In Italia non si sa quante siano le persone con disabilità

In Italia è un grosso problema perché senza dati mancano le basi per decidere le politiche pubbliche e soprattutto quanto finanziarle

La legge di Bilancio approvata alla fine dello scorso anno ha aumentato i soldi destinati al fondo per le politiche per le persone con disabilità: dai 300 milioni di euro previsti per il 2022 si è passati a 350 milioni all’anno fino al 2026, che servono a finanziare molti servizi indispensabili dedicati anche alle persone che eventualmente le assistono. Tuttavia, per lo stesso governo è molto complicato capire se questi fondi siano sufficienti perché in Italia non si sa quante siano effettivamente le persone con disabilità.

La mancanza di dati certi è un grosso problema di cui associazioni, fondazioni, esperti ed esperte discutono da tempo e a cui ISTAT, l’istituto nazionale di statistica, sta cercando faticosamente di rimediare. Una delle conseguenze di questa carenza è che tutte le politiche di sostegno e assistenza, non esclusivamente sanitarie, così come i fondi specifici per l’inclusione, l’accesso al lavoro, all’istruzione e allo sport o ancora l’eliminazione delle barriere architettoniche e la progettazione di luoghi inclusivi sono stati pensati e finanziati sulla base di stime ricavate da sondaggi, quindi approssimative.

Uno dei limiti principali dei dati che riguardano le persone con disabilità è la definizione stessa di disabilità. Secondo l’International classification of functioning, disability and health (Icf), la disabilità infatti non riguarda esclusivamente la presenza di un deficit fisico o psichico. È un concetto ripreso dalla Convenzione delle Nazioni Unite (ONU) del 2006 che ha spostato l’attenzione dalle condizioni individuali al contesto sociale della persona con disabilità in quanto protagonista di relazioni con ambienti e persone. La convenzione spiega che le persone con disabilità «presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».

Rispetto al passato viene quindi data molta più importanza alla dimensione sociale della disabilità che secondo questo approccio, ormai consolidato, può essere considerata una manifestazione grave dell’incapacità di una società di assicurare l’uguaglianza alle persone con problemi di salute.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), il 15 per cento della popolazione mondiale, almeno un miliardo di persone, è in condizione di disabilità. È una percentuale in aumento soprattutto per via dell’invecchiamento della popolazione.

Anche se fare confronti può essere fuorviante, l’ultima stima diffusa sul numero delle persone con disabilità in Italia è piuttosto distante dal 15 per cento stimato dall’OMS. Secondo la piattaforma Disabilità in cifre realizzata dall’ISTAT e relativa al 2019, le persone che soffrono di gravi limitazioni che impediscono loro di svolgere attività abituali sono circa 3 milioni e 100 mila, pari al 5,2 per cento della popolazione. Un altro dato, anche in questo caso molto diverso dai precedenti, può essere ricavato dalle pensioni di disabilità erogate dall’INPS: nel 2017, l’ultimo aggiornamento disponibile, dice che le pensioni di invalidità erano 4,3 milioni.

La stima dell’ISTAT sull’incidenza della disabilità in Italia, che tra le altre cose viene utilizzata dal governo per programmare le politiche e i relativi finanziamenti, è il risultato di un’indagine generale chiamata “Aspetti della vita quotidiana”. A un campione di 20mila famiglie o 50mila persone vengono fatte diverse domande, tra cui questa: “A causa di problemi di salute, in che misura lei ha delle limitazioni, che durano da almeno sei mesi, nelle attività che le persone abitualmente svolgono?” Le risposte possibili sono tre: limitazioni gravi, limitazioni non gravi, nessuna limitazione.

Secondo l’indagine, l’incidenza di persone con disabilità è più alta nelle isole, Sardegna e Sicilia, con il 6,5%, mentre il valore più basso è al Nord Ovest, 4,5%. Le regioni nelle quali il fenomeno è più diffuso sono l’Umbria e la Sardegna, rispettivamente l’6,9% e il 7,9% della popolazione. Campania, Lombardia e Trentino-Alto Adige sono, invece, le Regioni con l’incidenza più bassa: il 4,4%, 4,1% e 3,8%.

Persone con disabilità in Italia
Chart: Il Post  Source: ISTAT e FightTheStroke

L’incidenza è molto alta tra le persone anziane: quasi 1 milione e mezzo di ultra settantacinquenni, cioè più del 20% della popolazione in quella fascia di età, si trovano in condizione di disabilità e un milione tra loro sono donne. Le persone con limitazioni gravi hanno un’età media più elevata di quella del resto della popolazione: 67,5 contro 39,3 anni. Il 29% vive da solo, il 27,4% con il coniuge, il 16,2% con il coniuge e i figli, il 7,4% con i figli e senza coniuge, circa il 9% con uno o entrambi i genitori, il restante 11% circa vive in altre tipologie di nucleo familiare. Ma come detto si tratta di stime.

Il problema più significativo che spiega la mancanza di dati certi è che fino a poco tempo fa l’INPS non aveva digitalizzato i dati relativi alle persone con disabilità: di fatto non esisteva un archivio con tutte le certificazioni rilasciate dalle commissioni mediche che si occupano di stabilire se una persona necessita di un sostegno economico. Tra le altre cose, l’INPS è riuscito a digitalizzarli soltanto a partire dalle certificazioni fatte dopo il 2010: l’impossibilità di ricostruire il passato con precisione, e quindi capire esattamente la condizione delle persone con una disabilità accertata prima del 2010, rende questi dati piuttosto incompleti. Per questo motivo finora l’ISTAT è dovuta ricorrere a indagini campionarie.

Un ulteriore ostacolo è rappresentato dall’occasionalità di indagini molto importanti e mai ripetute, come quella relativa alla violenza sulle donne, del 2014, oppure la Labour Force Survey del 2011 o la EHSIS (European health and social integration survey) relativa alla salute, del 2012. Senza dati aggiornati costantemente è più complicato capire le tendenze e l’impatto che politiche, leggi, riforme e interventi possono aver avuto sulle tante persone interessate da questo tema.

La necessità di avere dati più affidabili sulle persone con disabilità è al centro di una campagna promossa dalla fondazione FightTheStroke, che supporta la causa dei giovani sopravvissuti a un ictus e con paralisi cerebrale infantile. La fondazione ha finanziato e pubblicato una piattaforma digitale, chiamata DisabledData, con l’obiettivo di raccogliere tutti i dati relativi alla disabilità ricavati da diverse fonti e renderli disponibili. I dati sono stati raccolti con il supporto dell’associazione onData, che da anni sostiene la diffusione dei dati come strumento di partecipazione civica, e la piattaforma è stata progettata da Sheldon.studio con un design inclusivo, accessibile a chiunque.

