Sesso e disabilità: come abbattere un tabù al quadrato

Troppo spesso le persone diversamente abili vengono automaticamente considerate «asessuate» e addirittura prive di normali pulsioni sessuali. Con il suo approccio trascinante e innovativo, la sessuologa Anna Castagna è diventata a questo riguardo una figura di spicco nel campo della divulgazione sex positive. L’abbiamo intervistata per capire il problema culturale ma, soprattutto, per diffondere soluzioni

Oggi in Italia il 5,2% della popolazione vive una qualche forma di disabilità. Si tratta di oltre tre milioni di persone che oltre alla loro condizione patiscono numerose difficoltà aggiuntive e ingiustificate. Dalle barriere architettoniche alla sottorappresentazione politica e mediatica, dalle discriminazioni sociali a quelle sessuali. Molto spesso una persona diversamente abile viene infatti automaticamente considerata «asessuata». A colpirla non è infatti solo il pregiudizio che gli unici partner desiderabili siano quelli che assomigliano ai protagonisti delle pubblicità; il nostro condizionamento culturale ci convince che non abbiano nemmeno pulsioni erotiche, desideri o fantasie sessuali che fanno invece parte della vita di qualsiasi essere umano.

Se a questo punto pensate però di sapere già tutto sull’argomento, a farvi cambiare idea sarà Anna Castagna. Sessuologa, modella fetish, una laurea in Scienze dell’Educazione, un’altra in Scienze e Tecniche Psicologiche e – come dice lei – «ah già: sono anche disabile». Il suo approccio trascinante e innovativo l’ha resa una figura di spicco nel campo della divulgazione sex positive. Invita a considerare il sesso un’avventura entusiasmante anziché un fardello da gestire nonostante tutto. Anziché concentrarci solo sul problema, l’abbiamo intervistata per parlare di soluzioni, che spesso sono più semplici di quel che si potrebbe immaginare.

La prima domanda è inevitabile: quanto è ancora tabù la sessualità delle persone disabili in Italia? C’è qualche differenza sostanziale dal resto d’Europa o del mondo?

«Pensiamo a quanto sia ancora un tabù la sessualità in generale in Italia e immaginiamoci quanto possa esserlo se intrecciata a un tema come quello della disabilità! Io direi: “tanto”. Legato a tutto ciò che vortica intorno al tema della sessualità c’è un grossissimo tabù tanto quanto verso il mondo della disabilità. Unire i due temi crea un vero e proprio “tabù al quadrato”, che per essere superato richiede un lavoro di “decostruzione al quadrato”. Escludendo quelle nazioni in cui il sesso rimane un argomento ancora tutto da sdoganare, l’Italia è ancora molto indietro rispetto, per esempio, a molti stati del nord Europa che si sono mossi e hanno attivato progetti per garantire a tutti il diritto alla sessualità».

La seconda è altrettanto obbligatoria: perché? Da cosa dipende questa situazione?

«Quando parlo di “tabù al quadrato” intendo che la disabilità viene considerata spesso e volentieri solo come condizione patologica, ossia una malattia che eclissa totalmente l’identità dell’individuo. Si tende a vedere la sedia a rotelle, la difficoltà cognitiva, la difficoltà motoria e non Luca, Sara e Andrea con le loro identità e le loro storie. La disabilità è tutt’altro: è una condizione che fa sicuramente parte della vita della persona ma non è la persona stessa – e ancor meno possiamo considerare la persona una patologia. Superato questo primo equivoco sul tema della disabilità, dobbiamo adottare una prospettiva bio-psico-sociale cominciando a osservare la persona come tale, con la sua storia, la sua identità e i suoi diritti.In questo modo possiamo imparare a decostruire e rompere tutti gli stereotipi legati al mondo della disabilità, fra cui: «al disabile non interessa il sesso», «le persone con disabilità mentale sono bambini privi di impulsi», «il disabile non è una persona in grado di svolgere attività sessuale»…

Si tratta di iniziare a pensare come alcune difficoltà possano incontrarsi con le esigenze e i desideri dell’individuo. Così come esistono stereotipi sul mondo della disabilità, ne esistono anche sul mondo della sessualità. Anch’essa andrebbe quindi colta in tutte le sue sfumature bio-psico-sociali, così da sganciarla da una visione puramente riproduttiva, penetrativa e genitale. Tutto questo preambolo era necessario per poter comprendere perché la mia risposta alla domanda sul perché è che questa situazione dipende da un errore di sguardo. Prima riusciremo a decostruire il concetto di disabilità e di sessualità che abbiamo in testa, e prima potremo offrire a tutti il diritto alla sessualità».

Anna Castagna
Ma proprio non esiste alcuna iniziativa istituzionale per sdoganare l’argomento?

«Per fortuna qualcosa c’è, come l’associazione Lovegiver che oltre a difendere il diritto alla sessualità per le persone disabili sta cercando di rendere legale anche in Italia la figura dell’assistente sessuale. Si tratta di una figura professionale molto equivocata, ma l’assistenza sessuale è un percorso che permette alla persona diversamente abile di vivere e sperimentare il proprio corpo, entrando in contatto con la propria vita intima, i propri limiti e il proprio orizzonte affettivo ed erotico in modo dignitoso e consapevole».

E dire che basta davvero poco per eliminare i pregiudizi… Mi viene in mente un suo workshop di un paio d’anni fa, basato su un semplice gioco. Le va di raccontarlo?

«Ma certo! Questo esercizio riguarda in particolare la disabilità fisica. Quando parlo di questo tema amo molto far parlare l’esperienza diretta sul proprio corpo, che credo sia il miglior modo di decostruire tutti i muri e le paure che ci portiamo dentro. In pratica chiedo ai partecipanti di pescare casualmente un biglietto su cui è indicato un limite fisico. Poi faccio loro ricreare quel limite – per esempio immobilizzando una parte del corpo o bendando gli occhi – e creo coppie di “disabili” alle quali chiedo di vivere un’esperienza sensoriale. L’obiettivo è sperimentare il limite e le possibilità del nuovo corpo, ma allo stesso tempo di ascoltare le paure e le emozioni che nascono.

Oltre a permettere loro di provare il concetto di limite, la cosa più importate è che possano sperimentare quello di possibilità, scontrandosi con paure, dubbi e perplessità. Infatti è proprio partendo da queste che si riconoscono i tabù, ed è proprio partendo dai dubbi che i tabù si possono sradicare. La sessualità non è un pacchetto consegnatoci come un abito prêt-à-porter. Si tratta più di un abito di sartoria che va cucito su misura dell’individuo, e ogni individuo può cucire il proprio».

Torniamo a parlare di sesso, escludendo il capitolo delle disabilità cognitive che inficiano il concetto di ‘consenso’ alla base di ogni sessualità sana. L’incontro con corpi fuori dagli standard, o con esigenze particolari, può essere oggettivamente difficile perché non si sa come gestirli – anche solo nel chiedere indicazioni al riguardo. Cosa suggerisce di fare per superare questo ostacolo?

«Ritengo che questa considerazione possa essere estesa a ciascuno di noi. Siamo tutti diversi, e come dicevamo prima la sessualità è un abito cucito su misura – quindi la sacrosanta risposta a questa domanda è: serve dialogo. Ascoltare l’altro ci aiuta a capire le sue reali esigenze o difficoltà senza proiettare ciò che noi “crediamo rispetto alla sua situazione”. Dialogo e ascolto sono alla base di ogni rapporto sano ed equilibrato».

L’altro lato della questione è rappresentato dalla “fame di affetto” di alcune persone disabili. Pur di essere considerate anche per il loro lato sessuale rischiano brutte ricadute emotive per avere abbassato troppo i loro criteri di consenso. Cosa pensa di questo fenomeno?

«Anche questo fenomeno deriva da un concetto di stereotipo interiorizzato che colpisce in egual modo persone “normodotate” e persone diversamente abili. La risposta a tutto questo è una formazione al sesso e all’affettività che comprenda tutti, e che insegni a considerare la sessualità e la vita di ogni individuo nella sua unicità e complessità. Il primo passo verso un futuro di uguaglianza e pari diritti consiste nel farsi domande come queste e decostruire gli stereotipi. Tutti».

