta non corrisponde molto alla realtà.

Attualmente la presenza a casa delle persone con disabilità, anche adulte, spesso coincide con la delega della loro assistenza alla loro famiglia di origine. Lo sanno bene tutti quelle e quei caregivers familiari (ruolo che in Italia è svolto prevalentemente dalle donne) che durante gli scorsi mesi di lockdown hanno dovuto fare i conti con i tagli dei servizi assistenziali e socioeducativi e si sono trovati da soli a fronteggiare tutto il carico del lavoro di cura. Un “affare” delegato allo stato o alle famiglie. È questa la teoria dominante sulle persone con disabilità di cui purtroppo tuttora è pervaso la sensibilità comune a tutti i livelli, quella istituzionale compreso.
Occorre quindi considerare le cittadine e i cittadini con disabilità non più solo come oggetti di cura e restituire loro la piena responsabilità della gestione della propria esistenza. Affinché si realizzi questo, ciò che serve sono sostegni e strumenti per permettere a ciascuno di vivere dove e come desidera. Dagli ausili tecnologici che facilitano l’autonomia personale alla promozione di reti informali di sostegno che affianchino i supporti istituzionali, come l’associazionismo o i percorsi di cohousing o di vicinato solidale. Le strategie da mettere in campo possono essere molteplici. L’obiettivo però è uno: rendere le persone con disabilità protagoniste della loro vita.
(internazionale.it)

COVID-19, IL DIRITTO ALLA SALUTE DELLE PERSONE CON DISABILITÀ: “NON POSSIAMO RESTARE IN PORTO PER PAURA DEL MARE”

di Alessandro Mella (Scrittore e divulgatore storico), Marilena Apuzzo (Psichiatra), Federica Galli (Psicologa Clinica, Ricercatrice)
Foto di Ben Allan/Unsplash

Le misure di mitigazione attualmente in atto in tutto il mondo rischiano di esacerbare molte sfide psicologiche, finanziarie e quotidiane delle persone con disabilità.


Se c’è qualcosa che la vita ci ha insegnato in questa fase è come gli stravolgimenti siano costanti, imprevedibili ed improvvisi. A riprova di come la nostra normalità non sia scontata. Nel mio caso, come nel caso di molti, l’ho sperimentato due volte. Se ne parlo non è per vanagloria, anzi avevo riserve a farlo in questi termini, ma perché credo che questa storia sia del tutto simile a migliaia di altre storie, di altre persone cui spero di contribuire a dare voce.

Abituato ad una vita “vivace” nel 2015, all’improvviso, sintomi sospetti mi portarono a scoprire di essere caduto in un abisso. Mi fu diagnosticata una dolorosa e violenta forma di artrite reumatoide con fattore reumatoide ed anti-ccp positivi ad alto titolo.

L’AR è una malattia cronica e degenerativa, purtroppo tendenzialmente invalidante. Ti cambia totalmente la vita. Devi rinunciare a molte cose, moltissime, e accettare il fatto che ogni sforzo ti costerà poi un prezzo, una rappresaglia da mettere in conto. Pochi mesi prima avevo letto di questa malattia interessandomi dell’improvvisa sospensione delle attività dell’attrice Anna Marchesini. Leggendone mi spaventai e mi dissi che mai avrei voluto vedere qualcuno caro doverla affrontare. Ironia della sorte dopo pochi mesi toccò a me.

Non è facile trovarsi a trent’anni con il corpo di un novantenne, con dolori fortissimi, con l’impossibilità di provvedere a se stessi in piena autonomia, con le rinunce lavorative, sportive, sociali e umane. Premetto che ho avuto la fortuna di trovare medici di prim’ordine, bravissimi, attenti e scrupolosi verso i quali nutro un costante senso di gratitudine e con i quali mi interfaccio per ogni decisione. Dopo vari esperimenti decidemmo di passare ai farmaci biotecnologici e la terapia fu una iniezione di un potente immunosoppressore a casa (benefico per la malattia ma pieno di effetti collaterali che vanno dalle nausee a molto altro) affiancato da infusioni, somministrate in ospedale, di un farmaco similare biotecnologico. Associato ad un antistaminico di sicurezza. Ogni sei settimane, quindi, andavo in ospedale per riceverlo.

