La diversità e la disabilità nelle scatole dei GIOCATTOLi

Giocare è una cosa seria, una delle attività più serie che esistano. È attraverso il gioco che i cuccioli di ogni specie, quella umana compresa, imparano il mestiere della vita, e per questa ragione anche i grandi, ogni tanto, avrebbero bisogno di riaprire la scatola dei giocattoli per qualche “ripetizione”.

Non immaginiamo però il gioco soltanto come un oggetto che si tiene tra le mani; quando incontra la disabilità, infatti, può assumere forme inaspettate, trasformarsi in occasione di inclusione, fare educazione e riabilitazione, addirittura aiuta a superare le barriere architettoniche.

Bambole con disabilità

Le donne con disabilità sono state bambine e hanno giocato con le bambole, come ogni altra bimba. Lo ricordo bene anch’io, i giochi prediletti si dividevano in tre categorie: le bambole-neonato, da accudire come fossimo piccole mamme; le bambole “coetanee”, somiglianti a noi, con cui inventare avventure; la Barbie con il suo guardaroba infinito, il fidanzato, la casa, la macchina, il camper e chi più ne ha più ne metta, per giocare ad essere grandi. Nessuna bambola aveva una disabilità evidente che ne cambiasse l’aspetto e la rendesse in qualche maniera “diversa”. Le piccole disabili del XXI secolo, invece, hanno l’opportunità di giocare con bambole che presentano diverse forme di disabilità.

L’idea è venuta per la prima volta nel 2015 a tre mamme inglesi (tra le quali una giornalista non udente e ipovedente dalla nascita), per rispondere ai bisogni dei loro figli e di tutti i bimbi con disabilità. Hanno aperto un gruppo Facebook e dato il via ad una campagna denominata ToyLikeMe, letteralmente “un giocattolo come me”. 

Il messaggio di integrazione e sensibilizzazione è diventato virale, i genitori di bambini con disabilità hanno ampiamente condiviso l’iniziativa, raggiungendo un pubblico di 50.000 persone. Grazie alla notorietà raggiunta, il progetto è diventato realtà. È stata l’azienda britannica MakieLab, già nota per le bambole personalizzabili, ad accettare la sfida e a mettere sul mercato tre bamboline “like me” realizzate mediante la stampa 3D, Melissa, con una voglia sul volto, Eva, che si muove con un bastone da passeggio ed Hetty, con un apparecchio acustico che indica “ti amo” nella Lingua dei Segni.

Al prezzo di 69 sterline (circa 75 euro, non esattamente un prezzo popolare), le Makie Dolls sono progettate su misura per il loro proprietario, con l’azienda che prevede la possibilità di richiedere ai genitori le caratteristiche facciali dei bambini, in modo tale che le bambole possano assomigliare ai loro figli. Oggi sul loro sito si trovano indirizzi di diverse aziende che producono bambolotti e peluche sulla sedia a rotelle, con cicatrici, protesi eccetera.

Negli Stati Uniti, per la non modica cifra di 100 dollari, si può acquistare una bambola realizzata a mano che rappresenta le stesse disabilità delle bambine a cui è destinata. Anche in questo caso l’iniziativa è partita da una mamma che ha promosso la campagna di fundraising A Doll Like Me.

E c’è cascata anche la Barbie: la sua dimora superlusso, infatti, non era accessibile e la sua amica Becky, in sedia a rotelle, non passava dalle porte e non poteva salire sulla macchina! È realmente accaduto nel 1997, con la Mattel, casa produttrice della bambola più famosa del mondo, che ha commercializzato la sua compagna di avventure in carrozzina e soltanto in seguito si è accorta che non poteva entrare in casa e a bordo dell’auto. Una buona intenzione finita in un flop, come nella vita vera, se è vero che anche nell’immaginario mondo di Barbie l’accessibilità è spesso difficile da raggiungere.