Francesca Fedeli, presidente della fondazione FightTheStroke, spiega che quando iniziarono a lavorare a questo progetto fu subito evidente che c’erano molti problemi dovuti alla differenza tra le varie stime. «Stiamo parlando di dati dietro a cui c’è una comunità di persone molto grande, eterogenea, e che al suo interno ha diverse classificazioni, per esempio legate alle disabilità motorie o sensoriali, con bisogni molto diversi», dice Fedeli. «Spesso le famiglie o i singoli individui non hanno punti di riferimento perché è complicato trovare esperienze simili alla propria. È uno dei motivi per cui è nata la nostra fondazione. La scarsa percezione della situazione è un limite anche per le istituzioni. Per pensare a politiche e soluzioni efficaci è importante fare ricerca, ma senza dati è difficile».

Tutti questi problemi sono ben noti all’ISTAT, che da oltre vent’anni lavora per ottenere dati più affidabili sulle persone con disabilità. Alessandro Solipaca, ricercatore di ISTAT e membro dell’osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, un organismo della presidenza del Consiglio dei ministri, spiega che i dati attuali sono autoriferiti, cioè basati sulle risposte delle persone ai sondaggi, e che per avere stime più affidabili servirebbe un campionamento più specifico rispetto a quello attuale.

Questo limite sarà parzialmente superato da un progetto a cui ISTAT sta lavorando da tempo, cioè nuovo registro sulla disabilità. «Ci saranno diversi livelli di approfondimento: attraverso le certificazioni digitalizzate dall’INPS è stato possibile identificare quante sono le persone con deficit di salute, saranno disponibili informazioni statistiche più appropriate secondo i criteri e i diritti previsti dalla convenzione dell’ONU e inoltre verranno progettate indagini statistiche ad hoc sulla disabilità», dice Solipaca. «Miglioreremo la qualità delle informazioni in generale e anche su singoli ambiti dell’inclusione. I provvedimenti presi dal governo devono individuare chiaramente le persone a cui sono rivolti: dati migliori consentono di promuovere politiche migliori».

Le indagini promosse finora, insieme al lavoro delle associazioni, mostrano che gli strumenti e i finanziamenti sono spesso insufficienti o inefficaci. Per esempio, le politiche di accesso al lavoro sono state ispirate al principio della valorizzazione delle capacità degli individui, anche con lo scopo di favorire la dignità e il diritto all’indipendenza economica, tuttavia i livelli occupazionali delle persone con disabilità sono ancora molto al di sotto della media nazionale e spesso i lavoratori con disabilità vengono relegati a svolgere mansioni secondarie.

Anche gli interventi per favorire la conciliazione tra il lavoro e la cura di un famigliare con disabilità sono stati inefficaci, come testimoniano le carriere lavorative dei cosiddetti caregiver, spesso meno rilevanti di quelle del resto della popolazione. È un problema che riguarda in particolare le donne.

Le famiglie continuano ad avere un ruolo essenziale intorno a cui le istituzioni, dal governo agli enti locali, hanno sviluppato una serie di interventi di sostegno. In prospettiva, però, la rarefazione delle reti famigliari e sociali rischia di mettere in crisi la sostenibilità di questo modello.

Nell’indagine intitolata Conoscere il mondo della disabilità, pubblicata dall’ISTAT, si legge che l’informazione statistica può svolgere un ruolo importante per progettare e realizzare un nuovo modello di welfare e in questo modo contrastare il rischio di esclusione e abbandono. Più dati e informazioni dovrebbero consentire «non soltanto di conoscere meglio le condizioni di vita delle persone con disabilità nei diversi ambiti – e la diversa gravità delle loro limitazioni – ma anche di individuare le varie barriere che determinano i loro svantaggi». (ilpost.it)

Recovery plan e disabilità: nuove risorse e lacune antiche

Sulla disabilità che cosa esprime il PNRR? Chi ha redatto il Piano dimostra di conoscere gli elementi portanti della Strategia europea sulla disabilità 2010-2020 che spazia dalla piena inclusione, alle politiche per il lavoro, all’accessibilità, all’istruzione più inclusiva, al miglioramento dell’assistenza medica e dei sistemi di protezione sociale sostenibili e di alta qualità. Tuttavia, il “tema” disabilità è sostanzialmente confinato nella missione sull’inclusione sociale. Anzi, in una parte di quella missione

Inquadriamo lo scenario usando la stessa sintassi governativa. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) è il programma di investimenti che l’Italia deve presentare alla Commissione europea nell’ambito del Next Generation EU, lo strumento predisposto a Bruxelles per rispondere alla crisi provocata dalla pandemia da Covid-19. È strettamente necessario che il Piano sia elaborato in modo congruente alle richieste UE per poter contare su un contributo mai visto e che sfiora i 200 miliardi. Il Governo Conte ne aveva elaborato una prima deficitaria versione.

Il Governo Draghi ci ha rimesso le mani ne ha inviato testo e schede tecniche al Parlamento. Sarà al centro del Consiglio dei Ministri di domani e poi della discussione parlamentare lunedì e martedì prossimi. Infine sarà approvato in una nuova riunione del CdM e inviato a Bruxelles.
Il Piano (chiamato anche Recovery Plan) è articolato in sei missioni: digitalizzazione; innovazione; competitività e cultura; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per la mobilità sostenibile; istruzione; cultura e ricerca; inclusione e sociale; salute.

Attorno alle oltre 318 pagine del PNRR, non solo per la vastità del documento, è difficile esprimere sia una stroncatura, che certo non merita, che un acritico apprezzamento. Molti invece gli interrogativi, talora pessimistici ma più spesso sinceramente ispirati dalla curiosità di conoscerne la effettiva applicazione e ricaduta sulle persone, sulle famiglie, sulla collettività.

Sulla disabilità che cosa esprime il PNRR? Chi ha redatto il Piano dimostra di conoscere gli elementi portanti della Strategia europea sulla disabilità 2010-2020 che spazia dalla piena inclusione, alle politiche per il lavoro, all’accessibilità, all’istruzione più inclusiva, al miglioramento dell’assistenza medica e dei sistemi di protezione sociale sostenibili e di alta qualità. Lo dimostra e la cita assieme ai preoccupati report (2017) del Parlamento europeo.

Tuttavia, il “tema” disabilità è sostanzialmente confinato nella missione sull’inclusione sociale. Anzi, in una parte di quella missione. Se alcuni elementi sono certamente apprezzabili (al netto di come verranno effettivamente realizzati), non emerge una visione d’insieme articolata e che colga, almeno in nuce, le complessità irrisolte su disabilità e non autosufficienza, su inclusione e pari opportunità, su segregazione e isolamento.

Nella missione riservata all’inclusione sono previste per la disabilità due specifiche linee di intervento. La prima è quella delle infrastrutture sociali che dovrebbero “rafforzare il ruolo dei servizi sociali locali come strumento di resilienza mirare alla definizione di modelli personalizzati per la cura e il miglioramento della qualità della vita delle persone con disabilità, anche attraverso il potenziamento delle infrastrutture sociali che coinvolgono il terzo settore.” Non è ancora chiaro di cosa si intenda nel dettaglio, ma verosimilmente vi saranno inclusi servizi residenziali, semiresidenziali e di accompagnamento.