(vanityfaire.it)

Unioni civili e disabilità: discriminazione vs discriminazione?

di Carlo Giacobini

Come già accaduto in passato, anche in queste settimane il dibattito in corso sulle unioni civili sta completamente rimuovendo l’ipotesi che uno dei partner sia una persona con disabilità, con ciò che ne deriva in termini di potenziale accesso a benefìci, sostegni, supporti

Le prossime settimane si preannunciano pervasive su ciò che finirà per sembrare un tormentone: quello delleunioni civili. Come spesso accade, l’iperbole di una questione cresce, sale, diviene congestizia, appare come unica questione nazionale, genera confronti da stadio e diverbi da osteria, pur su situazioni estremamente delicate e sensibili, giunge addirittura ad essere l’indicatore della civiltà di un Paese.
Scontri trasversali e viscerali che possono sfaldare maggioranze o mettere in crisi i Governi. Ricordiamo – in un Paese dalla scarsa memoria – che l’analogo dibattito sui DICO (acronimo per “DIritti e doveri delle persone stabilmente COnviventi”) fu uno dei motivi della caduta del già traballante Governo Prodi nel 2008.
Sembra che questa volta il Governo faccia “sul serio” e intenda seguire il trend di altri Paesi dell’Unione, regolamentando finalmente le «unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze». Il virgolettato non è un vezzo, ma riprende testualmente il titolo dell’unico Disegno di Legge al momento depositato al Senato: il DDL 2081 attualmente all’esame della Commissione Giustizia di Palazzo Madama a firma Monica Cirinnà e altri, e ampiamente sparpagliato sulla carta stampata, nei talk show, nei social (dove analfabeti di ritorno per qualche giorno assurgono a dotti civilisti).

Lungi da chi scrive esprimere in questa sede una qualsiasi espressione di favore o dubbio riguardo agli intenti dei proponenti o di orientamento a favore delle unioni civili fra persone dello stesso sesso.
Il Disegno di Legge 20181 consta di 23 articoli tutti (a parte l’ultimo) molto densi sotto il profilo tecnico e civilistico. Il tutto – se approvato – impatterebbe non solo nelle unioni civili fra «persone dello stesso sesso», ma anche più in generale sulle convivenze stabili.
Nella sostanza, si equiparerebbero anche alle unioni civili fra persone dello stesso sesso e alle coppie unite da “contratto di convivenza” (quasi) tutti i diritti e i doveri previsti nei casi di coniugio “convenzionale”.
Questo, come detto, investe àmbiti civilistici estremamente delicati, come i diritti successori nel caso di decesso di uno dei partner, o i diritti per l’inserimento nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare, ma anche doveri come quelli della reciproca assistenza o dell’obbligo di mantenimento o alimentare. Il partner – riconosciuto in un’unione civile – ha il diritto di agire nella domanda di interdizione, di inabilitazione o di amministrazione di sostegno, come pure avrebbe diritto a rapportarsi a pieno titolo con i sanitari che assistano il partner o con la struttura carceraria in cui questi sia detenuto.

Il tutto è assai interessante, ma anche in questo caso – come era accaduto nel 2008 con i DICO poi abortiti – il Legislatore sta completamente rimuovendo l’ipotesiche uno dei partner sia una persona con disabilità, con ciò che ne deriva in termini di potenziale accesso a benefìci, sostegni, supporti.
In nessun passaggio, ad esempio, il Disegno di Legge Cirinnà menziona il diritto per il partner (stesso sesso o meno, poco ci importa) ad accedere a permessi, congedi o forme di flessibilità lavorativa o diritti di scelta della sede di lavoro, o rifiuto al lavoro notturno, nel caso in cui si assista una persona con disabilità.
Ma tale rimozione è ancora più evidente nel collaterale dibattito sulla cosiddetta stepchild adoption(digressione: è assai bizzarro che nella culla del diritto si adottino lemmi anglofoni forse solo per rimuovere ipocritamente tensioni idealistiche). Dietro questa formula c’è una disposizione già vigente da ben trentadue anni. È infatti del 1983 la Legge 184, che ammette l’adozione del figlio del (nuovo) coniuge. L’adozione viene però vagliata dal Tribunale, viene richiesto il consenso del genitore biologico, viene soppesato l’effettivo interesse per il figlio, che deve sottoscrivere il consenso (se maggiore di 14 anni) o esprimere la sua opinione (se di età tra i 12 e i 14). A questo si aggiunge la consueta – e spesso pesante – valutazione del Tribunale sulla capacità educativa, sull’idoneità affettiva, sullo status personale ed economico e, non ultimo, sullo stato di salute di chi richiede l’adozione. Insomma, è tutt’altro che un’amabile passeggiata.
Il Disegno di Legge Cirinnà intenderebbe estendere tale opportunità anche alle coppie formate da persone dello stesso sesso. E questo è uno dei motivi di maggiore scontro in queste ore, divergenze sulle quali non entreremo in queste colonne.

E tuttavia questo non ci esime da un’amara constatazione di fatto, che è la risultante della raccolta pluriennale di storie di vita che molti nostri Lettori potrebbero riportare: le enormi, spesso insormontabili, difficoltà per le persone con disabilità o per coppie con un partner con disabilità, magari nemmeno ingravescente, nell’ottenere affidi e, vieppiù, adozioni. Quel concetto di “salute” che molti Tribunali valutano è troppo spesso confuso con la disabilità ed è pregiudizio che diviene motivo di reale discriminazione. Era forse questa discussione l’occasione per alcune puntualizzazioni? Forse sì.
La stessa discriminazione che fino ad oggi colpisce gli omosessuali la subiscono da decenni, con altre declinazioni, anche le persone con disabilità. Ma per queste ultime non sembra profilarsi soluzione alcuna. Anzi, il tema non sembra essere nelle agende politiche né all’orizzonte.
(Superando.it)

Assistenza e Discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia

Alla luce delle recenti sentenze del TAR del Piemonte e del Tribunale di Ascoli Piceno vi sottopongo una analisi, anche ampia, comprendente anche lo strumento del nuovo ISEE, descrivente le novità, i limiti e le perplessità riguardo l’assistenza alle persone con disabilità e sull’assistenza diretta e indiretta. Il tutto sotto la vigente Convenzione ONU sulla disabilità.
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di Eleonora Campus

Per la prima volta in Italia una  sentenza del Tribunale Civile di Ascoli Piceno (cfr. qui: Sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013), ha reso effettiva la legge 67/06 – che tutela le persone con disabilità dalle discriminazioni – nel settore sociale. La Corte ha  riconosciuto la presenza di una discriminazione ogni volta che alla persona non vengano erogati dei “servizi sociali” “adeguati” e cioè,  rispondenti  alle sue specifiche  esigenze. Nello specifico, si tratta delle prestazioni destinate all’assistenza alla persona.

Il caso è quello di una donna con disabilità grave,  alla quale è stato negato dal Comune di Ascoli Piceno – per 8 lunghi anni – il diritto all’assistenza indiretta.  La donna ha perciò agito per vie legali contro il Comune, che si è difeso con varie  motivazioni. Di conseguenza il Tribunale ha valutato le ragioni di entrambe le parti e partendo dalla Convenzione ONU sulle persone con disabilità  (ratificata in Italia con legge 18 del 2009) – facendo particolare riferimento  al concetto di “accomodamento ragionevole” (artt. 2 e 5),  ha riconosciuto la discriminazione  e  condannato il Comune a risarcire con 20.000 euro la donna ai sensi della legge nazionale 67/06 (artt. 2 e 3).   

Indubbiamente la sentenza è importante perché, guardando oltre al caso particolare,  ha messo in luce che la legge italiana antidiscriminazione ha molti ambiti di applicazione. Inoltre,  ha  aperto la strada a futuri ricorsi sulla base di questo precedente  che ci parla di “diritti umani” resi effettivi dalla giustizia laddove il decisore pubblico li calpesta. Ma le sentenze vanno lette in maniera minuziosa, per individuare oltre ai punti di forza anche quelli di debolezza. La non discriminazione è fatta di passi avanti ma occorre essere sempre vigili per evitare che i singoli casi diventino eccezioni  o che si torni indietro.  Ecco dunque l’analisi – dal mio punto di vista – della decisione del Tribunale.