Accusato di spingere le bambine verso stereotipi di bellezza irraggiungibile, nel 2016 il colosso dei giocattoli ha lanciato la linea Fashionistas con quattro tipi di bambole dalla diversa silhouette, dalla più magra alla più in carne, sette tonalità di carnagione, ventidue colori degli occhi e ventiquattro acconciature differenti.

Nel giugno del 2019, quindi, sono state messe in vendita due Barbie con disabilità, una seduta sulla sedia a rotelle disponibile in due versioni, classica bionda oppure di colore, l’altra con i capelli scuri, grandi orecchini dorati e una protesi alla gamba. Il prezzo, circa 20 dollari la prima e 10 la seconda, ha l’ambizione di raggiungere una platea vasta, anche se lo slogan che le accompagna, («Puoi essere tutto ciò che desideri»), è realistico fino a un certo punto, visto che le Barbie con disabilità hanno la vita da vespa e il viso supertruccato, nella più classica tradizione della bambola Mattel.

Come dire, se sei sulla sedia a rotelle ma con qualche chilo di troppo e in versione acqua e sapone “vai un po’ meno bene”.
La nostra Giusy Versace ha disegnato, invece, una Barbie con le gambe tempestate di cristalli Swarovski, protesi gioiello da cambiare al posto delle scarpe.

Dino Island, quando un videogioco diventa riabilitazione

Le mamme devono staccare la spina dal muro per obbligare i loro pargoli ad allontanarsi dai videogiochi. Eppure, come ogni cosa, anche questi moderni prodotti dell’industria ludica non sono “cattivi” in assoluto, bisogna solo usarli nel modo giusto. Numerosi studi ne attestano l’efficacia terapeutica per patologie e disabilità in pazienti giovanissimi, in particolare nei disturbi dello sviluppo neurologico e nelle lesioni cerebrali.
La ricerca più recente è proprio di quest’anno e arriva dall’Università di Victoria, in Canada, dove è in fase di sperimentazione, su trentacinque famiglie, Dino Island, un videogioco ambientato su un’isola fantastica sulla quale si devono affrontare sfide di difficoltà progressiva.

Si parte da una constatazione elementare: se un gioco risulta interessante, non può che generare positivi cambiamenti. Dino Island comprende cinque giochi che si adattano alle performance personali del bambino, pertanto ogni livello completato regala bonus da “spendere” virtualmente per acquistare oggetti necessari nella prosecuzione dell’avventura. Il team di ricercatori ha progettato un’esperienza non troppo difficile, ma neanche troppo semplice, per non incorrere in frustrazione o perdita di interesse. I risultati preliminari sono molto incoraggianti: sono migliorati la concentrazione, la memoria, la capacità di trattenere le informazioni, il controllo delle emozioni e, in alcuni casi, ne ha beneficiato perfino il rendimento scolastico. Il videogioco è studiato per essere vissuto in compagnia di un adulto, presto si spera di coinvolgere anche bambini con disturbi dello spettro autistico e deficit dell’attenzione.

…e con i LEGO si superano le barriere architettoniche

L’inclusione si costruisce mattone dopo mattone. Anzi, mattoncino dopo mattoncino, per essere precisi con i mattoncini più divertenti e noti, quelli della LEGO. Inventati per giocare con la fantasia, sono diventati perfino materiale da costruzione per rampe utili al superamento delle barriere architettoniche, ma cominciamo dal principio.
Le mamme di ToyLikeMe si sono rivolte ai vertici dell’azienda, chiedendo maggiore attenzione verso la disabilità attraverso una petizione online sul sito Change.org che ha raccolto oltre 20.000 firme. Accolto l’appello, nell’estate del 2015 la linea Duplo ha sfornato venti nuovi omini, tra cui un anziano signore in sedia a rotelle spinto da una ragazza.