Ci si attendeva in queste parti un più articolato dettaglio, solo ad esempio, sul tema della non autosufficienza. Aspetto invece che rimane molto debole in tutto l’impianto del Piano con quello che ne deriva per una parte significativa della popolazione.

Più stringente la seconda linea che contempla invece i percorsi di autonomia per le persone con disabilità cogliendo in parte , almeno in termini programmatici, molte istanze avanzate in questi anni. Gli intenti espressi – su cui si possono elaborare differenti letture – sono quelli di evitare la istituzionalizzazione o di favorire la destituzionalizzazione soprattutto attraverso l’assistenza domiciliare ma anche di accompagnamento all’autonomia personale. Si delineano anche sostegni all’abitare, agli interventi per la ristrutturazione delle abitazioni anche con il ricorso a strumenti di domotica o tecnologicamente avanzati. Un passaggio è dedicato al ricorso a strumentazione e allo sviluppo di competenze digitali in funzione del telelavoro. Il tutto dovrebbe essere inquadrato nella definizione di progetti personalizzati.

In altri passaggi non si rileva invece alcuna particolare attenzione alla disabilità; in particolare l’assenza brilla nelle politiche per l’occupazione (grave!) e nell’housing sociale. Come pure in altre linee dedicate alla disparità di genere e, ancora, all’istruzione o, infine, alla reale accessibilità alla salute, alla prevenzione, alla cura.
Si tace sulla disabilità anche nella parte riservata all’innovazione nella Pubblica amministrazione. Qui di apprezzabile vi è il richiamo all’accessibilità degli atti e delle risorse pubbliche (peraltro già previsto da un corpus regolamentare nazionale ed UE).

Rimane quindi la spiacevole sensazione che la visione della disabilità sia costretta nell’ambito dell’assistenza e della protezione sociale (nel senso minimale dell’espressione) e non piuttosto in quella di una condizione umana trasversale cui riservare inclusione e opportunità.
Non è una sensazione ma una certezza invece, la lacuna rispetto alle riforme strutturali strettamente necessarie al successo stesso del Recovery Plan. È una lacuna che sappiamo essere ben chiara nella sua ampiezza sia a Draghi che al suo entourage: è quello della governance. E governance non significa solo e tanto vigilare che gli obiettivi siano raggiunti per distribuire i quattrini. Significa conservare la regia e i poteri sufficienti per far sì che quegli obiettivi siano realmente perseguiti.

Nel sociale – a noi qui quello interessa – ciò è particolarmente infido. Tentiamo di spiegarla facile e in poche righe. La legge quadro sull’assistenza (recte: sistema integrato di interventi e servizi sociali) risale al 2000. Norma risultante di una stagione di forti idealità, di condivisione, di confronti, la 328/2000 è verosimilmente la legge meno applicata alle nostre latitudini. Anche per una banale coincidenza storica: quasi contestualmente è stato riformato il Titolo V della Costituzione restituendo alle Regioni pressoché tutte le competenze in ambito sociale. Anziché generare mirabolanti effetti la pretesa sussidiarietà ha partorito 21 sistemi sociali regionali ed una profonda disparità territoriale, fortissime disequità allevate nell’assenza di livelli essenziali di assistenza sociale. E niente: con una punta di provocazione possiamo di che che forse l’unico “livello essenziale” reale è oggi l’indennità di accompagnamento, quella che eroga INPS per conto dello Stato.

Negli ultimi anni si è malamente tentato di metterci una toppa, usando i decreti di riparto di alcuni Fondi nazionali come leva a lungo braccio per imprimere un minimo di uniformità di trattamento almeno su alcuni aspetti (non autosufficienza, dopo di noi …). Ma le risorse sono troppo limitate per forzare cambiamenti radicali e strutturali nei territori. Per usare una immagine bucolica: se si gettano semi un terreno che oramai è ghiaioso, difficilmente germoglieranno. Lo stesso fenomeno che accade quando risorse arrivano in un territorio in cui i servizi sociali sono largamente assenti.
Nel sociale lo Stato non ha poteri sufficienti per governare, rendere omogenei servizi e politiche, eliminare odiose disparità territoriali (che la UE mal sopporta); deve quindi contrattare al ribasso le regole con le Regioni, tornare ai consueti decreti di riparto e incidere assai poco nei casi di latitanza.

E che c’entra il Recovery Plan? Ci si ritrova nella stessa situazione di governance monca e che le più mirabolanti intuizioni rimangano impaludate in antichi meccanismi.
A meno che… A meno che Mister Draghi, forte del consenso che per ora conserva, non tiri fuori un coniglio dal cilindro, modificando regole e norme che ci condizionano da parecchi lustri. Se ciò dovesse avvenire, ci auguriamo si inizi dal sociale.
(di Carlo Giacobini su vita.it)

Sesso e disabilità: come abbattere un tabù al quadrato

Troppo spesso le persone diversamente abili vengono automaticamente considerate «asessuate» e addirittura prive di normali pulsioni sessuali. Con il suo approccio trascinante e innovativo, la sessuologa Anna Castagna è diventata a questo riguardo una figura di spicco nel campo della divulgazione sex positive. L’abbiamo intervistata per capire il problema culturale ma, soprattutto, per diffondere soluzioni

Oggi in Italia il 5,2% della popolazione vive una qualche forma di disabilità. Si tratta di oltre tre milioni di persone che oltre alla loro condizione patiscono numerose difficoltà aggiuntive e ingiustificate. Dalle barriere architettoniche alla sottorappresentazione politica e mediatica, dalle discriminazioni sociali a quelle sessuali. Molto spesso una persona diversamente abile viene infatti automaticamente considerata «asessuata». A colpirla non è infatti solo il pregiudizio che gli unici partner desiderabili siano quelli che assomigliano ai protagonisti delle pubblicità; il nostro condizionamento culturale ci convince che non abbiano nemmeno pulsioni erotiche, desideri o fantasie sessuali che fanno invece parte della vita di qualsiasi essere umano.

Se a questo punto pensate però di sapere già tutto sull’argomento, a farvi cambiare idea sarà Anna Castagna. Sessuologa, modella fetish, una laurea in Scienze dell’Educazione, un’altra in Scienze e Tecniche Psicologiche e – come dice lei – «ah già: sono anche disabile». Il suo approccio trascinante e innovativo l’ha resa una figura di spicco nel campo della divulgazione sex positive. Invita a considerare il sesso un’avventura entusiasmante anziché un fardello da gestire nonostante tutto. Anziché concentrarci solo sul problema, l’abbiamo intervistata per parlare di soluzioni, che spesso sono più semplici di quel che si potrebbe immaginare.

La prima domanda è inevitabile: quanto è ancora tabù la sessualità delle persone disabili in Italia? C’è qualche differenza sostanziale dal resto d’Europa o del mondo?

