Il nostro Paese sarà meno affollato (55 milioni di abitanti rispetto ai 60 milioni attuali, -10%) e caratterizzato da un invecchiamento della popolazione (gli over 74 cresceranno del 70%). Sul fronte mobilità, oltre 2 milioni di persone con disabilità utilizzeranno regolarmente mezzi di trasporto e, di questi, uno su due sarà conducente d’auto
Nell’Italia più anziana e meno popolata del 2060, le persone con disabilità cresceranno del 25%. Sul fronte della mobilità, i soggetti con disabilità che utilizzeranno i mezzi di trasporto saranno 2 milioni, il 50% dei quali guiderà un’auto e non rinuncerà a essere conducente. In questo scenario e di fronte alla domanda su come i mezzi di trasporto pubblico locale potranno rispondere alle esigenze di questa popolazione, il diritto negato alla mobilità sostenibile per le persone con disabilità si aggraverà nel 2060 se l’Italia non sceglierà con decisione la via dello sviluppo sostenibile. È quanto emerge dalla ricerca “Il paradosso della mobilità”, realizzata da Fondazione Unipolis, in collaborazione con ANGLAT (Associazione Nazionale Guida Legislazioni Andicappati Trasporti), che, nella Settimana Europea della Mobilità 2020 e nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile di ASviS, mette a confronto l’Italia di oggi con quella del futuro.
I risultati del rapporto sono stati presentati nel corso di un evento, svoltosi oggi, da Marisa Parmigiani, Fondazione Unipolis, Fausto Sacchelli, Fondazione Unipolis, Roberto Romeo, ANGLAT, Sara Fulco, Angolazioni Rotonde, Marco Monesi, Città Metropolitana di Bologna. “La pubblicazione Il paradosso della mobilità affronta il tema di un diritto che è tra quelli fondamentali per le persone con disabilità: la mobilità personale – afferma Roberto Romeo, Presidente ANGLAT -. L’articolo 20 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con la Legge n.18/2009, ne definisce i criteri e gli ambiti ai quali gli Stati Parte devono conformarsi. Le prospettive di reale bisogno di mobilità nei prossimi anni, in relazione anche alle dinamiche di invecchiamento della popolazione e dunque non solo in rapporto alle disabilità motorie, devono renderci consapevoli sulla necessità di realizzare a livello di Paese e con il concorso di tutti i player pubblici e privati, politiche che favoriscano gli investimenti per realizzare interventi strutturali che pongano al centro e trasversalmente agli interventi di settore, la mobilità e l’accessibilità per le persone con disabilità. Progetti che sarebbe auspicabile integrare tra quelli da presentare, a breve, all’Europa”.
“I dati che emergono dalla ricerca evidenziano che affrontare le problematiche della sostenibilità delle aree urbane è una componente fondamentale dell’intervento su un modello di sviluppo che si sta dimostrando non più percorribile – dichiara Marisa Parmigiani, Direttrice Fondazione Unipolis -. Una delle prime caratteristiche a rendere queste aree sostenibili è proprio il grado di accessibilità che le stesse sono in grado di offrire in primo luogo ai loro cittadini, ma altresì a tutti coloro che la città devono raggiungere. Accessibilità per i più fragili significa migliore accessibilità per tutti in tutte le fasi della propria vita, con una generale e complessiva miglior qualità della vita, riduzione dei fattori di stress e di condizioni in cui risorse/competenze e talenti possono essere impiegati al meglio. Non essere accessibile per una città significa condannarsi a non valorizzare tutte le opportunità, significa quindi essere meno attrattiva e così competitiva”.