ANALISI DEI PUNTI DELL’AZIONE LEGALE ACCOLTI DAL TRIBUNALE CIVILE

1.1 Primo argomento del Comune: la negazione dell’assistenza indiretta sulla base della Delibera Comunale n. 63 del 19 marzo 2004.

L’Ente Comunale  si è difeso motivando che  ha negato l’assistenza –  a seguito e sulla  base della Delibera Comunale n. 63 del 19 marzo 2004 (cfr. qui) – perché l’avrebbe garantita un familiare, il marito della donna,  assistendola  lui stesso. La Delibera infatti riconosce l’assistenza “solo se svolta da estranei” vale a dire, da persone non appartenenti al nucleo familiare.

1.1.1  Il   Tribunale: l’applicazione cieca della Delibera Comunale n. 63 del 19 marzo 2004

Secondo il Tribunale,  la donna “per la particolare condizione legata alla sua disabilità, fortemente limitante”, ha bisogno indiscutibilmente  di assistenza domiciliare indiretta.  Per la Corte,  la Deliberazione di Giunta n. 63 del 19.03.2004 definisce che il contributo economico per assistenza domiciliare indiretta, offerto dal Comune anche alla donna,  ha come punto dolente  lo scopo  di garantire un sostegno economico ai soggetti che vivono  da soli o con familiari conviventi non in grado di occuparsi di loro  per motivi di salute certificabili o impegni di lavoro. Si tratta dunque di un vincolo di pagare un familiare non convivente o un operatore esterno di fiducia “scelto” dalla stessa persona con disabilità, per “garantire una migliore qualità della vita e la permanenza all’interno dell’abitazione”. Inoltre, specifica la Corte, il contributo è ammesso per persone laddove “malgrado la percezione di redditi da parte dei  familiari – con impegni di lavoro – renda più agevole, nell’ambito del loro dovere di provvedere al mantenimento ed alla cura del soggetto con disabilità convivente, il pagamento del personale destinato all’assistenza della persona, questo contributo economico è stato negato ad un nucleo indigente con il marito disposto ad assistere la moglie”  (cfr. qui: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013).

Per noi che leggiamo, una scelta libera è tale in assoluto. Non si può parlare di scelta se questa viene condizionata da un vincolo. La qualità della propria vita si sceglie da se. In Italia oltretutto ci sono anche delle leggi ai sensi delle quali i familiari possono essere assunti come dipendenti nel caso vi siano in famiglia disabili gravi. In questa situazione – secondo la Corte –  il Comune si è basato in maniera cieca sulla Delibera 63 del 2004, dato la donna aveva scelto come operatore di fiducia convivente il marito ma  la presenza fisica di questi in casa gli ha comportato la negazione dell’assistenza. Ne consegue “che il marito poteva occuparsi della moglie ma senza disporre di mezzi per far fronte alle sue esigenze in quanto costretto a lasciare il lavoro per assisterla e unico familiare “abile” al lavoro”. Ciò vuol dire  che “la Delibera non tiene conto tra i beneficiari le persone che abbiano il supporto di un familiare convivente presupponendo che questi abbia il “dovere morale” di dare assistenza nella gestione della vita del soggetto con disabilità “in situazione di particolare gravità” (cfr. qui: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013).  La Corte ha perciò  guardato al caso specifico,   tenendo  conto anche delle personali difficoltà economiche della donna e della sua impossibilità  sia di produrre reddito da se  da destinare alla propria assistenza, sia di produrlo da parte del suo nucleo familiare  definito “al limite dell’indigenza”. Motivo per il  quale poi  il Comune, a questo nucleo,  negli anni ha destinato altre risorse economiche per far fronte alle “elementari esigenze di vita”. Il Tribunale evidenzia  che ad una situazione ancor più bisognosa di tutela non si è data una risposta adeguata non adottando dei “ragionevoli accomodamenti” che potevano essere presi in considerazione data la ratifica della Convenzione ONU, consentendo che il contributo fosse dato al marito disoccupato per consentire alla donna di vivere dignitosamente. Attraverso un atto apparentemente neutro (discriminazione indiretta) si è messa una persona con disabilità in posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.

1.1.1.1 Osservazioni: gli elementi positivi nella risposta del Tribunale

Il Tribunale evidenzia l’ingiustizia della Delibera 63 del 2004, applicata in maniera cieca e senza tener conto dell’impatto che poteva avere nella vita quotidiana della donna  rispetto alle sue specifiche esigenze. Non solo: il Tribunale sottolinea che di fronte a situazioni bisognose di servizi essenziali, il Comune “scarica” addosso ai familiari conviventi ogni tipo di onere materiale sulla base del  “dovere morale” di dare assistenza alla persona con disabilità. Una mentalità dell’abbandono,  che da sempre esiste ed è dura a morire. Una moralità spesso richiamata perché a costo zero – non fornendo i mezzi per affrontare la situazione –  la Pubblica Amministrazione  si solleva dal suo dovere  e , oltretutto, non riconoscendo  il lavoro di cura del familiare convivente –  dunque presente 24 ore per ogni esigenza – con pari dignità degli altri lavoratori. Quel “dovere morale” il familiare convivente lo svolge  ampiamente per tutto l’arco della sua vita, ogni santo giorno, e per tutto  l’arco della giornata . Perché le persone con disabilità non hanno esigenze scandite da orari fissi e ridotti: la condizione della disabilità coinvolge continuamente se stesse e chi gli sta intorno. Anche compensare una parte del lavoro continuo di assistenza, è un diritto sacrosanto e non solo un dovere morale.

1.1.1.2  Osservazioni: potenziali criticità nella risposta del Tribunale

C’è però un aspetto potenzialmente critico da sottolineare nella risposta del Tribunale. Si premette  che è chiaro  che quello sotto giudizio è un caso specifico,  e dunque la Corte ha dovuto tener conto delle difficoltà della donna a produrre reddito sia da parte sua  che da parte del suo nucleo familiare definito “al limite dell’indigenza” tanto da sopravvivere con altri sussidi dati dal  Comune.  Ma è altrettanto evidente  che nell’accogliere la richiesta di supporto, la Corte ha sottolineato l’impossibilità di tutto il nucleo in questione,  a “produrre reddito da destinare all’assistenza” definendo la situazione ancor più bisognosa rispetto ad altri nuclei con persone con disabilità ai cui familiari lavoratori,  effettivamente,  la delibera Comunale 63 del 2004 concede l’erogazione economica.  Una considerazione simile ha un grande errore di fondo e contiene  un messaggio che non deve  passare, proprio  partendo da questo caso che per la prima volta accerta la discriminazione nel settore sociale. Infatti, il rischio  è che questa situazione  specifica  possa diventare un “modello antidiscriminatorio” esteso a tutti, che collega il diritto all’assistenza indiretta all’incapacità lavorativa della persona con disabilità e alla povertà assoluta del suo nucleo familiare. Mettere le persone con disabilità o affini nella condizione di scegliere se lavorare, con la consapevolezza  di non avere alcun supporto secondo certe politiche, o poggiarsi esclusivamente sul welfare, sapendo di avere solo a quel punto un sostegno essenziale, è sia   immorale che discriminatorio. La discriminazione sta  rispetto ai nuclei composti esclusivamente da persone non disabili perciò,   il paragone il giudice lo avrebbe dovuto fare  in relazione a questi nuclei.  Il motivo è  che  la   produzione di reddito da lavoro – nei nuclei familiari con persone con disabilità come in qualunque altro – serve ad affrontare le esigenze di vita quotidiana legate al sostentamento.  E tutte le persone  con disabilità gravi o con in situazioni di particolare gravità  devono essere aiutate nelle esigenze di vita essenziali (alzarsi, lavarsi, vestirsi, mangiare, uscire) che comportano costi economici (ma anche fisici e morali) che portano spese maggiori rispetto alle persone non disabili che non hanno le stesse necessità.  