«Pensiamo a quanto sia ancora un tabù la sessualità in generale in Italia e immaginiamoci quanto possa esserlo se intrecciata a un tema come quello della disabilità! Io direi: “tanto”. Legato a tutto ciò che vortica intorno al tema della sessualità c’è un grossissimo tabù tanto quanto verso il mondo della disabilità. Unire i due temi crea un vero e proprio “tabù al quadrato”, che per essere superato richiede un lavoro di “decostruzione al quadrato”. Escludendo quelle nazioni in cui il sesso rimane un argomento ancora tutto da sdoganare, l’Italia è ancora molto indietro rispetto, per esempio, a molti stati del nord Europa che si sono mossi e hanno attivato progetti per garantire a tutti il diritto alla sessualità».

La seconda è altrettanto obbligatoria: perché? Da cosa dipende questa situazione?

«Quando parlo di “tabù al quadrato” intendo che la disabilità viene considerata spesso e volentieri solo come condizione patologica, ossia una malattia che eclissa totalmente l’identità dell’individuo. Si tende a vedere la sedia a rotelle, la difficoltà cognitiva, la difficoltà motoria e non Luca, Sara e Andrea con le loro identità e le loro storie. La disabilità è tutt’altro: è una condizione che fa sicuramente parte della vita della persona ma non è la persona stessa – e ancor meno possiamo considerare la persona una patologia. Superato questo primo equivoco sul tema della disabilità, dobbiamo adottare una prospettiva bio-psico-sociale cominciando a osservare la persona come tale, con la sua storia, la sua identità e i suoi diritti.In questo modo possiamo imparare a decostruire e rompere tutti gli stereotipi legati al mondo della disabilità, fra cui: «al disabile non interessa il sesso», «le persone con disabilità mentale sono bambini privi di impulsi», «il disabile non è una persona in grado di svolgere attività sessuale»…

Si tratta di iniziare a pensare come alcune difficoltà possano incontrarsi con le esigenze e i desideri dell’individuo. Così come esistono stereotipi sul mondo della disabilità, ne esistono anche sul mondo della sessualità. Anch’essa andrebbe quindi colta in tutte le sue sfumature bio-psico-sociali, così da sganciarla da una visione puramente riproduttiva, penetrativa e genitale. Tutto questo preambolo era necessario per poter comprendere perché la mia risposta alla domanda sul perché è che questa situazione dipende da un errore di sguardo. Prima riusciremo a decostruire il concetto di disabilità e di sessualità che abbiamo in testa, e prima potremo offrire a tutti il diritto alla sessualità».

Anna Castagna
Ma proprio non esiste alcuna iniziativa istituzionale per sdoganare l’argomento?

«Per fortuna qualcosa c’è, come l’associazione Lovegiver che oltre a difendere il diritto alla sessualità per le persone disabili sta cercando di rendere legale anche in Italia la figura dell’assistente sessuale. Si tratta di una figura professionale molto equivocata, ma l’assistenza sessuale è un percorso che permette alla persona diversamente abile di vivere e sperimentare il proprio corpo, entrando in contatto con la propria vita intima, i propri limiti e il proprio orizzonte affettivo ed erotico in modo dignitoso e consapevole».

E dire che basta davvero poco per eliminare i pregiudizi… Mi viene in mente un suo workshop di un paio d’anni fa, basato su un semplice gioco. Le va di raccontarlo?

«Ma certo! Questo esercizio riguarda in particolare la disabilità fisica. Quando parlo di questo tema amo molto far parlare l’esperienza diretta sul proprio corpo, che credo sia il miglior modo di decostruire tutti i muri e le paure che ci portiamo dentro. In pratica chiedo ai partecipanti di pescare casualmente un biglietto su cui è indicato un limite fisico. Poi faccio loro ricreare quel limite – per esempio immobilizzando una parte del corpo o bendando gli occhi – e creo coppie di “disabili” alle quali chiedo di vivere un’esperienza sensoriale. L’obiettivo è sperimentare il limite e le possibilità del nuovo corpo, ma allo stesso tempo di ascoltare le paure e le emozioni che nascono.

Oltre a permettere loro di provare il concetto di limite, la cosa più importate è che possano sperimentare quello di possibilità, scontrandosi con paure, dubbi e perplessità. Infatti è proprio partendo da queste che si riconoscono i tabù, ed è proprio partendo dai dubbi che i tabù si possono sradicare. La sessualità non è un pacchetto consegnatoci come un abito prêt-à-porter. Si tratta più di un abito di sartoria che va cucito su misura dell’individuo, e ogni individuo può cucire il proprio».

Torniamo a parlare di sesso, escludendo il capitolo delle disabilità cognitive che inficiano il concetto di ‘consenso’ alla base di ogni sessualità sana. L’incontro con corpi fuori dagli standard, o con esigenze particolari, può essere oggettivamente difficile perché non si sa come gestirli – anche solo nel chiedere indicazioni al riguardo. Cosa suggerisce di fare per superare questo ostacolo?

«Ritengo che questa considerazione possa essere estesa a ciascuno di noi. Siamo tutti diversi, e come dicevamo prima la sessualità è un abito cucito su misura – quindi la sacrosanta risposta a questa domanda è: serve dialogo. Ascoltare l’altro ci aiuta a capire le sue reali esigenze o difficoltà senza proiettare ciò che noi “crediamo rispetto alla sua situazione”. Dialogo e ascolto sono alla base di ogni rapporto sano ed equilibrato».

L’altro lato della questione è rappresentato dalla “fame di affetto” di alcune persone disabili. Pur di essere considerate anche per il loro lato sessuale rischiano brutte ricadute emotive per avere abbassato troppo i loro criteri di consenso. Cosa pensa di questo fenomeno?

«Anche questo fenomeno deriva da un concetto di stereotipo interiorizzato che colpisce in egual modo persone “normodotate” e persone diversamente abili. La risposta a tutto questo è una formazione al sesso e all’affettività che comprenda tutti, e che insegni a considerare la sessualità e la vita di ogni individuo nella sua unicità e complessità. Il primo passo verso un futuro di uguaglianza e pari diritti consiste nel farsi domande come queste e decostruire gli stereotipi. Tutti».