Durante il periodo del lockdown, ovviamente, non fu possibile recarsi in ospedale ed il percorso terapeutico fu sospeso. Potevo fare solo il primo farmaco ma non il biologico e quindi avere una terapia dimezzata. Scelta incontestabile, comprensibile, mai mi sognerei di contestarla a chi l’ha presa obtorto collo. Feci l’ultima infusione a febbraio e poi iniziarono i problemi. Solo a maggio iniziò ad aprirsi qualche spiraglio ed ai primi di giugno fu possibile tornare in ospedale tuttavia, avendo subito una parziale “disintossicazione” forzata, concordai con i medici di passare, anche per il biologico, ad un sottocute per ridurre le presenze in reparto ed i rischi futuri. Ma questo va ritirato non in farmacia normale ma in un altro ospedale di zona presso la relativa farmacia asl. Ergo in caso di lockdown la sicurezza di riceverlo, in cuor mio, non può che calare.

Vi è da dire che questi sono farmaci molto molto spossanti (e in genere immunosopressori) e si vive in perenne stanchezza pur tentando di conquistare, giorno dopo giorno, spazi di libertà e di autonomia. Quel che si guadagna è sempre frutto di compromessi e fatica, propri e delle persone care.

Contestualmente a tutto questo, in quei mesi, mi fu impedito, ovviamente, di vedere la persona che amo molto e che mi ha scelto e mi sta accanto malgrado la mia invalidità e disabilità perpetue. Può sembrare puerile, infantile, financo stupido a dirsi, ma lei è il mio primo farmaco. La sua presenza è un effetto placebo insostituibile. Preferirei rinunciare a tutti i farmaci che a lei. Sceglierei il dolore del corpo piuttosto che quello dell’anima. E specialmente in quel modo improvviso.

Quelle settimane lontane furono uno strazio per l’anima, così forte che ancora oggi ne sento il peso e vivo con l’angoscia che ricapiti. Io sono sempre stato, nel mio piccolo, impegnato culturalmente e socialmente ma sto facendo molta fatica a tornare a leggere e scrivere ed occuparmi dei miei doveri. Devo e sto cercando di tornare a vivere e riprendere il mio mondo. Ma quelle ferite dell’anima riemergono spesso. I titoli dei media, poi, non aiutano e ritrovare pace ed i giornali, alle volte, sembrano voler infondere un “male di vivere” quotidiano.

So che si tratta solo di un’impressione ingenerosa ma questo è quello che si percepisce. Ogni giorno l’angoscia sale, il malessere cresce, poi arriva un poco di speranza e poco dopo si ricrolla nella paura. Non è vivere questo, forse nemmeno sopravvivere.
Per cui talvolta mi espongo per rimarcare un tema che non sento solo mio. Sono convinto, convintissimo intimamente, che appartenga a decine o centinaia di altre persone con malattie croniche e già provate da queste. Tutti abbiamo sofferto, chi più chi meno, ed io non giudico mai la sofferenza del prossimo. Ognuno ha la sua e sa quanto la sente. Io, poi, forse sono stato anche meglio e più fortunato di altri (se non altro, ad esempio, con il bastone cammino) e sollevo il tema, davvero, anche per loro. Ma se dentro di me sento il terrore del lockdown, di ritrovarmi lontano da lei, di poter magari di nuovo restare a terapie ridotte od interrotte (malgrado lo ribadisco non mi permetta nemmeno per un istante di contestare la scelta fatta allora dai medici, che reputo comprensibile e saggia malgrado i disagi), devo davvero sentirmi stupido o colpevole o meschino?

Dobbiamo vivere con prudenza, responsabilità e vigile attenzione ma anche con speranza, serenità e libertà. Noi immunodepressi, poi, spesso veniamo indicati come più fragili da mettere sotto attenzione. Si, forse lo siamo ma proprio per questo abbiamo una cultura, una forma mentis, dell’autoprotezione di gran lunga più datata e consolidata. Ma non possiamo noi disabili, e intendo chiunque viva la disabilità per una ragione od un’altra, morire di crepacuore per non morire di Covid. E, aggiungo, nessun lavoratore, nessun piccolo o grande imprenditore, dovrebbe sprofondare nella disperazione. Il mio cuore è anche per le partite iva e chi ha subito danni diversi.

Queste mie parole non vogliono essere uno sterile lamentarsi ma solo uno sprone alle autorità, alle istituzioni, a consolidare questa “navigazione tra i due scogli”. Vele spiegate e partiamo, la vita continua, le tempeste ci saranno e le affronteremo con fede e coraggio. Perché non possiamo restare in porto per paura del mare.