Un reddito da lavoro non può sopportare i costi dell’assistenza che è un diritto “essenziale “ che vale sia per le persone con disabilità  in povertà assoluta,  sia per quelle non indigenti ma che paradossalmente potrebbero diventarlo a loro volta. Tanto è vero che, laddove di fatto si ostacolano determinate fasce della popolazione  ad una partecipazione attiva ed effettiva al tessuto lavorativo della società, bloccando l’accesso alle prestazioni e facendo ricadere ogni onere sulle entrate da lavoro e quindi destinate al  sostentamento, ci si può trovare a non farcela più materialmente, moralmente e fisicamente ed ad essere costretti a diventare solo consumatori diwelfare.  Quindi anche in questi casi il rischio di emarginazione ed esclusione sociale è elevato.

A questo punto potrebbe saltar fuori il solito discorso puerile “e allora i ricchi…?”: anche in presenza di reddito da lavoro più elevato, la persona che lo percepisce e lo dichiara regolarmente,  paga (o ha pagato se  è andata in pensione alla fine del percorso lavorativo) tasse in proporzione per garantire le  risorse per se e per  tutti gli aventi diritto. Perciò di fronte a bisogni di vita essenziali, ha il diritto di godere delle  prestazioni a sua volta. Anche perché additare i redditi da lavoro da nababbi, e  non se ne vedono molti, in genere è uno spot propagandistico usato dal decisore pubblico  per tagliare  in maniera estesa ed aggressiva  applicando soglie minime  di accesso rasenti l’indigenza.  Tutti questi aspetti sono ancora   più evidenti se chi produce reddito da lavoro è la persona disabile stessa. Oltre al dispendio economico evidenziato ed anche   di energie giornaliere suo e di chi gli sta intorno  molto spesso,  infatti, non essendoci mezzi pubblici accessibili  ed essendo quelli di categoria carenti oppure con possibilità d’uso  legata sempre al reddito, la persona con disabilità deve sopportare ulteriori  costi economici del trasporto giornaliero con l’autovettura privata. Si tratta perciò sempre di spese da sostenere con le entrate  da lavoro.   Le persone con disabilità e i loro nuclei familiari sono dunque anche  produttori  di un welfare – versamento dei contributi – al quale paradossalmente non possono  accedere di fronte al metro della completa indigenza o anche delle soglie minime. Una contraddizione che comunque già avviene nella realtà giornaliera attraverso lo strumento dell’ISEE. Ma di cosa si tratta?

1.1.1.3  L’ISEE: uno strumento discriminatorio che già esclude molti  aventi diritto produttori di welfare

Un altro aspetto da analizzare è che  l’erogazione del contributo economico – in generale –  da parte del Comune “varia in base ai valori ISEE relativi al nucleo familiare del disabile” (circostanze ribadite anche nel caso di Ascoli e che possiamo leggere anche in un parere del difensore civico regionale  rispetto al caso (cfr. qui per il parere).  Attraverso lo strumento dell’ISEE, si definiscono dei tetti di reddito al di sopra dei quali non si può accedere alle prestazioni sociali.

Guardando alla sentenza di Ascoli in maniera estensiva, a questo punto possiamo iniziare a pensare di far  riconoscere a maggior ragione questo  strumento come discriminatorio.  E’ infatti la sentenza del Comune Marchigiano  che comunque – al di la di alcune potenziali criticità analizzate in questo scritto – apre la via alla discriminazione nel settore sociale.   

Perché lo strumento è discriminatorio dunque?: l’ISEE fissa delle soglie di accesso alle prestazioni talmente basse da rasentare il ridicolo e l’abuso. Con un criterio da “tagli lineari”, estromette ed emargina un grandissimo numero di persone titolari un diritto soggettivo essenziale. Una discriminazione perpetrata ulteriormente con il nuovo ISEE dove viene considerata reddito ogni forma di erogazione – indennità comprese – data alla persona con disabilità.   In molti casi sono soglie rimesse alla discrezione degli Enti Locali. E proprio nei settori di diritti essenziali – come anche quelli dell’assistenza – dove, coerentemente con quanto fino ad ora spiegato, non dovrebbe proprio esserci un tetto di accesso.

1.2 Secondo  argomento del Comune: il vizio formale dell’azione legale della donna di Ascoli

L’Ente Comunale ha obiettato  la legittimità  rispetto alla forma dell’azione legale della donna, perché quando è stata avviata, era ancora sotto giudizio del Tribunale la questione della legittimità proprio della delibera 63 del 19/03/2004,

1.2.1 La risposta del Tribunale: una lezione positiva di diritti umani al di della burocrazia ottusa

Il Tribunale   ha chiarito che la tutela  predisposta dagli art. 2 e 3 della L. 67/2006 va valutata non tenendo conto completamente e ciecamente di  verifiche “formali” ma considerando  un altro  aspetto: anche di fronte a provvedimenti ed  attività amministrative legittime da parte della Pubblica Amministrazione (del Comune in questo caso), se da queste ultime  la persona con disabilità ne trae “particolari svantaggi” nella vita reale proprio a causa della sua condizione di disabilità, allora si ha discriminazione. Secondo il Tribunale si tratta di una diversità di punti di partenza da cui valutare la situazione,  che fa cadere l’obiezione formale  del Comune di Ascoli Piceno. Il Tribunale infatti, mette al centro la persona umana e  fa riferimento  all’art. 2 della legge 67 del 2006 e alla definizione di discriminazione diretta e discriminazione indiretta: “Si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata (..) sarebbe trattata una  persona non disabile in situazione analoga. Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone” (cfr. qui: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013). 

Di più: la Corte guarda anche  oltre confine facendo  riferimento agli 2 c 5 della Convenzione ONU sui dirìtti umani delle persone con disabilità,  per un’altra discriminazione che deriva dal rifiuto – da parte del Comune –  di un “accomodamento ragionevole”, e cioè di  un mezzo  inteso come tutte “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati (che non impongono un onère sproporzionato o eccessivo da valutare non tanto in termini economici, ma di adeguatezza del mezzo – cioè dell’adattamento – al fine – esigenza particolare della persona) adottati, ove ve ne sia necessità, in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali sulla base dell’eguaglianza con gli altri.”

Ed è in questo accomodamento che devono unirsi   sia a monte  le attività e gli atti diretti a tutelare gli interessi di tutte le persone con disabilità, sia a valle le azioni e i provvedimenti che si rendano necessari riguardo la particolare situazione in cui si trovi uno specifico soggetto con disabilità, allo scopo di garantirgli il godimento “dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo” (art. 2 Conv. ONU).

Il Comune invece, che dovrebbe essere l’Ente più vicino al cittadino e conoscere meglio le sue esigenze, si arrocca dietro un presunto vizio di forma di una Delibera ingiusta,  che lascia non poche perplessità  e sacrifica la persona e i suoi diritti  alla burocrazia ottusa e ignorante in materia di  diritti umani. Ed è proprio il Tribunale che – a mio parere – evidenzia i limiti e  la mancata preparazione dell’Ente ricordando  come dovrebbe essere orientata la sua azione morale – nel favorire una nuova coscienza sociale pubblica –  e pratica. Infatti,  la Corte ricorda di  “valutare nel caso l’attività amministrativa (del Comune) per verificare se discriminatoria o meno, richiamando a una “coscienza sociale pubblica” che guardi le persone con disabilità non come soggetti da proteggere nella loro diversità ma da mettere in condizione di godere degli ambiti di tutela riconosciti ad ogni individuo, mediante l’adozione delle più adeguate misure. Un concetto che viene dall’ambito soprannazionale – e che ancora sfugge alla  nostra tradizione giuridica –  che però si scontra con le scarse risorse di cui dispongono le Pubbliche Amministrazioni”. I diritti umani come da Convenzione sono definiti dal Tribunale come  di “Importanza basilare e di immediata applicazione precettiva” vale a dire,  che devono essere applicati immediatamente e obbligatoriamente senza bisogno di altre norme (cfr. qui: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013).

Un sorriso amaro: leggere  che alla nostra tradizione giuridica ancora sfugge un concetto da diversi anni inserito nella legislazione sovranazionale, recepita con legge statale, rende chiara ancor di più l’assoluta ignoranza – o la volontà di ignorare certe norme – del decisore pubblico 

1.3 Terzo   argomento del Comune: le risorse scarse

L’Ente Comunale ha negato l’assistenza  per mancanza di risorse.