(vanityfaire.it)

Disabilità e mobilità sostenibile: come sarà l’Italia del 2060

Il nostro Paese sarà meno affollato (55 milioni di abitanti rispetto ai 60 milioni attuali, -10%) e caratterizzato da un invecchiamento della popolazione (gli over 74 cresceranno del 70%). Sul fronte mobilità, oltre 2 milioni di persone con disabilità utilizzeranno regolarmente mezzi di trasporto e, di questi, uno su due sarà conducente d’auto


Nell’Italia più anziana e meno popolata del 2060, le persone con disabilità cresceranno del 25%. Sul fronte della mobilità, i soggetti con disabilità che utilizzeranno i mezzi di trasporto saranno 2 milioni, il 50% dei quali guiderà un’auto e non rinuncerà a essere conducente. In questo scenario e di fronte alla domanda su come i mezzi di trasporto pubblico locale potranno rispondere alle esigenze di questa popolazione, il diritto negato alla mobilità sostenibile per le persone con disabilità si aggraverà nel 2060 se l’Italia non sceglierà con decisione la via dello sviluppo sostenibile. È quanto emerge dalla ricerca “Il paradosso della mobilità”, realizzata da Fondazione Unipolis, in collaborazione con ANGLAT (Associazione Nazionale Guida Legislazioni Andicappati Trasporti), che, nella Settimana Europea della Mobilità 2020 e nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile di ASviS, mette a confronto l’Italia di oggi con quella del futuro.
I risultati del rapporto sono stati presentati nel corso di un evento, svoltosi oggi, da Marisa Parmigiani, Fondazione Unipolis, Fausto Sacchelli, Fondazione Unipolis, Roberto Romeo, ANGLAT, Sara Fulco, Angolazioni Rotonde, Marco Monesi, Città Metropolitana di Bologna. “La pubblicazione Il paradosso della mobilità affronta il tema di un diritto che è tra quelli fondamentali per le persone con disabilità: la mobilità personale – afferma Roberto Romeo, Presidente ANGLAT -. L’articolo 20 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con la Legge n.18/2009, ne definisce i criteri e gli ambiti ai quali gli Stati Parte devono conformarsi. Le prospettive di reale bisogno di mobilità nei prossimi anni, in relazione anche alle dinamiche di invecchiamento della popolazione e dunque non solo in rapporto alle disabilità motorie, devono renderci consapevoli sulla necessità di realizzare a livello di Paese e con il concorso di tutti i player pubblici e privati, politiche che favoriscano gli investimenti per realizzare interventi strutturali che pongano al centro e trasversalmente agli interventi di settore, la mobilità e l’accessibilità per le persone con disabilità. Progetti che sarebbe auspicabile integrare tra quelli da presentare, a breve, all’Europa”.
I dati che emergono dalla ricerca evidenziano che affrontare le problematiche della sostenibilità delle aree urbane è una componente fondamentale dell’intervento su un modello di sviluppo che si sta dimostrando non più percorribile – dichiara Marisa Parmigiani, Direttrice Fondazione Unipolis -. Una delle prime caratteristiche a rendere queste aree sostenibili è proprio il grado di accessibilità che le stesse sono in grado di offrire in primo luogo ai loro cittadini, ma altresì a tutti coloro che la città devono raggiungere. Accessibilità per i più fragili significa migliore accessibilità per tutti in tutte le fasi della propria vita, con una generale e complessiva miglior qualità della vita, riduzione dei fattori di stress e di condizioni in cui risorse/competenze e talenti possono essere impiegati al meglio. Non essere accessibile per una città significa condannarsi a non valorizzare tutte le opportunità, significa quindi essere meno attrattiva e così competitiva”.
Secondo la ricerca, tra 40 anni, l’Italia sarà meno popolata rispetto a quella attuale (poco più di 55 milioni di abitanti rispetto agli attuali 60 milioni, -10%) e caratterizzata da un invecchiamento della popolazione (gli over 74 cresceranno del 70%) e da un incremento del numero delle persone con disabilità (+25%, pari a quasi 4 milioni di unità). In particolare, aumenterà del 51% il numero delle persone con disabilità over 64 (da 2 a 3 milioni) e, fra queste gli over 74 passeranno da 1,5 a 2,5 milioni. Nel 2060 gli over 74 rappresenteranno il 64,1% della popolazione con disabilità rispetto all’attuale 47,6%.
Sul fronte della mobilità, oltre 2 milioni di persone con disabilità utilizzeranno regolarmente mezzi di trasporto e, di questi, uno su due sarà conducente d’auto. Nel confronto con il 2060, come evidenziato, sono gli over 64 in crescita e questo trend riguarderà anche il dato relativo all’uso dell’auto: la persona con disabilità, anche se over 64 e soprattutto se over 74, non rinuncerà a essere conducente. Infatti, su 1 milione di soggetti che la proiezione ci indica come conducenti d’auto, gli over 64 sono il 50,1% e, fra questi, il 29,2% ha oltre 74 anni. In particolare, si stima che si registrerà un incremento di 115.000 over 74 conducenti di auto.
Fra gli over 64, rispetto alla scelta dell’auto, l’uso del TPL urbano e del treno sarà inferiore rispettivamente del 45,3% e del 67,1%, così come l’uso del TPL extraurbano crolla del 78,6%. E se ci focalizziamo sugli over 74, rispetto all’uso dell’auto, l’uso del TPL urbano e del treno calerà rispettivamente del 32,8% e del 69%, per arrivare a un meno 77,9% nel caso dell’utilizzo del TPL extraurbano. In sintesi, l’età che avanza non impedirà di essere un conducente di auto rispetto alla scelta del trasporto pubblico.
In questo scenario, occorre riflettere su come i mezzi di trasporto pubblico potranno rispondere alle esigenze di questa popolazione, evolversi, e diventare un elemento costitutivo delle future comunità sostenibili. Strade connesse e intelligenti, auto a guida autonoma, e un ecosistema pubblico/privato, con un ruolo da guida della ricerca, rappresentano il modo per indirizzare lo sviluppo della mobilità verso un modello sostenibile che deve riguardare le comunità nel loro complesso.

(vita.it)

Minori con disabilità, Italia condannata da Corte europea per mancanza di adeguata assistenza. Sentenza

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’italia per mancanza di adeguata assistenza ai minori con disabilità. La violazione individuata dalla Corte è contenuta nell’articolo 14 dei diritti dell’Uomo contenente il divieto di discriminazione, nonché dell’articolo 2 del Protocollo Addizionale n. 1 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Diritto all’istruzione), rilevando il carattere discriminatorio dell’omessa assistenza.
Per la Corte, l’assistenza ha evidenziato le gravi conseguenze e i danni che la mancata assistenza evidenziata può causare in un minore, in particolare (per il caso trattato), nei primi anni di scuola primaria.

La sentenza è stata pubblicata dall’Associazione Luca Coscioni, dove si rintraccia anche una dichiarazione dalla presidente e avvocato Filomena Gallo, ““Proprio nei giorni in cui in Italia è vivo il dibattito legato alle lacune del sistema scolastico alla riapertura post lockdown, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con una importante sentenza, ha quindi segnato una tappa decisiva verso il rafforzamento dei diritti delle persone con disabilità nello scenario europeo ed internazionale. Un grazie a questa famiglia che ha deciso di chiedere l’affermazione di diritti fondamentali per la propria figlia e all’avvocato Marilisa D’Amico, che ha patrocinato la difesa del caso che  ha portato a questa importante decisione”.
Testo della sentenza
(orizzontescuola.it)

Strategia Europea per la Disabilità. A che punto è l’Italia nell’inclusione scolastica dei disabili?

Strategia Europea per la Disabilità rientra nel più ampio quadro di Europa 2020 “Misure a sostegno dell’occupazione, della produttività e della coesione sociale in Europa”.

Si tratta di un programma che prevede la coesione di tutti gli Stati membri dell’UE verso un unico, non semplice obiettivo: l’inclusione sociale delle persone disabili.
Questi ultimi, infatti, devono vedersi garantire benessere e il pieno esercizio dei propri diritti – in un’Europa senza barriere.