Secondo la ricerca, tra 40 anni, l’Italia sarà meno popolata rispetto a quella attuale (poco più di 55 milioni di abitanti rispetto agli attuali 60 milioni, -10%) e caratterizzata da un invecchiamento della popolazione (gli over 74 cresceranno del 70%) e da un incremento del numero delle persone con disabilità (+25%, pari a quasi 4 milioni di unità). In particolare, aumenterà del 51% il numero delle persone con disabilità over 64 (da 2 a 3 milioni) e, fra queste gli over 74 passeranno da 1,5 a 2,5 milioni. Nel 2060 gli over 74 rappresenteranno il 64,1% della popolazione con disabilità rispetto all’attuale 47,6%.
Sul fronte della mobilità, oltre 2 milioni di persone con disabilità utilizzeranno regolarmente mezzi di trasporto e, di questi, uno su due sarà conducente d’auto. Nel confronto con il 2060, come evidenziato, sono gli over 64 in crescita e questo trend riguarderà anche il dato relativo all’uso dell’auto: la persona con disabilità, anche se over 64 e soprattutto se over 74, non rinuncerà a essere conducente. Infatti, su 1 milione di soggetti che la proiezione ci indica come conducenti d’auto, gli over 64 sono il 50,1% e, fra questi, il 29,2% ha oltre 74 anni. In particolare, si stima che si registrerà un incremento di 115.000 over 74 conducenti di auto.
Fra gli over 64, rispetto alla scelta dell’auto, l’uso del TPL urbano e del treno sarà inferiore rispettivamente del 45,3% e del 67,1%, così come l’uso del TPL extraurbano crolla del 78,6%. E se ci focalizziamo sugli over 74, rispetto all’uso dell’auto, l’uso del TPL urbano e del treno calerà rispettivamente del 32,8% e del 69%, per arrivare a un meno 77,9% nel caso dell’utilizzo del TPL extraurbano. In sintesi, l’età che avanza non impedirà di essere un conducente di auto rispetto alla scelta del trasporto pubblico.
In questo scenario, occorre riflettere su come i mezzi di trasporto pubblico potranno rispondere alle esigenze di questa popolazione, evolversi, e diventare un elemento costitutivo delle future comunità sostenibili. Strade connesse e intelligenti, auto a guida autonoma, e un ecosistema pubblico/privato, con un ruolo da guida della ricerca, rappresentano il modo per indirizzare lo sviluppo della mobilità verso un modello sostenibile che deve riguardare le comunità nel loro complesso.
(vita.it)
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Nel 2047 record di disabilità tra gli europei over 65
Fra trent’anni, in Europa una donna su quattro e un uomo su sei nella popolazione di età superiore a 65 anni avrà una disabilità fisica tale da compromettere le attività quotidiane. Lo afferma un nuovo studio basato su dati epidemiologici europei, lanciando l’allarme sull’impatto di un’ampia popolazione anziana bisognosa di assistenza sui sistemi sanitari nazionali e privati
La popolazione europea sta invecchiando: negli ultimi decenni la longevità è aumentata continuamente mentre la natalità è costantemente diminuita o è rimasta ferma a valori bassi. In questa situazione, il numero di soggetti malati o in cattive condizioni di salute continuerà ad aumentare.
Una valutazione quantitativa precisa delle dimensioni del problema arriva da un nuovo studio pubblicato sulla rivista “BMJ Open” da Sergei Scherbov e Daniela Weber dell’International Institute for Applied Systems Analysis di Laxenburg, in Austria.
Gli autori hanno infatti stimato che nel 2047, nella popolazione degli over 65, una donna su quattro e un uomo su sei avrà una disabilità fisica tale da compromettere le sue attività quotidiane.
Percentualmente, non ci saranno grandi variazioni; a preoccupare è piuttosto il numero assoluto di questi anziani fragili, che aumenterà molto perché le persone di età superiore a 65 anni fra trent’anni saranno molte di più. Senza misure preventive efficaci, dunque, il fenomeno avrà un impatto enorme sui sistemi sanitari nazionali e privati di tutta Europa.
I risultati sono stati ottenuti sulla base di una analisi dei dati EU-SILC (Statistics on Income and Living Conditions) raccolti dall’Unione Europea ogni anno tra il 2008 e 2014 in 26 paesi del Vecchio Continente, messi a confronto con le proiezioni demografiche e di speranza di vita tra il 2015 e il 2050 delle Nazioni Unite.
