BrainControl: Intelligenza Artificiale al servizio della disabilità

BrainControl BCI è l’unico sofware brevettato che opera sulle onde cerebrali, traducendo i pensieri dei pazienti in comandi ed azioni sui dispositivi portatili.

Come stai?”, “Ti senti bene?”; semplici domande possono rappresentare per molte famiglie e caregiver una sfida difficilissima da vincere perché un loro famigliare è affetto da una malattia che impedisce qualsiasi tipo di movimento volontario. Parliamo di persone alle quali, nei casi più gravi, sono preclusi anche i movimenti residui di pupille, zigomo o dita. Sono i pazienti locked-in, imprigionati di fatto in un corpo completamente immobile ma dotati di capacità cognitive.

Con BrainControl BCI è da oggi possibile comunicare con l’esterno grazie al pensiero. Un Software e un caschetto EEG, unitamente a un training personalizzato, sono in grado di trasformare in comandi i pensieri del paziente, dando modo di rispondere a semplici domande e di comunicare. Una risposta di poche lettere che cambia la vita a tantissime persone.

BrainControl BCI è una soluzione avveniristica ideata da LiquidWeb, una PMI senese. Si prefigge di aiutare le persone con gravi disabilità, le loro famiglie e caregiver a migliorare la qualità di vita. Il tutto parte dalla convinzione che le persone sono più importanti della tecnologia e che, grazie a quest’ultima, è possibile aiutare chi è colpito da gravi patologie a riavere fiducia nella vita e una connessione con il mondo.

BrainControl BCI è un dispositivo medico CE di classe I brevettato in Italia. È in attesa di ottenere la stessa certificazione in altri Paesi EU, US, Canada, Giappone e Cina; ha vinto nel 2020 il Bando Horizon per la Ricerca e l’Innovazione dell’Unione Europea.
L’utilizzatore di BrainControl BCI è una persona con gravissime disabilità ma con abilità cognitive sufficientemente integre, persone quindi colpite da patologie quali tetraplegia, SLA, sclerosi multipla, distrofie muscolari e anche coloro che hanno subito danni cerebrali di origine ischemica o traumatica.

Il paziente impara ad usare il software e il caschetto EEG grazie a un training personalizzato perché ogni situazione è differente e le variabili talmente sensibili che richiedono necessariamente una personalizzazione 1to1.
Attualmente BrainControl BCI, oltre ad essere stato adottato da diversi pazienti privati, è in uso presso diverse strutture pubbliche, tra cui l’Ospedale San Jacopo di Pistoia, Asur Marche, Asl Lecce, ASST Melegnano.

BrainControl BCI fa parte di una gamma di dispositivi che comprende anche BrainControl Sensory e Avatar. Tre diverse soluzioni, compatibili con i differenti gradi di mobilità e interazione del paziente.
BrainControl Sensory è pensato per pazienti con movimenti residui volontari di qualsiasi parte del corpo (movimenti oculari, movimenti della mano, delle dita, dello zigomo, ecc.). Grazie a una serie di sensori, quali puntatori oculari, sensori di movimento, emulatori mouse, è possibile sfruttare i movimenti residui del paziente per creare un’interazione con il mondo esterno.

BrainControl Avatar è pensato per persone con difficoltà motorie, permette di visitare da remoto installazioni, musei, spazi espositivi ed eventi in genere. In maniera del tutto indipendente, è possibile comandare un alter ego robotico, regolando audio, video e altezza del campo visivo. L’esperienza sarà immersiva e reale, come se si stesse visitando di persona l’ambiente prescelto. Inoltre, il monitor e gli altoparlanti di cui è dotato l’avatar consentono di rendersi visibile a distanza, se lo si desidera, dando spazio a una personificazione dell’Avatar che permette alle persone intorno di interagire con esso, stabilendo una comunicazione nuova e vivace fra le persone in loco e la persona connessa.

Per info:
Ufficio Stampa
Alessia Borgonovo – Mob. 335.6492936
Roberta Riva – Mob. 346.8548236

Ferruccia, una casa domotica contro la disabilità


Elisa Mannelli: “Ci sono voluti 15 anni, ma ora posso essere più indipendente”. La visita dell’assessore Saccardi

«L’impianto domotico ha cambiato completamente la mia vita. Una grande conquista che mi ha reso indipendente e mi ha permesso di avere il pieno controllo della casa». Sono queste le parole di Elisa Mannelli, una ragazza di quasi trent’anni, che ha riscoperto la voglia di prendere in mano la propria vita e condividerla con le persone che le stanno accanto.