Le 8 aree d’intervento e la scuola

Nel 2010 la Commissione Europea, in tal senso, ha individuato 8 aree d’azione congiunta tra gli Stati membri dell’Unione Europea:
1- Accessibilità: perché le persone con disabilità possano fruire liberamente di beni, servizi e dispositivi di assistenza specifica per la propria patologia – oltre che dei trasporti, delle strutture e delle tecnologie a disposizione di tutti.
2- Partecipazione: l’inclusione passa innanzitutto per la partecipazione sociale e per l’esercizio della cittadinanza attiva. Ciò prevede che si rimuovano le barriere architettoniche che ostacolano la mobilità dei disabili.
3- Uguaglianza: che significa la promulgazione di leggi contro la discriminazione.

4- Occupazione: ovvero la creazione in tutti gli Stati membri di categorie protette volte ad incentivare l’occupazione delle persone disabili.

5- Istruzione e Formazione: gli studenti disabili necessitano di attenzioni in più, che si traducono in: accesso all’istruzione e alla formazione pubblica e privata, nonché misure di accompagnamento individuale durante il percorso di studio (anche all’Università). Infine, le persone con disabilità devono avere pari opportunità di accesso ai programmi di mobilità studentesca (come l’Erasmus).

6- Protezione Sociale: necessaria per contrastare la disparità di reddito, la povertà e l’esclusione sociale, tramite programmi di protezione sociale come quelli pensionistici.

7- Salute: accesso semplificato al sistema sanitario nazionale e sicurezza sul lavoro.

8- Azione esterna: che vuol dire finanziamenti verso i Paesi membri e istanze internazionali riguardanti le politiche pubbliche per la disabilità.

La situazione in Italia

Nonostante dal 2010 ad oggi ci siano stati netti miglioramenti e risultati tangibili con la Strategia europea per la disabilità, è indubbio che per molte persone disabili la situazione sia ancora difficile.

Per rendersene conto basta dare uno sguardo ai report disponibili, che purtroppo sono ancora pochissimi: ciò significa che, innanzitutto, la prima cosa che serve per migliorare è l’attenzione da parte di studiosi, sociologi e medici che possano effettivamente segnalare buone pratiche da seguire.

Gli studi condotti in questi ultimi 10 anni mostrano che, nel settore del lavoro, c’è un vasto divario (addirittura in crescita), tra il tasso di occupazione delle persone senza disabilità e quello delle persone con disabilità.

Ciò affonda le sue radici nella scuola: il tasso di abbandono scolastico delle persone con disabilità è esattamente il doppio di quello della popolazione generale.

Inoltre, è importante ricordare la disabilità è catalizzatore povertà.

A questo va aggiunto il quadro specifico di donne e bambini disabili, spesso oggetto di una discriminazione più forte rispetto a quella di cui sono vittime gli uomini.

Disabilità e dispersione scolastica

La discriminazione, purtroppo, parte anche dalla scuola. Probabilmente, infatti, i motivi per cui le persone disabili abbandonano precocemente la scuola vanno ricercati in aula.

È innegabile che, nonostante gli alunni delle generazioni odierne siano maggiormente abituati alla presenza di compagni con disabilità in classe, ciò non è abbastanza per frenare il fenomeno del bullismo nei loro confronti, che purtroppo ancora esiste.

Poi, non ci sono solamente problematiche relazionali tra pari: ciò che, per un disabile, l’andare a scuola una battaglia quotidiana è sicuramente la presenza di barriere architettoniche ancora vive in molti edifici scolastici, nonché le scelte didattiche (o relative ad attività para-scolastiche) che spesso non tengono in considerazione le esigenze degli alunni con disabilità.

La normativa auspicata

Per ovviare a queste problematiche, un rafforzamento della normativa europea è fondamentale: la nuova Commissione Europea dovrebbe rendersi garante dell’inserimento integrale, all’interno della Strategia sulla Disabilità 2020-2030, di quanto stabilito dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.

Dovrebbe inoltre attuare pienamente gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile presenti nell’Agenda ONU 2030, nonché i princìpi del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali (trascurati dalla Strategia 2010-2020).

(orizzontescuola.it)

​La convenzione Onu sulla disabilità? L’Italia non l’ha ancora digerita

La Commissione dell’Onu ha appena stilato le sue osservazioni sulla situazione italiana. Per Giampiero Griffo serve più concretezza, perché l’impatto della Convenzione Onu in Italia, a dieci anni dalla sua approvazione, è ancora troppo limitato. «A Firenze trasformiamo il programma d’azione in piano d’azione. Programma significa indicazioni generali, un piano invece contiene impegni precisi», afferma.

Pochi giorni fa il Committee on the Rights of Persons with Disabilities (CRPD), il comitato dell’Onu che monitora Paese per Paese l’attuazione della Convenzione Onu sulle persone con disabilità, ha pubblicato le sue osservazioni rispetto al report presentato dall’Italia (qui e in allegato il testo). Giampiero Griffo è stato membro della delegazione italiana ai tempi dei lavori per la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (accompagnò il governo italiano alla firma a New York) ed è uno dei rappresentanti del Forum Italiano sulla Disabilità, che nei mesi scorsi ha presentato al Comitato Onu lo Shadow Report sull’attuazione della Convenzione in Italia. A lui abbiamo chiesto un commento.

Che valutazione ha dato all’Italia il comitato dell’Onu?
Intanto non è una pagella né una valutazione: quello fra il Comitato Onu e l’Italia – e ogni altro Paese che ha scelto di ratificare la Convenzione Onu sui Diritti delle persone con disabilità – è un dialogo costruttivo. Purtroppo il problema è che l’Italia non si è presentata con questo spirito, ma con un atteggiamento difensivo che il comitato ha colto… Infatti le raccomandazioni per l’Italia sono particolarmente impegnative, basta confrontare il report con quello di un qualsiasi altro paese grande, paragonabile all’Italia: solitamente il Comitato resta sui temi generali, con l’Italia invece è entrato molto nel dettaglio. La cosa fondamentale è che l’approccio “diritti umani” è volontario, gli impegni che derivano dalla ratifica di una Convenzioni sui diritti sono volontariamente assunti dal Paese che la firma, dialogo costruttivo significa questo, lavorare insieme per un obiettivo, non pensare che il Comitato sia lì per dire se siamo bravi o no. Peraltro nella delegazione italiana non c’era nemmeno un politico, è segno di una sottovalutazione del tema.

 Purtroppo il problema è che l’Italia non si è presentata con questo spirito, ma con un atteggiamento difensivo che il comitato ha colto… Infatti le raccomandazioni per l’Italia sono particolarmente impegnative, basta confrontare il report con quello di un qualsiasi altro paese grande, paragonabile all’Italia: solitamente il Comitato resta sui temi generali, con l’Italia invece è entrato molto nel dettaglio.