Qual è stato l’impatto del Covid-19 sul diritto alla salute delle persone con disabilità?
L’OMS definisce la disabilità come “qualsiasi condizione del corpo o della mente che renda più difficile per la persona che ne è affetta svolgere determinate attività e interagire con il mondo che la circonda” (Organizzazione Mondiale della Sanità 2020a, b). Anche prima della pandemia COVID-19, le persone con disabilità manifestavano maggiori difficoltà nell’accesso all’assistenza sanitaria, nello svolgimento delle attività quotidiane e nel mantenimento del benessere finanziario (Kweon 2020; Lenze et al.2001) e le misure di mitigazione attualmente in atto in tutto il mondo rischiano di esacerbare molte sfide psicologiche, finanziarie e quotidiane (Gershman 2020). E’ dunque semplice immaginare la forza dell’impatto della pandemia sulle persone che quotidianamente vivono con una disabilità; basti pensare, ad esempio, alle persone con disabilità visive che, oltre a essere maggiormente suscettibili al virus, soffrono particolarmente delle misure restrittive e di controllo raccomandate dal governo, inclusa l’adozione di nuovi cambiamenti comportamentali (ad esempio, distanza sociale, limitazione del contatto tattile), oppure alle persone affette dal morbo di Parkinson, che vedono peggiorare i loro sintomi quando sono confinati in ambienti chiusi (Senjam et al. 2020; Kumar et al. 2020).

Il documento redatto dall’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’ONU il 29/04/2020, “COVID-19 and the rights of persons with disabilities: guidance”, ha sottolineato che le persone con disabilità sono state colpite in modo particolare dall’emergenza sanitaria e dal lockdown, a causa di barriere attitudinali, ambientali e istituzionali, che hanno reso particolarmente difficile l’accesso alle cure e ai siti ospedalieri.

Il documento sottolinea come:

– molte persone con disabilità hanno condizioni di salute preesistenti che li rendono più suscettibili a contrarre il virus ed a sperimentare sintomi più gravi dopo l’infezione;

– i disabili hanno sperimentato un grave isolamento al proprio domicilio legato alle restrizioni imposte o, se ricoverate in istituti, sono state più vulnerabili, come dimostra l’alto numero di morti nelle case di cura residenziali e nelle strutture psichiatriche;

– si sono intensificate le barriere nell’accesso ai servizi sanitari e alle informazioni, nonché le barriere nell’accesso al sostegno, al sostentamento e al reddito, alla partecipazione a forme di istruzione online e alla ricerca di protezione dalla violenza.

Recenti pubblicazioni scientifiche hanno fornito ampie raccomandazioni per limitare l’impatto della pandemia sulle persone con disabilità (Senjam 2020; Kessler Foundation 2020; National Association of the Deaf 2020), ma ci sono ancora pochi strumenti disponibili per valutare l’impatto su tale gruppo di popolazione. Di conseguenza, alcuni autori hanno puntato a sviluppare un nuovo strumento di indagine, il Coronavirus Disability Survey (COV-DIS), allo scopo di valutare l’impatto della pandemia COVID-19 e delle relative misure di mitigazione delle malattie su questo gruppo di persone.

L’indagine include elementi per valutare la salute generale e psicologica, le attività della vita quotidiana, l’isolamento sociale, la tensione finanziaria e l’accesso alle informazioni e ai trasporti. Si chiede agli intervistati di confrontare le esperienze attuali con le loro esperienze prima di diventare consapevoli della pandemia. Tale strumento è attualmente in uso in alcuni Stati d’America.
Atteso quanto sopra, è stato proposto di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’impatto della pandemia sulle persone con disabilità e sui loro diritti e di attirare l’attenzione su alcune pratiche promettenti già intraprese in tutto il mondo.

Quali sono alcune pratiche promettenti?
Il Comitato Bioetico della Repubblica di San Marino ha prodotto linee guida COVID-19 sul triage, che vieta la discriminazione sulla base della disabilità: “L’unico parametro di scelta, quindi, è la corretta applicazione del triage, rispettando ogni vita umana, sulla base dei criteri di appropriatezza clinica e proporzionalità dei trattamenti. Qualsiasi altro criterio di selezione, come l’età, il sesso, l’affiliazione sociale o etnica, la disabilità, è eticamente inaccettabile, in quanto implementerebbe una classifica delle vite solo apparentemente più o meno degne di essere vissute, costituendo una violazione inaccettabile dei diritti umani.”