1.3.1 Il Tribunale: le risorse scarse non possono essere un motivo per generare esclusione sociale

Anche in caso di risorse scarse, gli Enti Pubblici sono obbligati – in situazioni di disagio – a trovare un “accomodamento ragionevole per non creare esclusione sociale”. Nel caso specifico si sarebbe trattato di un accomodamento che il Comune non avrebbe mai cercato di trovare, continuando a rifiutare alla donna l’assistenza domiciliare indiretta attraverso la collaborazione del marito anche in epoca successiva all’entrata in vigore in Italia – con legge 18 del 2009 – della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ai sensi delle quali occorreva che il Comune rivedesse  i criteri di assegnazione del beneficio economico attraverso gli “accomodamenti ragionevoli” che avrebbero consentito alla donna di vivere in maniera dignitosa la propria esistenza.  Da ricordare che in generale – come precedentemente accennato – la mancata predisposizione dell’”accomodamento ragionevole” costituisce  discriminazione perché  una persona non supportata in maniera adeguata  si viene a trovare esclusa socialmente  ed emarginata.  E questo tipo di discriminazione è  vietata sia dalla Convenzione ONU che dalla normativa nazionale (legge 67/2006).

2.1 L’intervento  della Regione Marche

La vicenda della donna, ad un certo punto ha avuto un piccolo passo avanti perché  il ruolo professionale  del marito è stato riconosciuto dalla Regione Marche che se ne è assunta l’onere  nel 2010 inserendo la famiglia in un progetto di Vita indipendente con una partecipazione alla spesa del Comune di Ascoli Piceno per il 25%.  Nella “Vita indipendente” i fondi vengono dati direttamente alla persona con disabilità che organizza in modo autonomo  la propria assistenza. In questo senso è stato interessante leggere il  parere del difensore civico regionale (cfr. qui)  perché ammette  con certezza che l’assistenza indiretta erogata in tutto o in parte su fondi Regionali ai sensi della Legge Regionale 18/96 (modificata e integrata dalla Legge Regionale 28/2000)  riguarda sicuramente anche prestazioni date da familiari conviventi. Inoltre, ricorda che l’art. 12 della L.R.  18/2006 “mira a favorire la permanenza della persona in situazione di disabilità nel proprio nucleo familiare e nell’ambiente sociale e la Regione concorre nelle spese sostenute da Comuni singoli o associati e dalle Comunità Montane per garantire il servizio di assistenza domiciliare “prioritariamente a persone in situazione di disabilità gravissima” in attuazione della legge 162/1998.   Però, ribadisce che quando il Comune eroga contributi con fondi propri ha una libera valutazione sulle proprie politiche – sulla base delle norme che può darsi da se –   e ricollega questa libertà di azione proprio alla delibera 63 del 19.03.2004 che avrebbe “l’obiettivo di garantire migliore qualità della vita attraverso la presenza in casa di un operatore”.  

Insomma, il difensore civico regionale nel suo parere non entra  nell’ingiusta contraddizione del Comune tra la scelta (negare l’assistenza perché garantita da un familiare) e l’obiettivo da conseguire (esigenze reali e specifiche della persona che ha diritto di scegliere da chi farsi assistere che  la propria qualità della vita)  sulla base della  delibera 63 del 2004. Ammette però che potrebbe essere discutibile la coerenza della scelta del Comune , ma non rientra nelle sue competenze affrontare la questione.   Inoltre,  sottolinea la delicatezza della posizione del Comune   proprio perché  le scelte che deve compiere non possono non tener conto della discriminazione  e del principio di non discriminare sancito dalla legge 67 del 2006. Perciò, chiarisce un aspetto importante perché  anche se  non entra nella questione, ricorda che le norme che il Comune può darsi da se non devono essere in contraddizione con le “norme positive di rango superiore” e dunque, in questo caso con la legge 67 del 2006 che è dello Stato e riguarda la tutela di diritti pubblici soggettivi. E quando si parla di  diritti civili la legge statale – nell’ambito delle sue competenze esclusive –  ha preminenza sulle possibili ingiustizie degli atti emanati dall’Ente Comunale.  

2.1.1 Una criticità delle Leggi Regionali 18/96 e 28/2000

In entrambe le Leggi della Regione Piemonte (18/96 e 28/00),  è  usata  più volte la nozione di “gravissimo”. E’ da sottolineare – anche guardando  la data di emanazione delle rispettive leggi locali –  che la Legge Statale104 del 1992 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate)  parla di “particolare gravità” e “situazione di gravità”. E la successiva Legge nazionale  162 del 1998  (Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 104, concernenti misure di sostegno in favore di persone con handicap grave) parla di “handicap grave” o di “situazioni di particolare gravità”.

La licenza linguistica delle Leggi Regionali non è un semplice fatto grammaticale. Sull’uso di quell’ “issimo” il dibattito – anche attuale –  è rovente per due motivi. Il primo è che molte persone con disabilità ritengono che l’uso di “gravissimo” porta ad una ulteriore rigidità ed arbitrio nell’accesso ai diritti perché non lascia spazio a una valutazione di pari dignità a situazioni diverse ma comunque gravi. Inoltre,  ritengono che  il termine “gravissimo” nelle norme nazionali di riferimento non esiste e dunque è illegittimo. E a ben vedere, considerata anche l’approssimatività di conoscenze, competenze  ed azioni  degli Enti Locali non è così assurdo porsi il problema. Anche perché l’abuso il più delle volte si ripercuote su tutte le persone con disabilità, , “gravissimi” compresi se proprio vogliamo usare questa parola. E’ accaduto per la donna di Ascoli ma quotidianamente accade ogni volta che gli Enti Pubblici non mantengono parola e non rispettano le leggi tagliando risorse  senza guardare in faccia a nessuno. Se poi pensiamo che il metro di valutazione della Convenzione ONU sulle persone con disabilità, non è intrappolare la persona in certe categorie di “gravità” ma è quello del bisogno individuale del soggetto, cioè il suo modo di funzionare in relazione  alla sua interazione con l’ambiente, la cosa è ancora più illegittima.  

3.1 Un risarcimento economico,  fisico e morale: l’impatto patologico sulla sfera psico-fisica della persona

Il Tribunale ha definito il Risarcimento da parte del Comune per l’assistenza domiciliare indiretta, considerando  un arrotondamento anche per lo “stress” – cioè per l’effetto negativo psico-somatico – subito dalla donna a causa della discriminazione di cui è stata vittima. Lo stress dunque si ripercuote sulla salute mentale ma anche fisica della persona. Una premessa: la persona è una unica entità fatta di psiche, anima per i credenti, e corpo. Non si possono separare gli aspetti che fanno di una persona una “persona umana”. Tutti questi aspetti interagiscono fra loro. E’ importante premettere ciò perché  le prestazioni assistenziali – LIVEAS (Livelli Essenziali di Assistenza Sociale) che sono essenziali alla vita della persona con disabilità – non rientrano nei  LEA (Livelli Essenziali delle Prestazioni)  garantiti dal Sistema Sanitario Nazionale a chiunque ne ha bisogno, ma sono state demandate alla Legislazione degli Enti Locali.  Una Legislazione che però ricollega il diritto alle risorse di bilancio e che  non è omogenea su tutto il territorio nazionale  perché rimessa alle singole amministrazioni locali. Non dimentichiamo che la Costituzione stabilisce che il legislatore statale ha competenza legislativa esclusiva  per la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti idiritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, comma 2, lett. M, Cost.).  Trascurare dunque i diritti sociali – dove rientra anche l’assistenza – separandoli (LIVEAS), non determinandoli  e rimettendoli in concreto al decisore locale, che comunque ha fallito e creato forti disuguaglianze, è già contestabile. Al di la dell’aspetto normativo poi, l’esperienza ha mostrato l’inefficacia anche culturale e sostanziale di questa divisione. Infatti, da più parti si è sottolineato che separare la sfera sanitaria dalla sfera sociale ha permesso di far uscire le persone con disabilità da una visione di “malattia”. Perché la disabilità non deriva necessariamente da una malattia. Indubbiamente esiste anche la malattia ma è solo un aspetto del mondo della disabilità, non il criterio unico con cui guardare alle persone con disabilità. Eppure il tempo ha mostrato che questa “separazione” si è trasformata solo in un’arma per tagliare risorse ed escludere moltissimi individui dal godimento dei diritti. E se la persona è un unico insieme di tutte le sue parti, allora è giusto che il suo bisogno venga rivendicato con forza come un diritto che deve essere garantito sempre e comunque. Deve quindi essere garantito come LEA. In questo senso ci può far riflettere anche il risarcimento per stress, che –  a mio avviso – è importantissimo come “precedente” per portare avanti questa battaglia.  

