Come sta Alex Zanardi a 9 mesi dall’incidente in handbike

Come sta oggi Alex Zanardi a 9 mesi dal gravissimo incidente in handbike. Le ultime notizie che hanno raccontato i miglioramenti progressivi fatti nel percorso di riabilitazione dal campione bolognese, oggi 54enne. La regola dei cinque secondi lo ha aiutato ancora una volta: non ha mai mollato ed è rimasto in vita.

Il 19 giugno 2020, ore 17.05, è il giorno in cui la vita di Alex Zanardi è cambiata ancora una volta. Nel 2001 subì l’amputazione delle gambe e fu un miracolo; restò in vita con un litro di sangue in corpo per 50 minuti e dopo 15 interventi chirurgici. Nove mesi fa l’ex pilota di Formula 1, oggi 54enne, fu protagonista di un terribile incidente avvenuto lungo la Statale 146 del Comune di Pienza, sulla strada che conduce a San Quirico d’Orcia (in Toscana). Era sulla handbike quando, all’uscita di una curva, perse il controllo del mezzo e si schiantò contro un Tir che proveniva nella direzione opposta della carreggiata. Quell’evento dimostrativo, organizzato a scopo benefico, si trasformò in tragedia.

Zanardi aveva le ossa della faccia e del cranio fracassate e lesioni gravissime provocate dall’impatto. Rischiò di morire di nuovo, riuscì a salvarsi. La regola dei cinque secondi, quelli in cui credi di non farcela ma se resisti hai vinto (come lui stesso ama ripetere), lo aiutò anche allora. Non ha mai mollato ed è rimasto in vita. “Le Scotte” di Siena e “San Raffaele” di Milano gli ospedali nei quali è stato ricoverato a lungo, sottoposto a operazioni di neurochirurgia molto delicate e a cure specialistiche. Lo hanno salvato anche quando, a causa delle conseguenze del violento trauma, sembrava non fosse possibile scollinare il periodo di rianimazione intensiva. A Padova ha iniziato il percorso di riabilitazione fisica e cognitiva.

Come sta oggi l’iron-man bolognese lo ha raccontato la moglie, Daniela Manni, che assieme al figlio, Niccolò, gli è rimasta accanto in tutto questo tempo. Ha recuperato percezione sensoriale mostrando progressi, mosso il pollice, riconosciuto i suoi cari, stretto la mano alla consorte, riacquistato l’uso della parola comunicando anche verbalmente con la sua famiglia. Ha visto la luce in fondo al tunnel ma prima che ne esca servirà ancora del tempo: alti e bassi scandiscono ancora il cammino verso la piena guarigione.

Quale sia la forza che lo ha sostenuto nei periodi più bui è nella narrazione della sua vita fatta in un incontro con gli studenti delle scuole romane. L’uomo che sopravvisse due volte utilizzò un esempio molto semplice, veicolando un messaggio altrettanto efficace.

Se un fulmine mi ha colpito una volta, è possibile anche che lo faccia di nuovo. Ma restare a casa per evitare e scongiurare quest’ipotesi significherebbe smettere di vivere. Quindi no, io la vita me la prendo…“.

Uomo, sportivo, campione, esempio di vita. Forza Alex, non mollare. Mai.
(fanpage.it)

Chris, il “ragazzo di ferro” che spezza la disabilità

È il primo con la sindrome di Down a finire un Ironman: “È l’unico sport che non mi annoia…”