Giampiero Griffo

Quali sono le azioni indicate dal Comitato quindi?

È difficile sintetizzare, sono almeno una quarantina! Ci sono due ordini di raccomandazioni, alcune addirittura da realizzare nel giro di dodici mesi: riguardano l’introduzione di una definizione di accomodamento ragionevole (significa che quando c’è una discriminazione dei diritti umani legata alla disabilità va immediatamente messo in atto una soluzione pratica per superarla, ndr) e l’avvio immediato di un meccanismo di monitoraggio indipendente per la raccolta di dati in particolare sui minori con disabilità fra gli 0 e i 5 anni. Si parla poi anche di un rapporto immediato sulla situazione delle istituzioni segreganti. Tutto il resto è un insieme di indicazioni che vanno nella direzione di dare risposte sui temi più disparati, dall’ accessibilità ai Lea e ai Liveas. Un elemento essenziale è la disparità di condizione tra territori, che deriva da una definizione di disabilità non uniforme e purtroppo non ancora derivante dalla Convenzione. La sostanza è questa: l’implementazione della Convenzione richiede politiche, che non ci sono. In questo periodo il Governo ha reso pubblico un programma d’azione per il prossimo biennio, ma non lo ha finanziato: le riforme non si fanno con i fichi secchi. E poi qual è peso che ha la popolazione con disabilità ha nelle politiche generali italiane? L’Istat 2013 dice che se usiamo gli standard internazionali il 25% della popolazione italiana convive con una qualche disabilità, anche lieve: la disabilità non è un piccolo target e soprattutto nel corso della vita riguarderà tutti – il bambino, l’anziano, chi ha un incidente – queste sono politiche generali, non settoriali o di nicchia… Nelle osservazioni del Comitato è sottolineato con forza come questo mainstreaming sistematico ancora in Italia non c’è, tutto si riduce a politiche sociali e sanitarie. Ad esempio si fa più volte riferimento ai Sustainable Development Goals, è un’altra delle coerenze politiche, siamo nell’ambito mainstreaming, è un altro approccio.

Nelle osservazioni del Comitato è sottolineato con forza come questo mainstreaming sistematico ancora in Italia non c’è, tutto si riduce ancora solo a politiche sociali e sanitarie.

Tutto questo come ricadrà nel programma d’azione che verrà discusso a Firenze la settimana prossima?

L’opinione del movimento delle persone con disabilità è che il nostro programma d’azione debba essere rivisto alla luce di queste osservazioni. L’Italia dovrà inviare il prossimo report entro l’11 maggio 2023, accorpando tre relazioni intermedie, però questi temi devono essere immediatamente inseriti e affrontati. La nostra richiesta peraltro è che si passi da un Programma a un Piano d’azione, perché programma significa indicazioni generali, un piano invece contiene impegni e si presuppone finanziamenti. Ad esempio il precedente programma d’azione aveva al suo interno un piano del MAE sulla cooperazione internazionale, è una linea che ha avuto molta concretezza, più di tante altre linee.

Quanto del primo programma d’azione è stato realizzato?
Siamo ancora ai temi generali. Si doveva fare una definizione nuova di disabilità, non è stata fatta. Sulla vita indipendente si è fatta una sperimentazione, è uno dei pochi punti su cui c’è stato un investimento, ma ancora non è stato definito cosa della speriemntazione diventa ordinario: questo però è fondamentale, l’indipendenza è il punto di partenza, implica un riformulare le politiche, che spesso non sono indirizzate alla vita indipendente ma alla protezione, all’assistenza a volte al parcheggio delle persone con disabilità. Sulla scuola si è parlato molto ma ad oggi è stato fatto troppo poco. Su lavoro anche, la disoccupazione fra persone con disabilità supera l’80 %, in questi anni abbiamo perso tantissimi posti di lavoro, la legge 68 se applicata potrebbe dare risposte al 6-7% degli attuali disabili disoccupati, ma non è applicata: non c’è coerenza, non c’è sostegno, non c’è monitoraggio degli inadempienti. Noi siamo un movimento propositivo: andiamo a Firenze chiedendo queste cose, che dalla discussione generale si entri nel merito, che il Governo prenda alcuni impegni che producano un miglioramento delle condizioni delle persone con disabilità.

La Convenzione Onu in Italia non è stata ancora digerita: né dal Governo, né dagli enti locali, né – me lo lasci dire – dal movimento stesso delle persone con disabilità.
Giampiero Griffo

Dieci anni dopo l’approvazione della Convenzione cosa è cambiato in Italia sulla disabilità?

La Convenzione Onu in Italia non è stata ancora digerita: né dal Governo, né dagli enti locali, né – me lo lasci dire – dal movimento stesso delle persone con disabilità. È il meccanismo, la logica, che è tutta diversa, si devono dare a tutti le stesse opportunità, invece siamo rimasti ancora nella logica delle risorse. Noi scegliemmo l’approccio dei diritti umani proprio perché i diritti umani sono immediatamente esigibili, gli altri sono condizionati alla disponibilità di risorse. Ecco, diciamo che l’impatto non è stato quello che ci auspicavamo.

(Vita)

Il primo Disability Pride ITALIA

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Nei giorni 8, 9 e 10 luglio, si terrà a Palermo quella che può essere considerata a buon diritto la più importante manifestazione che il mondo della disabilità unito abbia mai organizzato.
Scaturito dalla volontà degli organizzatori del Disability Pride newyorkese, avvenuto lo scorso luglio, insieme agli organizzatori dell’Handy Pride, che si è tenuto in provincia di Ragusa nel medesimo periodo, il Disability Pride sarà pertanto un’iniziativa internazionale che si svolgerà in contemporanea in Italia e negli Stati Uniti d’America. L’obiettivo è quello di rivendicare i 50 articoli della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, formalmente ottenuti ma in effetti mai applicati!
Il Disability Pride ITALIA, in ognuna delle tre giornate in programma, sarà articolato in due momenti: uno convegnistico, l’altro musicale. Questo perché è intenzione degli organizzatori coinvolgere all’iniziativa la città intera, quindi anche chi non è interessato alle Conferenze-Dibattito in programma, attenendosi così al principio cardine della Convenzione ONU, ovvero l’integrazione.
In occasione delle Conferenze-Dibattito verranno trattati diversi temi che riguardano il mondo della disabilità e saranno invitati gli organi istituzionali che si occupano delle materie in questione, poiché il Disability Pride vuole essere anche propositivo e intende dare degli opportuni suggerimenti su come affrontare determinate questioni.

Sono stato invitato a partecipare all’evento e a tenere un seminario/dibattito sul tema della Vita Indipendente e in particolare sull’Assistenza Domiciliare nei confronti delle persone affette da grave e gravissima disabilità. E’ mia intenzione fare il punto sulla situazione attuale rispetto alla Convenzione ONU per le persone con disabilità cercando di mettere in evidenza le buone pratiche che ancora non sono messe in atto nel rispettare la Convenzione stessa. Inoltre, porterò la mia esperienza personale in merito all’assistenza domiciliare, alla luce delle ultime iniziative che mi hanno visto protagonista sia per una petizione online che ho lanciato sull’assistenza in H24 sia in un servizio andato in onda su Striscia la Notizia dove ho denunciato lo stato di quasi abbandono in cui versano i cittadini siciliani con gravissima disabilità.