L’Ufficio per i diritti civili presso il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti ha emesso un bollettino per garantire che le autorità proibiscano la discriminazione sulla base della disabilità, affermando che “alle persone con disabilità non dovrebbe essere negata l’assistenza medica sulla base di stereotipi, valutazioni della qualità della vita o giudizi sul relativo “valore” di una persona in base alla presenza o assenza di disabilità o di età“.

Nelle Filippine, la Commissione per i diritti dell’uomo ha pubblicato informazioni a sostegno delle agenzie sanitarie che personalizzano i messaggi pubblici per i gruppi vulnerabili delle comunità, compresi i bambini e le persone con disabilità.

In Canada, è stato istituito il “COVID-19 Disability Advisory Group” (gruppo consultivo per la disabilità COVID-19) con la partecipazione delle persone con disabilità e delle loro organizzazioni rappresentative, per consigliare il governo su questioni specifiche per la disabilità, su sfide, lacune, strategie e misure da adottare.

L’ONU auspica che tra le azioni da intraprendere ci siano:

• Proibire azioni che possano discriminare l’accesso a trattamenti medici sulla base della disabilità, sul livello delle esigenze di sostegno, sulle valutazioni della qualità della vita o su qualsiasi altra forma di pregiudizio medico nei confronti delle persone con disabilità, anche per quanto concerne l’assegnazione di risorse scarse (come i ventilatori o l’accesso alle terapie intensive);

• Garantire in maniera prioritaria test a persone con disabilità che presentino i sintomi del COVID

• Identificare e rimuovere gli ostacoli al trattamento, comprese le barriere architettoniche e garantire la diffusione di informazioni sanitarie e comunicazioni in modalità, mezzi e formati accessibili.
Promuovere la ricerca sull’impatto del COVID-19 sulla salute delle persone con disabilità.

•Garantire la fornitura e l’accesso ai farmaci per le persone con disabilità.
Sensibilizzare gli operatori sanitari per prevenire la discriminazione basata su pregiudizi e pregiudizi nei confronti delle persone con disabilità.

Fondamentale, in questa fase, è anche sensibilizzare ugualmente la politica perché, nel prendere provvedimenti e decisioni talvolta difficili, essa tenga in considerazione anche queste problematiche.

Ha piacevolmente sorpreso, nelle dichiarazioni del presidente del consiglio Giuseppe Conte di domenica 18 ottobre, il riferimento alle famiglie con persone disabili. L’auspicio è che queste parole, inedite ed inattese, siano rivelatrici di una ritrovata attenzione al tema. A queste si spera che subentrino azioni concrete a conferma di questa speranza.

Bibliografia
Bernard et al., Assessing the impact of COVID-19 on persons with disabilities: development of a novel survey. Int J Public Health. 2020 Jul 23 : 1–3.

Gershman J (2020) A Guide to State Coronavirus Reopenings and Lockdowns. The Wall Street Journal, Dow Jones & Company www.wsj.com/articles/a-state-by-state-guide-to-coronavirus-lockdowns-11584749351.
Kessler Foundation (2020)

COVID-19 and spinal cord injury: minimizing risks for complications. https://kesslerfoundation.org/info/covid-19-and-spinal-cord-injury-minimizing-risks-complications. Accessed 30 June 2020

Kumar et al. Impact of home confinement during COVID-19 pandemic on Parkinson’s disease, Parkinsonism and Related Disorders 80 (2020) 32–34

Kweon S (2020) Pandemics hit people with disabilities hard. https://www.iapb.org/news/pandemics-hit-people-with-disabilities-hard/. Accessed 30 June 2020

Lenze EJ, Rogers JC, Martire LM, Mulsant BH, Rollman BL, Dew MA, Reynolds CF., III The association of late-life depression and anxiety with physical disability: a review of the literature and prospectus for future research. Am J Geriatr Psychiatry. 2001;9(2):113–135. doi: 10.1097/00019442-200105000-00004.