«Ed ora come festeggerai?» gli hanno chiesto. E Chris ha spiazzato tutti a cominciare da chi, tra dubbi e pregiudizi, mai avrebbe pensato che un giovanotto con la sindrome di Down sarebbe stato capace di arrivare alla fine di un Ironman, la sfida più dura che, per chi non è del mestiere, sono 3,8 chilometri di nuoto, 180 chilometri in bici e una 42 chilometri di corsa tutti insieme, tutti di un fiato, senza fermarsi.
Non c’era mai riuscito nessuno, lui sì: «E per festeggiare ho già scelto una discoteca e ci andrò appena mi sarà passato il dolore al sedere per e tante ore passate in bici – ha risposto al giornalista di Runners World che lo intervistava – Inviterò un po’ di ragazze bionde che fumano…». Un’altra storia a cui sicuramente ne seguirà un’altra e un’altra ancora, perché Chris Nikic non si fermerà qui. Ventun anni, nato e cresciuto in Florida, ad appena 5 mesi di vita subisce un intervento a cuore aperto e fino ai 3 anni è costretto a camminare con un deambulatore. Ma, con l’aiuto dei suoi genitori ce la fa, fa progressi ed è lo sport a sostenerlo nella sua crescita. A 9 anni entra nella squadra paralimpica americana come golfista e nel 2016, dopo essersi cimentato nel nuoto, nel basket e sulle piste di atletica, comincia a gareggiare nel triathlon «perché – racconta – è l’unico sport che non mi annoia». Ma ha un problema alle orecchie che complica non poco i suoi allenamenti in acqua e quindi finisce nuovamente in sala operatoria.
Tre interventi che lo tengono fermo per due anni e lo debilitano a tal punto che quando torna a fare sport, nel 2019, riesce a malapena a nuotare in una piscina e a correre i 100 metri. Di pedalare in bici neppure a parlarne: non riesce a salire in sella. Ma non si arrende. È abituato a lottare contro le difficoltà e contro le barriere che la vita pone da sempre sul suo cammino: «La cosa che mi ferisce di più è essere considerato uno stupido – racconta in una intervista su Usa TodayNon mi va quando mi considerano meno dei miei coetanei. E lo sport per me è fondamentale non come rivalsa ma perché mi ha permette di far qualcosa insieme agli altri, di far parte di una squadra, di uscire dall’isolamento…».

E allora il triathlon torna in cima ai suoi pensieri e alla sua vita. Quattro ore di allenamento al giorno per sei, sette giorni la settimana: fatica, sacrifici ma soprattutto tanta gioia. E tornano le gare. Sei triathlon sprint, uno su distanza olimpica e un mezzo Ironman ad agosto dell’anno scorso a Panama con il chiodo fisso in testa di diventare il primo ragazzo con sindrome di Down a concludere un Ironman completo. Sempre seguito dal suo fido allenatore Daniel Grieb: «Non gli importa di vincere – racconta -, si dà degli obiettivi cercando di ispirare persone che come lui sono nati con la sindrome di Down. Grazie al triathlon sta inconsciamente imparando a vivere in modo indipendente ed è incredibile se uno pensa che fino a qualche anno fa dipendeva completamente dalle persone che si occupano di lui. Sta imparando non solo a diventare un atleta migliore, ma anche un uomo migliore».
Sfide enormi entrambe. E pochi giorni fa, nel Golfo del Messico, in 16 ore, 46 minuti e 9 secondi questo ragazzo americano che sta diventando un simbolo per tanti suoi coetanei, ha portato a termine l’Ironman della Florida. Nessuno «sconto»; se fosse arrivato al traguardo solo 13 minuti dopo il risultato non sarebbe stato omologato. Ma sinceramente non sarebbe cambiato molto. Ora il sogno è partecipare alla finale del mondiale Ironman che ogni anno si svolge a Kona, e che è un Santo Graal per tutti i triatleti, figurarsi per lui. Ma in realtà il sogno è un altro, quello di suo padre, che racconta: «Mia figlia, Jacky, è un’atleta dotata e l’ho sempre trattata come dotata, mentre trattavo Chris come speciale. A volte speciale significa che non può fare qualcosa. Perciò non ho dato a lui le stesse possibilità che ho dato a sua sorella, ed era per proteggerlo. Ma due anni fa ho cominciato a trattarlo come dotato e pochi giorni fa ha finito un Ironman…».

Che per un genitore come Nick non è solo la soddisfazione di vedere un figlio che termina un’impresa straordinaria ma molto, molto, di più: «Quando hai un figlio con bisogni speciali – confessa – una delle cose a cui pensi spesso è se ce la farà quando non sarai più con lui come genitore. Ti chiedi se sarà in grado di prendersi cura di se stesso, di vivere senza di te. L’aver completato un Ironman è più del raggiungimento del traguardo, mi dice che andrà sempre bene anche quando io me ne sarò andato…».
(ilgiornale.it)