Accusata di essere caduta nello stereotipo del disabile non autosufficiente e sempre bisognoso di essere accompagnato (che comunque nella realtà esiste, quindi perché non dovrebbe trovare una rappresentazione?), l’anno successivo il gruppo LEGO ha presentato il set Fun at the Park, destinato ai bambini dai 5 ai 12 anni, con un giovane in carrozzina senza “badante” e un bimbo anch’esso sulla sedia a rotelle.

Fin qui restiamo nell’àmbito del gioco vero e proprio, però, con questo particolare gioco, l’inclusione è uscita dal mondo in miniatura della scatola di mattoncini ed è approdata in città, per abbattere le barriere in modo creativo e colorato. Merito di una simpatica signora tedesca in sedia a rotelle, Rita Ebel, che ha assemblato rampe mobili con LEGO e colla vinilica. I suoi scivoli, oltre ad avere il pregio di approcciarsi alla disabilità in modo leggero e divertente, sono pratici e possono essere facilmente spostati da un negozio a un ristorante, da un ufficio a un marciapiede troppo alto.

Sono di diverse dimensioni, adattabili a spazi differenti, ognuno corredato da una scheda tecnica di realizzazione. Schede che sono arrivate in Italia, alla Cooperativa veneta L’Iride che, incuriosita dall’invenzione, ha contattato Rita, trovandola subito disponibile a collaborare per esportare la sua idea. È così che in punti strategici di Padova e dei centri limitrofi Selvazzano Dentro e Saccolongo, le città dove opera la Cooperativa, sono stati posizionati dei contenitori per raccogliere mattoncini donati dai cittadini. Con il passaparola, in pochi giorni, ne sono arrivati a sufficienza per costruire le prime rampe.

Una quindicina di persone con disabilità che frequentano Iridarte, il laboratorio della Cooperativa, si sono messe all’opera con entusiasmo e tanta voglia di fare, suddivise in gruppi di cinque per rispettare le regole di contrasto al contagio. Numerosi negozi si sono fatti avanti, sia per contribuire alla raccolta, ospitando un contenitore, sia per dotarsi di una rampa LEGO; il Comune di Selvazzano Dentro vorrebbe contribuire, idem quello di Verona. Chissà in Danimarca, nella casa madre dei mattoncini, quanti pezzi verranno scartati perché fallati e non adatti al commercio…

Questo hanno pensato in Cooperativa, e detto fatto hanno chiesto alla LEGO di mandarli in Italia, per dare ulteriore spinta all’iniziativa e una seconda vita a giocattoli altrimenti da buttare. Se l’industria accetterà, potremo vedere le nostre città “colonizzate” dai colori dell’infanzia, senza dimenticare che la priorità è abbattere le barriere con il metodo classico e costruire rispettando le normative dell’accessibilità.

L’identificazione del bambino con i suoi giochi e la pubblicità connessa è stata analizzata da uno studio di COFACE Families Europe che nel 2015 ha sfogliato trentadue cataloghi di giocattoli di nove Paesi europei, Italia compresa, trovandovi “raffigurati” 3.125 bambini, dei quali 2.908 con la pelle bianca, 120 di colore, 59 di famiglie “miste”, 31 asiatici e 7 mediorientali, nessuno con disabilità visibili.
Forse sono troppo “vecchia” per esprimere un’opinione su queste iniziative, ma non staremo esagerando con il “politicamente corretto” e perdendo di vista il nocciolo della questione? Se ripenso alla mia infanzia, non ricordo di aver mai sentito la necessità di tenere tra le mani un “fac-simile” di me, seduto sulla sedia a rotelle, ero perfettamente a mio agio con i bambolotti in commercio. Certo, è giustissimo che i giocattoli rappresentino la diversità delle persone, sia essa costituita dal colore della pelle, sia dalle caratteristiche fisiche.

Maneggiando sempre giochi “perfetti”, in una società che ha fatto dell’esteriorità il suo mantra, se non adeguatamente supportati, i bambini rischiano di diventare adulti considerando la perfezione, anche fisica, come unico modello a cui aspirare. E tuttavia, nel caso specifico ad esempio delle bambole con disabilità, c’è il rischio che diventino un prodotto di nicchia, capace di raggiungere soltanto chi ha già una particolare sensibilità verso il tema dell’inclusione, mentre bisognerebbe lavorare perché diventassero utili compagne di crescita anche e forse ancor di più per le bimbe senza disabilità.