ANALISI DI DUE PUNTI DELL’AZIONE LEGALE  NON ACCOLTI DAL TRIBUNALE CIVILE

4.1 Primo punto del ricorso non accolto dal Tribunale: il sistema delle Cooperative  non si scalfisce…?

Nella sua azione legale, la donna con disabilità grave, ha richiesto anche un risarcimento per la mancata prestazione di assistenza domiciliare diretta (cioè quella attraverso la quale l’operatore è fornito da cooperative dell’Ente Pubblico) – nell’anno 2010 – in maniera compatibile con le sue esigenze, Infatti, erano state concesse dal Comune prestazioni per  un massimo di  8 ore settimanali, considerate  però insufficienti a soddisfare le necessità dell’interessata.  

Il Tribunale ha però stabilito  che  “non è discriminatoria la mancata prestazione di assistenza domiciliare diretta – offerta per un massimo di 8 ore settimanali – perché è un beneficio da stabilire nel rispetto “del pari diritto degli altri richiedenti e che per sua specifica finalità (cura dell’igiene personale e degli ambienti domestici) non  si può convertire in contributo economico”. Il  rigetto del Tribunale rispetto a questo specifico aspetto pone diverse domande e perplessità.

Prima perplessità: il tetto massimo di ore concesse

Innanzitutto, partire da un “massimo di 8 ore settimanali”, significa considerare che – su sette giorni settimanali  – la persona con disabilità per la cura della propria igiene personale e della propria casa ha a disposizione l’aiuto di cui necessita  per circa un’ora e otto minuti e mezzo al giorno!. Sembra quasi banale sottolineare che quantificare un tempo così ridotto per entrambe le esigenze di cura, significa  forse supporre che le persone con disabilità non hanno diritto a igienizzare se stesse tutti i giorni nei dovuti tempi od anche la propria casa. In un’ora al giorno o si fa una cosa o l’altra e , comunque,  in maniera a dir poco sommaria.

Seconda perplessità: il pari diritto con gli altri

Inoltre,  il “pari diritto” con gli altri richiedenti rispetto all’ipotesi di elargire più ore, fa cadere anche il Tribunale nell’errore di non guardare alle esigenze personali di ognuno ma di assoggettarle ai vincoli di bilancio. E lo fa accettando il   “livellamento” –  per tutte le persone con disabilità interessate –  con una quantità “fissa” e determinata  solamente con criteri di risorse scarse a disposizione del Comune.

Terza perplessità: la specifica finalità dell’assistenza diretta

Ancora: secondo la Corte  l’assistenza diretta per sua “specifica finalità –  cura dell’igiene personale e degli ambienti domestici –  non  si può convertire in contributo economico”. Questo è un aspetto criticissimo: l’assistenza diretta è quella fornita dall’Ente con personale imposto proveniente da Cooperative ruotanti “nel sistema”.  Dire che la prestazione non si può convertire in contributo economico ha senso solo rispetto alla richiesta da parte dell’interessato di una formula piuttosto che un’altra. In altre parole, se la persona con disabilità richiede la formula dell’assistenza diretta,  questa certamente prevede modalità di imposizione di personale scelto dall’Ente. Ma dire che la prestazione di assistenza diretta non si può convertire in contributo economico per il suo “specifico scopo” che è “la cura della persona e della propria casa”, cambia di molto le cose e soprattutto quando – come in questo caso – la persona era costretta a richiederla perché gli veniva negata la prestazione essendosi avvalsa del  suo diritto di scelta – che si estende a chiunque di fiducia – attraverso la modalità di assistenza indiretta.

C’è da dire che esiste anche una formula “mista” che prevede sia l’erogazione dell’assistenza diretta per una parte e di assistenza indiretta per un’altra. Ma questa formula è legata sempre e comunque alla scelta della persona.  Non è certo la “finalità” in se e per se che vincola a sopportare imposizioni esterne. E questo ancor di più se l’obbiettivo è la cura della persona e si violano – senza il suo consenso e sotto costrizione dovuta dalla necessità – le sfere della sua privacy fisica e familiare negli spazi della vita privata.

La domanda infatti che nasce è: quando si tratta di farsi mettere le mani addosso e nei propri ambienti domestici, si tratta di un “fine” che non conosce altre soluzioni se non quella che lo debba fare chiunque ed estraneo….? ….Anche il diritto alla privacy collegato al diritto di scelta è un diritto umano (in questo senso cfr in “imporre l’operatore e negare l’assistenza indiretta è reato?”).  Potrebbe (ipotesi) trattarsi di un giro di parole  quello di collegare l’impossibilità di quantificare economicamente l’assistenza diretta ad uno scopo – e non tanto al fatto che quel tipo di modalità se richiesta prevede certi presupposti – proprio per blindare e non intaccare il circuito delle Cooperative e non dar conto di quanto costa effettivamente ogni ora di assistenza fornita da queste realtà?

Domanda legittima, se si pensa che invece l’assistenza indiretta garantisce alla persona con disabilità di scegliere da chi essere assistito, ma anche ai Comuni di avere un notevole risparmio economico. Non solo: con la modalità indiretta si garantisce un regolare contratto di lavoro alla persona che aiuta quella con disabilità. E dunque, dato che  le Cooperative sociali hanno delle tariffe orarie…. che sono ovviamente da moltiplicare per le ore concesse per avere un costo totale……sorge un’ ulteriore domanda: renderle trasparenti e pubbliche forse destruttura?….Perché non riportare – al limite –  quanto costa quel massimo di 8 ore giornaliere concesse con modalità diretta….?……

4.2 Secondo  punto del ricorso non accolto dal Tribunale: l’esclusione dai tavoli di decisione

Nella sua azione legale, la donna con disabilità grave, ha richiesto anche un risarcimento per la sua esclusione da tutti i tavoli della concertazione per i problemi della disabilità. Il Tribunale ha però stabilito  che  non discriminatorio il mancato invito della ricorrente ai tavoli di concertazione perché la Cooperativa  (di riferimento del Comune) risultava cancellata dal registro delle imprese dal 6 aprile 2010. Nel ricordare che alla donna non era stata fornita l’assistenza diretta proprio nell’anno 2010 perché la stessa non l’aveva ritenuta compatibile con le proprie necessità, non avendo elementi per giudicare in modo appropriato questo aspetto, ritengo che sarebbe stato legittimo – ai fini della trasparenza – che la diretta interessata avesse conosciuto prima i motivi per i quali quella Cooperativa era stata cancellata dal registro delle imprese. Questo sia perché destinataria dei suoi potenziali servizi durante la sua esistenza, sia perché molto spesso alcune persone con disabilità lamentano il fatto che sono escluse dai tavoli di concertazione che le riguardano  a causa di  un presunto dominio delle Cooperative che parlano prepotentemente in nome e per conto degli interessati. E se questo fosse confermato,  e forse successa anche in questo caso una estromissione simile………?