Focalizzandosi sulla popolazione europea più anziana, i ricercatori hanno combinato i dati per calcolarne la speranza di vita in salute, un parametro epidemiologico che rende conto degli anni di vita non gravati da problemi sanitari invalidanti.
Hanno così calcolato la quota
di persone anziane la cui attività quotidiana potrebbe essere gravemente limitata, tenendo conto non solo delle differenze nell’assistenza sanitaria tra paese e paese, che hanno un’influenza significativa sul mantenimento dello stato di salute, ma anche delle differenze culturali.
Le indagini demoscopiche, infatti, sono state condotte mediante questionari diretti ai cittadini, e perciò sono influenzate dallo stato di salute percepito dalla popolazione anziana: tra gli svedesi solo una donna su 10 ha riferito di aver restrizioni nelle attività quotidiane contro una donna slovacca su tre.
Al di là delle differenze, secondo lo studio la percentuale di popolazione in cattive condizioni di salute sarà simile nei 26 paesi: nel 2047 il 21 per cento delle donne e il 17 per cento degli uomini oltre i 65 anni potrebbero avere forti restrizioni nelle attività quotidiane.
A risentirne di più saranno le donne, che vivono mediamente più degli uomini e quindi avranno una prevalenza maggiore di disabilità. Tuttavia, non sembrano esserci differenze di genere nel tasso con cui peggiora la salute dei cittadini.
Alla luce di queste cifre, concludono i ricercatori, occorrerà mettere in atto delle contromisure che consentano di ridurre l’impatto sociale delle disabilità degli anziani. Sarà necessario per esempio abbattere le barriere architettoniche e aumentare le risorse dedicate alla formazione di medici, infermieri e caregiver su questo specifico ambito dell’assistenza sanitaria.
(Le Scienze)
Internet of Everything alla prova della disabilità: il futuro è passato qui?
C’è un mondo in cui il futuro rischia di arretrare per paura di non sapere volare. E’ il mondo del multiaccesso e dell’ICT inclusivo, quelle che dalla fine degli anni ’90 ha fatto compiere alle persone con disabilità passi da gigante in termini di autonomia e performance professionali grazie ad assetti tecnologici che sempre di più hanno consentito di progettare in modo che le diverse abilità potessero trovare il proprio spazio di espressione, realizzazione, interazione digitale. Ora tutto questo è ancora in movimento ma rischia di restare un insieme di paradigmi e di possibilità dalle quali il futuro è passato e… si è fermato. Perché osare ancora può sembrare un sogno. Perché c’è poco investimento economico in ricerca in questo senso. Perché c’è un mercato che ancora non intravede negli 80 milioni di cittadini con disabilità in Europa e nei circa 5 milioni in Italia un target interessato e potenzialmente utente per quello che la tecnologia digitale delle reti va disegnando: l’Internet of Everything.Eppure, anni fa qualcuno ha osato sognare, fino a toccare limiti cyborg: qualcuno ricorderà lo statunitense su sedia a ruote che si fece impiantare dei microchip sottopelle per poter interagire con la propria casa che si affacciava ad un primissimo allestimento domotico: con un battito di mani o avvicinandosi a dei sensori, le luci si accendevano, le finestre si aprivano, le porte lasciavano passare. Sembrava che il senso del limite corporeo rappresentato dalla disabilità stesse smaterializzandosi dentro una corporeità digitale che si rendeva complementare e dialogante con la tecnologia ambientale. Ora l’ambiente è attraversato dalla Rete e Internet è in tutte le cose, una sorta di immanenza che ci farà camminare costantemente accanto – e dentro – le nostre nuvole: una fatta dei nostri profili personali, relazionali, con il nostro social networkche traccia le interazioni con le persone, gli eventi, le iniziative, il nostro profilo culturale e di consumatori; e l’altra (per ora ne intravediamo almeno due ma