Il Disability Pride ITALIA si concluderà nel giorno in cui ci sarà il collegamento video con New York, momento al quale parteciperanno i sindaci delle due città e che sugellerà l’avvio di un’iniziativa destinata a ripetersi nel tempo e che dovrà coinvolgere progressivamente tutti i Paesi del mondo.

Inoltre il Disability Village, cioè l’aria dei Cantieri Culturali della Zisa in cui si terranno convegni e concerti, darà la possibilità di esporre sia alle associazioni che alle ditte specializzate nel semplificare la vita delle persone con disabilità.

Sul sito Internet www.disabilityprideitalia.org si trovano tutte le informazioni relative all’iniziativa, si possono visionare gli spazi che il Comune di Palermo ci ha messo gentilmente a disposizione e si ha l’opportunità di contattare gli organizzatori per aderire a quest’ambizioso progetto.
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Horus, tecnologia indossabile italiana in aiuto delle disabilità visive

Il dispositivo osserva la realtà, la comprende e la descrive alla persona. E’ in corso la campagna di crowdfunding per lanciare la fase di test

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La start up italiana Horus Technology sta realizzando un prototipo che consentirà presto ad oltre 300 milioni di persone non vedenti e ipovedenti di comprendere il mondo circostante grazie ad un assistente personale disponibile in qualunque luogo e momento. 

Appoggiato su una struttura a forma di archetto, compatibile con qualunque paio di occhiali, Horus osserva la realtà, la comprende e la descrive alla persona, fornendo informazioni utili al momento opportuno: potrà riconoscere volti, oggetti, leggere testi, individuare la presenza di ostacoli o segnaletica stradale, come le strisce pedonali. 

Il dispositivo si compone di due parti, la prima contenente i sensori visivi e di orientamento e la seconda che include la batteria e l’unità centrale di elaborazione da tenere sempre con sé in tasca o in borsetta. L’interazione dell’utente con Horus avviene tramite pulsanti o in modo vocale. Sfruttando la conduzione ossea, l’udito della persona non ne risulta penalizzato ed è possibile sentire il dispositivo anche in contesti rumorosi.  

La campagna di crowdfunding lanciata dai giovani sviluppatori di Horus – il CEO Saverio Murgia, il CTO Luca Nardelli e la Business Developer Benedetta Magri -ha l’obiettivo di raggiungere un minimo di 20.000 euro, che permetteranno di iniziare i test con potenziali utenti, in modo che lo sviluppo sia indirizzato sin da ora nella direzione corretta. È già stato superato l’80% del totale grazie al sostegno di numerose persone che hanno sposato il progetto e compreso le potenzialità della tecnologia.  

Anche personaggi noti stanno sostenendo la causa attraverso un’iniziativa digitale che li vede impegnati nello svolgimento della propria attività professionale con gli occhi bendati, tra questi lo chef Davide Oldani, l’ex capitano dell’Inter Javier Zanetti, la make up artist Alessandra Angeli, la coppia di pattinatori Valentina Marchei e Ondrej Hotarek, l’attrice Giorgia Surina che balla con Carlo Elli, il fumettista Leo Ortolani, il comico Maccio Capatonda, il pubblicitario Gianni Miraglia e altri. 
(lastampa.it)

di Giovanni Cupidi

Lavoro per i disabili: l’Ue condanna l’Italia

In Italia le opportunità lavorative e di integrazione per i disabili non sono molte nonostante a livello nazionale vi sia una legge specifica e l’Unione Europea preveda norme molto precise contro le discriminazioni. Da oggi a certificare l’inadempienza del nostro paese c’è anche la sentenza della Corte Europea di Giustizia che ha condannato l’Italia perché “è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente” le norme contro la discriminazione delle persone con disabilità ed in particolare l’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE che stabilisce “un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.”Alla sentenza della Corte di Giustizia si è arrivati dopo l’avvio nel 2006 di una procedura di infrazione della Commissione nei confronti dell’Italia perché inadempiente sulla corretta applicazione alle Direttive europee. La Commissione nei suoi giudizi sull’Italia hacontestato moltissimi punti della Legge 68/99, le procedure di applicazione della stessa e le norme adottate negli ultimi anni per adeguarsi alla legislazione europea. Pur ammettendo la legge italiana su alcuni aspetti offre “garanzie ed agevolazioni persino superiori” alla direttiva europea, la Commissione sostiene che questa obbliga solo una parte dei datori di lavoro ad assumere lavoratori svantaggiati e di conseguenza esclude una parte dei disabili dalle opportunità lavorative.Anche l’applicazione pratica della legge viene contestata perché l’adozione delle misure previste sarebbe affidata alle “autorità locali o alla conclusione di apposite convenzioni tra queste e i datori di lavoro e non conferirebbe quindi ai disabili diritti invocabili direttamente in giudizio”. In questo caso ad essere contestata è la complessa trafila che vede occuparsi della stessa materia Provincie, Regioni e Direzioni del lavoro senza una effettiva garanzia dei diritti sanciti e una reale possibilità di far varli valere giuridicamente.  Praticamente l’Europa fa notare all’Italia che seppure una legge c’è è difficile  applicarla e farla rispettare per i troppi passaggi burocratici fra gli enti pubblici.   
In definitiva il giudizio della Commissione Europea sulla Legge 68/99 è piuttosto duro perché sostiene che “il sistema italiano di promozione dell’integrazione lavorativa dei disabili è essenzialmente fondato su un insieme di incentivi, agevolazioni e iniziative a carico delle autorità pubbliche e riposa solo in minima parte su obblighi imposti ai datori di lavoro” mentre la normativa europea impone precisi obblighi e non solo incentivi. L’Italia nelle sue repliche, pur ammettendo delle lacune legislative, ha ribadito però che la Legge 68/99 garantisce “soluzioni in favore  dei disabili” e che alcune norme europee sono state interpretate in modo troppo restrittivo e in modo “difforme” dal testo.  Tali repliche tuttavia non hanno convinto la Corte di Giustizia Europea che ha invece confermato tutti i rilievi mossi dalla Commissione condannando l’Italia per non aver applicato in modo completo per tutti i datori di lavoro l’obbligo di assunzione dei disabili e garantire loro le giuste condizioni di lavoro. L’Italia, inoltre, essendo parte soccombente nel procedimento è stata condannata al pagamento delle spese legali. Di fatto tutti gli argomenti sollevati dalla Commissione e dalla Corte di Giustizia confermano  tutti i problemi le inadempienze che l’inchiesta Disoccupabili di Fainotizia ha documentato dando voce ai disabili stessi e che rendono sempre più urgente una nuova legislazione in materia. 
(fainotizia.it)

di Giovanni Cupidi