Quella di Elisa è una storia a lieto fine, nella quale determinazione e tenacia hanno vinto su tutto il resto. Si tratta della prima abitazione studiata appositamente per agevolare le persone disabili e renderle più indipendenti. È un impianto che consente di accendere e spengere la luce, il gas, aprire e chiudere le porte ed avere il totale controllo della propria abitazione, e tutto questo premendo un semplice pulsante e restando seduti. Una novità adottata proprio per facilitare la vita di persone disabili. «Abbiamo impiegato quindici lunghi anni per ottenere i permessi necessari alla realizzazione di tutto ciò – ha dichiarato Elisa – e grazie ai miei genitori ho lottato per poter migliorare il mio stile di vita. Adesso posso fare tantissime cose da sola, senza dover gravare sugli altri».

Elisa con i genitori e Saccardi all’esterno dell’abitazione (foto Gori)

E proprio grazie ai genitori di Elisa, con il contributo da parte della Regione, si è potuta concretizzare alla Ferruccia un’abitazione fornita di un impianto domotico, che potesse privilegiare la vita della ragazza, ma allo stesso tempo che fornisse un senso di speranza e di fiducia verso il futuro per le persone non del tutto autonome. Il Comune di Quarrata ha approvato il progetto all’unanimità dei consensi validamente espressi. Perfino l’assessore regionale Stefania Saccardi, in visita per la città, ha pensato mercoledì 10 agosto di recarsi a casa Mannelli per osservare l’originalità e la funzionalità dell’impianto. Elisa, grazie a quest’innovazione, ha potuto ridurre la richiesta di aiuti nei confronti degli altri, tuttavia ha avuto anche la possibilità di svolgere in quasi completa autonomia le mansioni quotidiane.

L’apparecchio ha un’utilità di non poco conto: ha efficacia soltanto a distanza ravvicinata. Per cui funziona soltanto nel caso in cui l’interessato si trovi all’interno della propria abitazione, oppure nei paraggi della casa per via degli impulsi che vengono regolarmente emanati. «Il mio augurio più sincero è che dopo la mia, tantissime altre case vengano attrezzate con un impianto del genere – conclude la ragazza – Non bisogna stare fermi a guardare, ma è opportuno cercare di costruire attorno a sé la possibilità di un futuro migliore. Io quest’opportunità l’ho avuta e spero che tantissime altre persone, in condizioni di disagio, possano usufruirne per poter agevolare il proprio stile di vita».

(Il Tirreno)