Non possiamo delegare ai giocattoli queste tematiche e il cambiamento della cultura, non basta dare un gioco inclusivo e pretendere che i bambini capiscano da soli l’importanza di eliminare i pregiudizi; non vanno mai dimenticati, infatti, il ruolo della famiglia, dell’esempio quotidiano e della società tutta.
Facciamo un esempio banale: se un genitore parcheggia sistematicamente l’auto nel posto riservato alle persone con disabilità senza averne diritto e dopo regala la Barbie in sedia a rotelle o il LEGO con l’omino disabile ai suoi figli, pensate sia sufficiente per educare alla diversità?

(superabile.it)

Disabilità: rappresentarla in un’industria della moda migliore e più inclusiva

La scrittrice Madison Lawson, nata con una forma rara di distrofia muscolare e in sedia a rotelle sin dalla nascita, spiega come mai sia così importante che le persone con disabilità godano di una miglior rappresentazione sulle riviste di moda, nelle campagne pubblicitarie e in passerella

Moda e disabilità

Ho partecipato per la prima volta alla New York Fashion Week nel 2017. Non appena sono arrivata nella ‘città che non dorme mai’, mi sono resa immediatamente conto del perché la gente la chiami così: quando hai a che fare con barriere architettoniche ovunque, non puoi letteralmente appisolarti un attimo. Mi sono spostata da sfilata a sfilata per ritrovarmi, ogni volta, a incontrare persone all’ingresso che non avevano alcuna nozione di come far accedere all’edificio una persona in sedia a rotelle come me. A un certo punto, la mia assistente personale ha dovuto prendermi in spalla e trascinarsi dietro la mia sedia a rotelle. Che dire, non era di certo il tipo di ingresso che avevo sognato ma mi fece pensare: in un settore che celebra la diversità, come mai non c’erano altre persone come me ai vari eventi?

Sono nata con una forma rara di distrofia muscolare che causa una perdita progressiva della muscolatura in tutto il corpo e, in alcuni casi, persino il collasso di uno o entrambi i polmoni. La moda e il beauty sono da sempre una fonte di gioia e pace per me. Trovo la mia dimensione di normalità nelle stampe più vivaci o in un rossetto particolarmente accesso che mi permettono di distinguermi dagli altri e sentirmi davvero vista e non diventare un oggetto di studio sotto gli sguardi fissi delle gente. Questo perché, anche quando noto che inizialmente l’attenzione di qualcuno cade sulla mia sedia a rotelle, io non distolgo lo sguardo ma lo mantengo finché anche quello dell’altro si è spostato altrove – sul mio stile per esempio. Ma, come accade per tante altre persone con disabilità, in fatto di rappresentazione nel settore moda e beauty, mi sento spesso esclusa.

© Courtesy of Madison Lawson
Il potere della rappresentazione

Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il 15% della popolazione mondiale convive con una qualche forma di disabilità, il che rappresenta la più grande minoranza al mondo. Non solo. Si tratta anche della sola minoranza a cui chiunque potrebbe potenzialmente far parte in un certo momento della propria vita. Eppure, quando si tratta di raccontare le nostre storie, diventiamo degli stereotipi oppure siamo completamente esclusi dal dibattito.

Judy Heumann – attivista dei diritti dei disabili nonché un vero idolo per me – lo attribuisce alla nozione distorta per cui le persone con disabilità non siano, in qualche modo, in grado di vivere una vita piena. “La gente non ci vede come membri alla pari all’interno delle loro comunità; questo nelle scuole, nelle moschee, nelle chiese, nelle sinagoghe, nei centri sociali e, in generale ovunque”, afferma Heumann. “Ci guardano e pensano ‘Come potrei vivere la mia vita in quelle condizioni? ’” E questo è esattamente il motivo per cui una rappresentazione autentica è così necessaria.