chissà!) che racchiude l’object network, abitata dai nostri oggetti quotidiani e dalle azioni che intratteniamo con loro e che pescano dalla prima che, a sua volta, dialoga con la seconda. …Una sorta di “fiera dell’est” in rete in cui ogni elemento chiama in causa l’altro.Ma proviamo a fare qualche esercizio di fantasia. Cosa c’è oggi che parla di domani? Nel 2012 Google Car si è presentata ponendo alla guida una persona con un residuo visivo del 10% e i video della macchina autoguidante hanno fatto il giro del mondo: un’automobile veicolata dalle reti GPS, dai sensori di prossimità, da una capacità di orientamento e aggiustamento delle traiettorie guidata appunto dai dati contenuti nella rete cui è interconnessa. Per quante persone ipovedenti anche gravi questa soluzione potrebbe realisticamente presentare un vantaggio? Si tratterebbe di un’autonomia finora mai conquistata, visto che i loro spostamenti – a maggior ragione quelli di una persona cieca – sono sempre vincolati ad un accompagnatore che è sempre più difficile scovare ed avere in modo continuativo e professionale. Per una persona con deficit visivo, la Google Car, o un veicolo basato e perfezionato sulle stesse potenzialità, potrebbe stare nella stessa cloud del bastone bianco, compagno ineludibile e “apripista” di chi, pur con una ridotta o inesistente capacità visiva, vuole tentare un po’ di autonomia: quel bastone è la prima cosa a sparire quando la si appoggia, sempre col rischio che cada o che qualcuno lo sposti o vi inciampi; potrebbe anche il bastone essere connesso ad uno smartphone e segnalare la propria ubicazione al suo proprietario? E una volta fatto questo, perché non pensare ad un passo ulteriore: localizzare il bastone e renderlo capace di restituire segnali di orientamento, così come ogni mappa digitale accessibile in mobilità fa indicando la strada a chi la consulta.In questo caso, “antenato” di una tale soluzione, che sarebbe ancora da ipotizzare, è stato il percorso contenente sottotraccia dei tag RFID capaci di interagire col bastone di una persona cieca (adeguatamente predisposto con un ricettore RFID), che così poteva in totale autonomia spostarsi lungo quel percorso. Il progetto era di IBM Italia, sviluppato con il Cattid della Sapienza di Roma, e si chiamava “Sesamonet” – SEcure and SAfe MObility NETwork. Era “solo” il 2009. Ma quel prototipo, pur commercializzabile, realmente utile e anche installato in alcuni spazi museali italiani, non è esploso poiché la tecnologia dei tag prevedeva dei costi di messa in posa ancora troppo alti a fronte di una tecnologia delicata che richiedeva la disponibilità ad investirci anche dotandosi di bastoni bianchi ad hoc da ospitare nei luoghi. La tecnologia connessa in rete è talmente pervasiva da farsi wearable. E’ un vantaggio per le persone con disabilità? La letteratura internazionale ha iniziato a intrattenersi con queste tematiche.taggati RFID. Ma ora la Rete è già “posata” e costantemente viaggiamo fra le nuvole e dunque gli smartphone potrebbero iniziare a dotarsi di un’accessibilità non solo ai contenuti che normalmente mediano, ma anche diventare essi stessi veicoli di accesso verso altri oggetti. Lo “smartwatch” ne è un esempio ma anche i “Google glass” che stanno cambiando la prospettiva dello sguardo attraendola verso una sorta di “porta dimensionale” esposta sulla soglia dell’ubiquità.L’Internet of Everything rivoluziona la sensorialità perché la rende compartecipe dell’ambiente e non solo via di accesso. Interagire con la propria casa, poter ricevere sul proprio smartphone o sul proprio smartwatch l’informazione – per alcuni scontata – delle luci o del gas acceso o spento èper una persona cieca, per fare un solo esempio, un vantaggio quotidiano. Per una persona sorda i Google glass che recepiscono ogni informazione d’ambiente arricchita di dati e geolocalizzata possono rappresentare