5.1 Una Sentenza è un fatto solo privato ….? Ed è anche una eccezione…?

Il Tribunale specifica che il convenuto, cioè il Comune, non è condannato a divulgare la sentenza  sul giornale perché si tratta di un “provvedimento privato con accertamento di discriminazione per cui non è necessaria ne opportuna la divulgazione” (cfr. qui a pag.8: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013). Chiariamo un punto: le Sentenze sono dei provvedimenti pubblici che con i dovuti “omissis” (cioè la dovuta copertura dei dati sensibili che riportano alle persone coinvolte) vanno resi disponibili e trasparenti. E infatti anche la sentenza della Corte di Ascoli Piceno è disponibile sul sito del Tribunale e nel corpo della sentenza risultano coperti in nero i dati sensibili. Il ricorso di una persona è sempre un fatto privato, e quel fatto aprirà la via a tante altre persone che a loro volta porteranno il loro caso, Nel caso specifico di Ascoli a maggior ragione: si parla di  discriminazione,  e per la prima volta viene riconosciuta nel settore sociale nell’ambito di una legge che tutela ed esiste ma che viene costantemente ignorata. Ogni discriminazione colpisce la persona in modo diverso ed è un fatto privato….per combatterla occorre parlarne, conoscerla, riconoscerla e chi può apra la via agli altri. Perché chi discrimina conta proprio sull’omertà generale.

Anche qui sorge una domanda: non è che questo richiamo alla natura privata della sentenza, e la conseguente omissione della pubblicazione sul giornale,  non sia un andare incontro a quel Comune per scongiurare  che tanti altri  avrebbero potuto venire a conoscenza del riconoscimento sia della discriminazione che del risarcimento  e di conseguenza fare lo stesso tipo di ricorso…?…..

Un dubbio ancora più forte se pensiamo che nella sentenza di Ascoli (a pag. 6) leggiamo che il Tribunale evidenzia  che “ad una situazione ancor più bisognosa di tutela non si è data una risposta adeguata non adottando dei “ragionevoli accomodamenti” che potevano essere presi in considerazione perlomeno dopo la ratifica della Convenzione ONU sopra richiamata permettendo IN DEROGA ad essa – cioè in via di eccezione  rispetto alla Convenzione – che il contributo fosse dato al marito disoccupato per consentire alla donna di vivere dignitosamente”. Ma nella Convenzione ONU delle persone con disabilità non c’è traccia di divieti a scegliere un proprio familiare convivente per farsi assistere. La Convenzione parla di libera scelta come diritto umano senza costrizione alcuna su con chi vivere, dove vivere e da chi farsi aiutare.

Non è che si vuole far passare per “eccezione” quello che eccezione non è, sempre per “accontentare” l’Ente Pubblico ed evitare che molti altri agiscano legalmente o pretendano a gran voce il loro diritto alla scelta….? Visti i recenti fatti di cronaca e gli scandali malavitosi delle cooperative sociali connesse anche con la politica, il dubbio è legittimo.

di Giovanni Cupidi

Lavoro ai disabili, ecco tutte le agevolazioni

Malgrado gli innumerevoli sostegni fiscali che dovrebbero indurre le aziende ad assumere i soggetti portatori di handicap, in Italia solo il 16% dei disabili trova occupazione.In Italia, da una recente stima, è emerso che soltanto il 16% dei disabili ha trovato un’occupazione. E ciò si traduce in una drammatica realtà: il 74% delle persone affette da disabilità, e ritenute abili al lavoro, non viene inserita.
Su questo tema, non è mancato l’intervento dell’Unione europea, bocciando l’Italia attraverso la Corte di Giustizia UE, che ha ritenuto insufficienti gli strumenti che il nostro paese ha messo in atto per favorire l’occupazione delle persone con disabilità, quali attuazione concreta dei diritti di uguaglianza e integrazione. Ma quali sono gli obblighi di chi vuole assumere del personale inserito all’interno delle liste protette?
Qui di seguito una rapida sintesi:Obblighi per le aziende – La legge 68/99 sancisce che le aziende che superano il tetto dei 15 dipendenti debbano assumere almeno un lavoratore appartenente alle categorie protette. Nella normativa è previsto un crescendo di queste assunzioni, con l’incremento dei dipendenti. Da 15 a 35 dipendenti prevede l’assunzione di una persona disabile, dai 36 ai 50 di due, da 51 a 150 in una percentuale del 7% più uno.Incentivi per le aziende – Con l’assunzione di un lavoratore appartenete alle categorie protette, l’azienda ha diritto di accedere ad alcune agevolazioni previste dalla legge (art. 13 legge 68/99), tra le quali: fiscalizzazione dei contributi previdenziali e assistenziali per l’assunzione di lavoratori disabili con ridotta capacità lavorativa superiore al 79% fino a un massimo di 8 anni. Medesimo discorso vale per l’assunzione di lavoratori con handicap intellettivo e psichico.Va ricordato inoltre che, nel caso in cui l’azienda debba sostenere costi per eliminare le barriere architettoniche, ma anche per l’acquisto di tecnologie per facilitare il telelavoro del soggetto, la legge prevede un rimborso parziale forfetario.Sanzioni – Per le aziende che eludono l’obbligo di assunzione di lavoratori affetti da disabilità sono previste delle ammende di carattere amministrativo, stabilite dalle direzioni provinciali del lavoro. Al di la delle chiacchiere, e delle leggi sistematicamente non rispettate, ci aspettiamo che l’Italia, così come tutti i paesi definiti “sviluppati”, riesca prima o poi a far sì che, una risorsa produttiva come quella che può derivare dal lavoro dei disabili, venga finalmente recepita come unica alternativa ad uno Stato assistenziale che ogni anno crea problemi di bilancio ai vari Governi che si succedono.
(www.ilmediano.it)

di Giovanni Cupidi

Persone con disabilità e lavoro: più che disabili, invisibili!

Dalla rubrica Invisibili del corriere.it :

Lavoro, svantaggiati due volte?

di Franco Bomprezzi

Se ne torna a parlare, finalmente. In modo concreto a Milano, in una giornata, questo mercoledì, densa di appuntamenti. Si comincia con il Career Forum di Diversità Lavoro, che permette di accelerare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro con una serie di grandi aziende che aderiscono al progetto. Si prosegue nel pomeriggio con la prima iniziativa pubblica in vista di Reatech Italia (la rassegna dedicata ad accessibilità, inclusione e autonomia, in programma dal 10 al 12 ottobre a Milano): nella rinnovata sede di Milano Congressi, un convegno a più voci, con la presentazione, tra l’altro, dei risultati di una interessante indagini condotta dal G.I.D.P. ossia il Gruppo Intersettoriale dei Direttori del Personale, figure chiave per comprendere come viene percepita e realizzata concretamente una politica di inserimento lavorativo.Partiamo però da una considerazione generale, drammatica. Nei giorni in cui, giustamente, si snocciolano le cifre impressionanti della disoccupazione italiana, e specialmente di quella giovanile, con un tasso superiore al 40 per cento, nessuno si azzarda a tirare fuori i numeri della disoccupazione (o meglio, della rinuncia all’occupazione) delle persone con disabilità. Ecco fatto: 644 mila iscritti alle liste di collocamento, con un tasso di disoccupazione del 72,5 per cento. Come dire che tre persone con disabilità su quattro, che potrebbero lavorare (si badi bene), non trovano assolutamente spazio nel mercato del lavoro. Anzi, l’attuale crisi generale consente alle aziende di derogare ulteriormente agli obblighi previsti dalla legge ’68 del 1999, che a poco meno di quindici anni di vita, si può considerare piena di luci e di ombre, incapace comunque di far compiere al nostro Paese quel salto culturale e sociale che era nelle intenzioni dell’intero Parlamento.A questo punto il lavoro, che per tutti è il problema principale, qui diventa quasi una chimera, e i lavoratori disabili risultano più invisibili degli altri. E dire che, ad esempio, nelle università italiane il numero degli studenti con disabilità è balzato in dieci anni da 5 a quasi 15 mila. Tutto farebbe supporre, almeno per i laureati, una possibilità concreta, quasi una corsia privilegiata, per trovare un lavoro qualificato con buona soddisfazione delle aziende. Ma non è così. Dall’indagine svolta dai Dirigenti del Personale, emerge un quadro ambivalente. Da un lato una complessiva propensione a considerare i lavoratori disabili esattamente come gli altri, ma il giudizio sull’applicabilità della normativa vigente è impietoso. Due su tre la ritengono inefficace, un po’ perché superata, un po’ perché le persone con disabilità non corrisponderebbero alle aspettative dell’azienda. Uno su due dichiara di preferire il pagamento della penale, consentita dalla legge, piuttosto che assumere un lavoratore disabile.
Il telelavoro è praticamente sconosciuto, mentre viene vista con favore la strada delle convenzioni con le cooperative sociali.Esiste probabilmente un intricato meccanismo che mette insieme difficoltà oggettive nella selezione del personale, pregiudizi ancestrali e diffidenze che corrispondono perfettamente allo stigma della disabilità, mancanza di incentivi premianti adeguati ai tempi che stiamo vivendo, difficoltà nell’incrociare le competenze con le necessità aziendali, il tutto in un mondo che funziona a corrente alternata, e si basa molto spesso sulla buona volontà delle persone, non su una radicata convinzione che assumere una persona disabile è di per sé un’ottima scelta, anche dal punto di vista delle aziende, grandi o piccole che siano, perché un lavoratore con disabilità, quasi sempre, ha una motivazione fortissima nel dimostrare le proprie capacità, sviluppa un attaccamento al lavoro particolarmente intenso, costringe di fatto i colleghi e l’ambiente di lavoro a un ripensamento positivo, in termini organizzativi e di gestione delle relazioni umane. Occorre pensarci seriamente, anche adesso, quando si parla di una nuova manovra per favorire l’occupazione.
La parola “disabilità” non mi pare che sia mai stata pronunciata in questo contesto. Le persone con disabilità non possono e non devono vivere di sola assistenza, o di servizi di welfare che giorno dopo giorno si stanno smantellando, sotto i colpi della crisi.