Pensare il disabile adulto

Per un soggetto con sindrome di Down, portare a spasso il cane, in una grande città – è un segno di forte autonomia, una sfida, una scommessa. Basta poco – una indecisione mentre attraversa la strada – per finire sotto un autobus in corsa – o mostrarsi insicuro – per essere avvicinato da sconosciuti, a volte male intenzionati, ed essere deriso, o diventare il bersaglio di giochi crudeli, o correre il rischio di essere derubato di qualsiasi cosa, del portafoglio, delle chiavi di casa, perfino del cane. Tuttavia Mario, un giovane Down accetta la scommessa e ogni giorno esce con il suo cane al guinzaglio, desideroso di andare incontro alla vita. Il giovane cammina barcollando leggermente mentre il cane tira dritto, sa benissimo dove andare, conosce a memoria la strada fino al giardino pubblico più vicino
Matteo è un ragazzo Down di 22 anni. Frequenta ancora le scuole superiori. È rimasto figlio unico da quando il fratello è scomparso in un incidente stradale. Da allora la madre ha riversato su di lui un amore esclusivo ed iperprotettivo. Matteo a scuola ha una autonomia di movimento pari a quella dei suoi compagni di classe, ama la compagnia, scherza e ride con i professori e i compagni, è sensibile al fascino femminile e si innamora facilmente, anche di donne più grandi di lui. Quest’anno ha seguito a scuola un programma di attività assistite dagli animali volto a sostenere l’autonomia delle persone con disabilità. Matteo ha familiarizzato subito con Eva, il cane di razza golden che era al centro delle attività: le accarezzava il mantello con delicatezza ed Eva ricambiava il piacere offrendosi a quelle carezze con totale fiducia. Pur capace di orientamento e di autonomia comportamentale, Matteo non esce mai da solo per strada – la madre lo accompagna ovunque – tuttavia potrebbe uscire per brevi tragitti accompagnato da un cane, se solo la madre riuscisse a vincere le proprie paure.
Giulia, una ragazza di 19 anni con un leggero ritardo cognitivo, dall’aspetto fragile e minuto – ad un primo sguardo sembra una delicata e graziosa bambina, anche se vestita e truccata in modo sbarazzino – esce da sola, di giorno, per andare a prendere la sorellina a scuola. La mamma le affida anche altri compiti da ragazza grande, come fare la spesa, badare alla sorelle più piccole, stirare, cucinare. Giulia ha conseguito quest’anno la maturità classica, e si prepara a seguire dei corsi professionali post diploma, probabilmente un corso di assistente all’infanzia. “Ho già delle competenze, ho fatto esperienza con le mie sorelle e i miei cuginetti – dice Giulia, alquanto serena sul suo futuro – voglio rendermi autonoma economicamente, voglio mantenermi da sola”. Durante gli anni di liceo la ragazza ha frequentato a scuola diversi laboratori (cucina, artigianale-artistico, musicale, scientifico, informatico, sportivo), partecipando a feste, gite, gare e spettacoli, brillando sempre per entusiasmo e voglia di fare, facendosi amare da tutti, acquisendo autostima e senso di autoefficacia. Ha anche usufruito di una borsa lavoro, e prima del termine degli studi ha seguito un tirocinio in un supermercato (sistemava la merce negli scaffali) vicino al luogo dove abita, in modo da essere autonoma anche nello spostamento verso la sede lavorativa. Non si arrende Giulia, non resterà chiusa in casa a fare la donnina di casa. Forse riuscirà anche a crearsi una famiglia propria, ad amare e a farsi amare in modo maturo e consapevole.
Anche Giusi Spagnolo, palermitana affetta da sindrome di Down, ha deciso di andare incontro alla vita. Il 21 marzo 2011, Giornata mondiale sulla Sindrome di Down, si è laureata in Beni demoetnoantropologici alla facoltà di Lettere dell’Università di Palermo, presentando una tesi sul ruolo del gioco nell’apprendimento. Giusi ha sempre cercato di evitare che etichette e definizioni le piombassero addosso come un macigno. «Io non sono Down, sono Giusi, Giusi Spagnolo», ripete sin da piccola a parenti ed amici. Una affermazione di identità che rifiuta la marginalità e si apre alla costruzione di un progetto di vita. A Giusi aver conseguito la laurea a 26 anni non basta: «Mi piace lavorare con i bambini – racconta – spero di poterlo fare sul serio».
È talora possibile al soggetto che vive una fragilità o una disabilità intellettiva non totalmente invalidante, organizzarsi attorno ai propri limiti per superarli, sviluppando un percorso di «resilienza» dovuto anche, ma non solo, alle sue caratteristiche personali. Si tratta di un percorso non semplice poiché i pregiudizi e gli stereotipi culturali e sociali hanno per un tempo lunghissimo rinviato alla persona in situazione di disabilità un’immagine negativa che – come sostiene Enrico Montobbio, esperto della relazione d’aiuto nel contesto della disabilità – l’hanno fatta sentire un soggetto in costante terapia e dunque necessitante di assistenza. La Pedagogia Speciale è in parte riuscita a scardinare tale concezione e a dimostrare che, se la persona è supportata da una rete di sostegno diffusa, se la fragilità non è vista come limite, mancanza o problema in quanto tale (modello medico della malattia da curare e modello pedagogico “antico” del bambino da educare) non vi sono limiti alle possibilità di emancipazione e realizzazione personale.
Il compito di coloro che accompagnano lo sviluppo di un soggetto con disabilità è eminentemente quello di favorire l’emergere di una soggettività autentica e dunque di far assumere alla persona interessata da disabilità capacità di autodeterminazione e orientamento nelle proprie scelte di vita.
Ma come sostenere l’emergere dell’identità della persona fragile? Lo sviluppo dell’identità è strettamente legato all’esperienza del riconoscimento, all’essere percepito e rispettato nella propria unicità. Il rispetto e il sostegno alla dignità della persona, in special modo della persona con fragilità, comporta in primo luogo il riconoscimento del suo sé e del suo bisogno di percepirsi capace di rispondere ad alcuni bisogni fondamentali.
“La creazione di un sé adulto rappresenta il presupposto indispensabile per poter vivere, relazionarsi e percepirsi come adulto, nella maggior misura possibile – scrive Silvia Maggiolini, ricercatore presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel saggio Pedagogia speciale oltre la scuola (a cura di Antonello Mura, Edizioni Franco Angeli, 2011) -. Si tratta tuttavia di un processo che non si sviluppa in un solo istante del ciclo vitale, quando si conclude l’iter scolastico e diviene necessario, come spesso accade, fare i conti sul destino del ragazzo, sul possibile inserimento lavorativo, quando le dinamiche dello sviluppo affettivo e sessuale richiedono la risoluzione di molte problematiche emergenti, oppure quando i genitori iniziano ad avvertire il proprio naturale declino, ed il venir meno della salute e della forza rende inevitabile il confronto con il presente ed il futuro della persona disabile. È evidente, invece, che il percorso deve iniziare sin dalle fasi di vita precedenti, dalla più giovane età del soggetto, sia in famiglia, sia, soprattutto, all’interno delle istituzioni deputate alla sua formazione, e chiamate a sostenerlo nella costruzione di una realistica immagine di sé, e nell’apprendimento graduale delle capacità necessarie per poter agire, il più possibile, da soli”.
Il punto di partenza è voler immaginare persone con disabilità come capaci anche di assumere un ruolo e un lavoro, di partecipare alla vita della collettività, di sentire di farne parte; a partire da qui si potranno sperimentare percorsi, trovando risorse nuove e insospettate.
(lastampa.it)

di Giovanni Cupidi