National Association of the Deaf (2020) COVID-19: deaf and hard of hearing communication access recommendations for the hospital. https://www.nad.org/covid19-communication-access-recs-for-hospital/. Accessed 30 June 2020

Senjam SS. Impact of COVID-19 pandemic on people living with visual disability. Indian J Ophthalmol. 2020;68(7):1367. doi: 10.4103/ijo.IJO_1513_20
United Nation Human Rights “COVID-19 and the rights of persons with disabilities: guidance”. 29 April 2020

World Health Organization (2001) International classification of functioning, disability and health: ICF. https://apps.who.int/iris/handle/10665/42407. Accessed 30 June 2020

(tratto dalla pagina Facebook “Pillole di Ottimismo)

Ma il mondo è “un paese per persone con disabilità”?

Verrebbe semplicemente da dire che il mondo “non è un paese per persone con disabilità”, leggendo l’importante rapporto elaborato da sette organizzazioni impegnate a livello mondiale sui diritti delle stesse persone con disabilità (l’elenco è nel box in calce), pubblicato qualche giorno fa con il titolo Disability rights during the pandemic (“I diritti delle persone con disabilità durante la pandemia”), disponibile integralmente a questo link.
Basato infatti su oltre tremila testimonianze provenienti da ben 134 Paesi di tutto il mondo, riferite per la stragrande maggioranza a persone con disabilità o ai loro familiari, il documento evidenzia in modo netto quella che viene letteralmente definita come «una catastrofica incapacità di proteggere la vita, la salute e i diritti delle persone con disabilità durante la pandemia da Covid-19» da parte della generalità degli Stati, indipendentemente dal loro sviluppo economico e sociale. E alla luce di quanto sta accadendo in queste settimane, con i tassi di contagio che aumentano ovunque, non si può certo leggere il rapporto come una semplice “ricognizione storica” di quanto già accaduto, bensì come uno strumento di pressione a intervenire rapidamente, considerando che le persone con disabilità sono nuovamente sottoposte a restrizioni che hanno già portato a gravi conseguenze. In tal senso, le organizzazioni promotrici dell’iniziativa chiedono con forza di «catalizzare un’azione urgente nelle settimane e nei mesi a venire», pur non essendo di conforto il fatto che al sondaggio sottostante al rapporto assai pochi Governi o Istituzioni di monitoraggio abbiano voluto rispondere.
Si tratta in ogni caso di un documento che, se esaminato con attenzione dai responsabili politici, sanitari e sociali, oltreché dalle forze dell’ordine e dalla stessa società civile dei vari Stati, consentirebbe di garantire che le persone con disabilità non siano più sacrificate nell’àmbito dei provvedimenti necessari a contenere la pandemia.
Sono sostanzialmente quattro le questioni principali evidenziate dall’indagine, che vengono elencate così in una nota diffusa dall’IDA (International Disability Alliance): «La totale incapacità di proteggere la vita delle persone con disabilità negli istituti residenziali, che sono diventati “punti caldi” durante la pandemia. Infatti, anziché dare priorità a misure di emergenza per reintegrare le persone nella loro comunità, molti istituti sono stati chiusi e bloccati, con conseguenze fatali».
I provvedimenti di lockdown diffusi e rigidi hanno causato quindi «drammatiche interruzioni dei servizi essenziali nella comunità, facendo sì che tantissime persone con disabilità non potessero accedere a beni di base, incluso il cibo, e a supporti come l’assistenza personale». Secondo il rapporto, «la rigorosa applicazione di questi blocchi da parte delle forze dell’ordine è arrivata addirittura a provocare risultati tragici, inclusa la morte di persone con disabilità».
E ancora, su altri fronti, ai bambini/e e ai ragazzi/e con disabilità è stato negato, per la grande maggioranza, «l’accesso all’istruzione in linea», mentre le persone con disabilità senza dimora «sono state arrestate o lasciate completamente a se stesse».
E da ultima, ma non certo ultima, «la tendenza a negare l’assistenza sanitaria di base e di emergenza, con tanto di procedure di triage discriminatorie, negando alle persone con disabilità l’accesso alle cure per Covid-19, proprio a causa della loro disabilità». 

Il rapporto Disability rights during the pandemic (che ricordiamo ancora, è disponibile a questo link) è stato elaborato da: The Validity Foundation (Mental Disability Advocacy Centre); ENIL (The European Network on Independent Living); IDA (The International Disability Alliance); DRI (Disability Rights International); The Disability Rights Unit at the Centre for Human Rights, University of Pretoria; IDDC (The International Disability and Development Consortium) (IDDC); DRF (The Disability Rights Fund), con l’organizzazione “sorella” DRAF (The Disability Rights Advocacy Fund).

(superando.it)