Lavoro, svantaggiati due volte?

di Giovanni Cupidi

Sesso e disabilita’: l’assistenza sessuale approda in parlamento

In un articolo di qualche giorno fa vi introdussi, con l’aiuto di un film da poco uscito, l’argomento legato a “persone con disabilità e sessualità” accennandovi al fatto che ne avrei discusso più approfonditamente.
Al riguardo voglio segnalarvi un articolo pubblicato dall’agenzia di stampa primapress.it l’otto aprile che introduce una discussione, che poi è la discussione, sull’opportunità di finalmente legiferare in Italia come già fatto in altri Paesi Europei comunitari o non. Ovviamente il tabù nel nostro Paese è e sarà difficile da abbattere anche perché, come anche fa notare l’articolo, il confine tra assistenza sessuale e prostituzione in Italia è ancora più labile.
In ogni modo anche da noi se ne comincia a parlare più diffusamente e questo è un passo avanti.

di Giovanni Cupidi

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MILANO – Sesso e disabilità:  un binomio che in Italia subisce una censura ‘preventiva’, ben prima che l’argomento possa diventare concretamente oggetto di discussione.  Ciononostante, il diritto di ogni disabile a conoscere e a gestire la propria sessualità, compatibilmente con la propria patologia, è un tema oggetto di approfondimento in diversi Paesi europei.Da un punto di vista legislativo, ci troviamo di fronte a una questione aperta: “Ad oggi non esiste alcun progetto di legge nel nostro Paese che possa regolamentare un tema così delicato e, nonostante sia sufficiente oltrepassare il confine con la Francia o con la Svizzera per incontrare associazioni dedite alla cura e all’assistenza sessuale dei disabili, in Italia qualsiasi iniziativa del genere ricadrebbe ancora nel favoreggiamento della prostituzione con tutte le conseguenze del caso”, dichiara l’avvocato Lorenzo Puglisi, specializzato in diritto di famiglia e Presidente dell’associazione FamilyLegal. “La legge Merlin è una legge vecchia, totalmente insufficiente e inadeguata a regolamentare il fenomeno della prostituzione. In passato vi sono stati flebili tentativi di rinnovamento (come quello dell’ex ministro Carfagna), ma tutto si è arenato, mantenendo in vita una regolamentazione risalente agli anni 50”.
La Svizzera parrebbe essere nel frattempo diventata la meta prediletta ove usufruire di un servizio reale di ‘assistenza sessuale’. Il Paese mette infatti a disposizione dei disabili veri e propri team di specialisti per agevolare il contatto con la propria sessualità: dallo psicologo allo psicoterapeuta, dall’andrologo al sessuologo, fino alla figura più controversa e dibattuta, quella dell’assistente sessuale. Gli assistenti per disabili sono, infatti, figure professionali riconosciute e preparate grazie a corsi di formazione e di psicologia di base. Una seduta di un’ora costa al paziente una cifra intorno ai 150 franchi svizzeri (circa 124,53 euro).Anche in altri Paesi europei fra cui Francia, Svizzera, Danimarca, Olanda, Svezia e Germania questo servizio a tutela della sfera emotivo-sessuale dei disabili gode già di una disciplina a livello legislativo e sono nate associazioni che se occupano, mentre in Olanda è addirittura a carico del servizio sanitario nazionale. Anche in Gran Bretagna il governo è molto attento al tema disabili e sessualità e ha stanziato ben 520 milioni di sterline per progetti di assistenza. Non solo:  proprio i disabili e il sesso sono gli ingredienti dell’ultimo reality show che, non ancora andato in onda, sta già facendo discutere i sudditi inglesi. Il programma si intitolerà ‘Can have sex, will have sex’ (Possono fare sesso, faranno sesso) e andrà in onda su Channel 4.In Italia è grazie al web che l’argomento ha iniziato a sollevare una seppur minima attenzione e l’assistenza sessuale ai disabili ha poco a poco iniziato a trovare spazio nelle cronache grazie a blog e petizioni che hanno focalizzato l’attenzione su questo tema (http://www.loveability.it/). Il problema fondamentale da affrontare risulta essere, quindi, la qualifica di terapista sessuale. In Italia questa professione non è ancora stata presa in considerazione da un punto di medico, ma, al contrario, continua ad essere equiparata alla prostituzione:  “La legislazione italiana in materia parla chiaro: le pene vanno da uno a cinque anni di reclusione e si raddoppiano se al colpevole la persona era stata affidata per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia”, continua l’avvocato Puglisi.La questione non può continuare a essere ignorata, negando di fatto l’esistenza di una sfera emotiva e sessuale per i disabili. “Nel nostro Paese sono circa 3 milioni le persone con disabilità, e ogni anno ci sono circa 2.000 i nuovi casi. – spiega Marco Firmo, andrologo – Inizialmente è fondamentale il supporto di uno psicologo, che aiuti il disabile a prendere coscienza e ad accettare la propria condizione, ancor prima di affrontare eventuali cure mediche. Il secondo aspetto da considerare è quello più strettamente legato alla sfera sessuale, e qui entrano in gioco le competenze del sessuologo, che dovrà indirizzare il paziente verso una corretta ‘gestione’ della propria vita sessuale, in funzione della consapevolezza e dei propri desideri. In terzo step va affrontato insieme all’andrologo, il cui compito è quello di mettere il disabile nelle condizioni di esercitare ciò che desidera o di ripristinare eventuali funzioni alterate, e, possibilmente, di giungere ad  un recupero funzionale. Non da ultimo, l’attenzione va posta anche verso le possibili istanze del disabile legate alla procreazione, che richiedono un intervento tecnico sul piano funzionale e  rivolto alle tecniche di procreazione medica assistita”.Pioniere di questa battaglia nel nostro Paese è stato il toscano Max Ulivieri, costretto dalla nascita su una sedia a rotelle a causa della distrofia muscolare e felicemente sposato, che a febbraio ha lanciato una petizione online (firmiamo.it/assistenzasessuale) perché anche nel nostro Paese venga istituita questa figura.  I sessuologi si dividono: da una parte c’è chi sostiene che la questione vada affrontata e definita e che l’assistenza debba essere praticata da operatori volontari, di contro altri restano del parere che il dovere del medico si debba limitare a mettere l’individuo nelle condizioni di poter esercitare le proprie funzioni, fra cui quella sessuale.“Ciò che è evidente è che il problema esiste e procrastinare una soluzione, come si è soliti fare nel nostro Paese, rischierebbe solamente di alimentare organizzazioni clandestine o, nella migliore delle ipotesi, la migrazione verso l’estero come sta avvenendo per la fecondazione eterologa o la diagnosi preimpianto”, conclude l’avvocato Puglisi.