un inaspettato potenziamento del canale visivo, loro linguaggio principale di accesso alla realtà che in questo modo non è solo aumentata, ma è “abitata” e partecipata con i propri dati e la propria personale interazione.Pensando ad una persona con disabilità motoria di diverso tipo, qualora usufruisse di una sedia a ruote potrebbe l’Internet of everything includere quel suo veicolo facendolo diventare uno degli oggetti con i quali essere connessi o una sorta di “consolle” di input-output relativa all’ambiente domestico, agli strumenti tecnologici da avviare e usare, agli elettrodomestici, alla mobilità avviabile con rapidità e autonomia, “handheld”. Nella mobilità accessibile la connessione in rete che rende accessibili le informazioni è fondamentale, specie se quelle info sono aggiornabili e interrogabili in modo profilato, personale, in autonomia. Così accade per “ACT!” (Accessibility City Tag) di IBM che fu il primo progetto pilota fra l’altro prototipato proprio in Italia nel 2009/2010 e che sempre prendendo a laboratorio la città di Nettuno dove è nato continua ad evolversi; ma anche “EasyWay” di Vodafone Italia che si arricchisce della dimensione social con una piattaforma collaborativa fra gli utenti. C’è poi spazio anche per app “artigianali” che sfruttano la rete per fornire informazioni a portata di mano, di occhio, di orecchio…E nell’ambito della cosiddetta “eHealth” le applicazioni si aprono allo spazio della cura a distanza e della vita indipendente consentendo un dialogo costante anche dei parametri vitali con smarthpone e quant’altro un “presidio medico” in casa potrebbe prevedere.Internet dentro e nelle cose le rende interrogabili, attivabili, controllabili e gestibili a distanza. Di certo il paradigma può sprigionare promosse ma occorre che la progettazione nel campo delle tecnologie abilitanti, di quelle assistive e degli ausili informatici e di comunicazione si riscopra capace di tornare a pensare un futuro che già una volta è passato anche dalle strade della disabilità: come è stato per la sintesi vocale, il voice over, il touch, la domotica. Come è stato per la “brain computer interaction” che già da anni vede proprio negli utenti con severa disabilità motoria gli sperimentatori più predisposti a testarne le possibilità futuristiche.E ritrovata la voglia di crederci, la testardaggine di investirci, occorre che la progettazione conquisti il mercato e i suoi potenziali clienti con un internet – accessible – for everything.C’è un detto da sempre rivolto a un sognatore: “Cammini con la testa fra le nuvole”… ora è più che mai vero.Rosanna ConsoloGiornalista pubblicista e Dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione con un progetto sulla “Cultura accessibile”, dal 2011 al 2013 è stata assegnista di ricerca nel Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (CoRiS) della Sapienza Università di Roma per un progetto sulla e-Inclusion nel lavoro delle persone con disabilità finanziato dall’Istituto Superiore di Comunicazione e Tecnologie dell’Infromazione (Iscom) del MISE.Da oltre un decennio svolge ricerca sulle opportunità offerte dall’ICT nel promuovere e realizzare l’inclusione e la partecipazione delle persone con disabilità. Ha lavorato nella Fondazione ASPHI Onlus di Bologna occupandosi di integrazione dei disabili tramite assistive technologies. Nel 2013 ha promosso la seconda edizione del seminario “Inclusione digitale. Promotori di accessibilità” realizzato nel Dipartimento CoRiS insieme con IBM Italia. E’ cultore della materia nella cattedra di “Tecnologie per la disabilità” presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università LUMSA di Roma.Ha scritto numerosi articoli e saggi sul tema tra cui“Sciences for Inclusion. Cultural approach to disability towards the Society for all” e “Oltre il senso del limite” di Bonanno Editore.
(techeconomy.it)
di Giovanni Cupidi