Ma la questione moda e disabilità è ben più ampia e complessa. Da bambini, l’immagine della bellezza che ci creiamo si basa su ciò che la società ritiene bello. Cosa succede quindi quando il bello e il desiderabile non ha mai il tuo aspetto? Tanto per cominciare, la cosa ha un effetto deleterio sulla tua autostima e, a volte, diventa incredibilmente difficile accettare il proprio corpo.
Lo sa bene bene Bri Scalesse, di professione modella, diventata paraplegica all’età di sei anni in seguito ad un incidente stradale che le ha causato lesioni al midollo spinale. “Da bambina desideravo tantissimo vedermi riflessa in quelle immagini”, racconta a Vogue. “Ma non ritrovavo mai il mio corpo o la mia sedia a rotelle rappresentate in TV o nelle riviste. Non c’erano attrici o modelle disabili. E nemmeno nessuna principessa disabile”.

Social media & body positivity

Negli ultimi anni le cose hanno iniziato a cambiare. I social media sono uno strumento attraverso cui le persone con disabilità sono finalmente in grado di esercitare il controllo su come vengono viste. Inoltre, le richieste di una maggior diversità in tutti i settori e la crescita del movimento della body positivity hanno reso possibile celebrare la bellezza in tutte le sue forme. Di conseguenza, ora vediamo persone con disabilità in passerella, sulla copertina delle riviste e nelle campagne pubblicitarie di abbigliamento o beauty. La tanto attesa rappresentazione sta, lentamente ma inesorabilmente, abbattendo lo stigma storicamente legato alla disabilità. Ma il percorso non è stato né semplice né immediato.

Nel 2017, mentre osservavo i corpi sulle passerelle – ma anche lontano da queste – c’era solo un individuo che mi assomigliava: la modella Jillian Mercado. Mercado è la prima persona da cui mi sono sentita davvero rappresentata in quanto è affetta da una forma di distrofia muscolare e utilizza la sedia a rotelle per muoversi. Proprio come me.

Crescendo Mercado si è sentita emarginata da standard di bellezza all’insegna dell’abilismo. Ha deciso quindi di sfidarli dall’interno studiando marketing al Fashion Institute of Technology di New York per poi fare uno stage nella redazione di Allure. Dopo aver fatto la modella per diversi progetti di moda di amici, nel 2014 ottiene un contratto con Diesel per una campagna pubblicitaria. L’anno successivo viene scritturata dall’agenzia di modelle IMG e, da allora, è apparsa in campagne per il merchandise Formation di Beyoncé, per il grande magazzino di lusso americano Nordstrom e, di recente, era sulla copertina di Teen Vogue.

Sono così tante le persone non rappresentate a sufficienza, che sentono di non esistere o di essere invisibili in quello che è un contesto fondato sulla visibilità”, dichiara Mercado a proposito di cosa l’abbia motivata. “Volevo che queste persone si sentissero incluse. Che sentissero di poter anche loro essere modelle/i”.
La gente con disabilità viene spesso lodata per il suo coraggio. Un complimento che può turbare chi lo riceve in quanto molti di noi non si sentono coraggiosi per il semplice fatto di perseguire ciò che desideriamo come fa chiunque altro. Di sovente la nostra testardaggine viene spesso trascurata.

Laddove Mercado ha fatto da apripista, altri l’hanno seguita. Per esempio, Aaron Philip che, nel 2018, è diventata la prima modella disabile, nera e transgender ad essere scritturata da una delle maggiori agenzie per modelle dopo che uno dei suoi tweet è diventato virale. Allo stesso modo, Chella Man, modello transgender non udente, che è salito alla ribalta dopo aver condiviso foto di sé online.

Ma c’è anche la docente, scrittrice e sostenitrice dei diritti dei disabili, Sinéad Burke, una ‘little person’ (persona piccola, termine che preferisce per riferirsi all’acondroplasia da cui è affetta, ndt) originaria dell’Irlanda che è apparsa sulla copertina di Vogue UK a settembre 2019. Non solo. Quello stesso anno, Burke è stata anche la prima persona piccola a partecipare al Met Gala sfidando il tradizionale concetto di inclusione con un abito Gucci realizzato ad hoc. Un anno dopo, Gucci faceva notizia ingaggiando Ellie Goldstein, una giovane modella con la sindrome di Down come nuovo volto di Gucci Beauty.

Oltre la rappresentazione

L’inclusione delle persone con disabilità nell’industria della moda e del beauty ha rappresentato un importante passo avanti nella giusta direzione ma la strada da compiere è ancora lunga. “La rappresentazione della disabilità quale uno degli aspetti chiave della diversità è solo l’inizio”, dichiara Scalesse. Come darle torto. Sebbene il settore si sia attivato in fretta per rispondere alle richieste di alcune delle comunità minoritarie, la nostra sembra essere stata lasciata indietro.

È giunto il momento di andare oltre la rappresentazione di facciata e le concessioni minime e simboliche. Certo, vogliamo vedere più persone con disabilità di fronte alla macchina fotografica ma c’è bisogno di una maggior inclusione e rappresentazione anche dietro l’obbiettivo. Dobbiamo poter vedere persone che assomigliano a noi ricoprire ruoli di potere nelle riviste, all’interno dei brand di moda e dei marchi di bellezza internazionali, nelle squadre a capo delle Fashion Week, all’interno delle agenzie di casting. In tutti quei luoghi che si sono storicamente dimenticati di noi.

Dopotutto, che senso ha vedere qualcuno che ti assomiglia in una campagna pubblicitaria se poi il marchio pubblicizzato non è in grado di rispondere ai tuoi bisogni? Allo stesso modo, perché ingaggiare una modella per un servizio o una sfilata di moda se le è impossibile accedere in maniera adeguata al luogo dello show o nel backstage?

Il 2020 è stato, sotto molti punti di vista, l’anno del risveglio. L’anno in cui prendere atto di tutte quelle voci che erano state ignorate. Brand, a cui non era mai stato chiesto di rendere conto del proprio agire, sono stati pubblicamente criticati per le loro politiche di facciata e per la disparità di trattamento delle minoranze mentre il mondo intero era costretto a rallentare e ad ascoltare. Il 2021 deve essere l’anno dell’azione.

(Vogue.it)

Rebekah Marine, la modella disabile che sfilerà alla New York Fashion Week

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La ragazza 28enne, nata senza l’avambraccio destro, da sempre sogna di fare la modella

La disabilità, spesso, sta tutta nel modo in cui la prendiamo: arrenderci, magari cedendo ai pregiudizi degli altri, o sfidarla. Prendiamo la storia di Rebekah Marine, ad esempio. E’ una bellissima ragazza di 28 anni, che aveva da sempre il sogno di fare la modella. Però era nata senza l’avambraccio destro, e quindi le persone intorno a lei l’avevano convinta a studiare e concentrarsi su qualche altro obiettivo più ragionevole. 

Per un po’ lei ha convenuto che questo consiglio fosse saggio, e quindi aveva cercato un lavoro qualunque. Poi, quattro anni fa, ha deciso di farsi impiantare una protesi e fregarsene dei pregiudizi. Risultato: è diventata davvero una modella, e domani sfilerà alla New York Fashion Week durante il FTL Moda show.  

Come ha spiegato al sito Mashable, però, il suo successo non è una fonte di orgoglio personale, ma piuttosto di ispirazione per gli altri: “Negli Stati Uniti una persona su cinque ha qualche genere di disabilità. Bisogna smettere di pensare alle differenze come un condizionamento negativo, e cominciare a vederle come la normalità. Anzi,come una opportunità”.  
(lastampa.it)