Re Minore: La retorica terapeutica

Rubrica a cura di Elena Beninati – Giornalista/Fotografa

L’antica retorica greca, nella storia, è stata la prima espressione del rapporto concreto fra azione e linguaggio. La cosiddetta arte di persuadere altro non era che il corrispettivo, sperimentato nell’antichità, della moderna relazione terapeutica. L’interesse degli antichi greci ricadeva sulle emozioni evocate nell’interazione attraverso una determinata struttura del discorso, cui si connettono pensieri e significati.

La psicagogica mirava a suscitare delle emozioni intense nell’ascoltatore, al fine di ottenere un cambiamento del suo modo di agire. Più tardi, Aristotele contestualizzò il ruolo del linguaggio in termini di “opportunità” del discorso, che doveva variare a seconda delle circostanze e delle condizioni degli interlocutori. Egli sistematizzò la retorica, riconoscendone l’efficacia e stabilendo che, come la logica fa uso del sillogismo, la retorica ha il suo strumento principale nell’entimema, capace di pervenire a conclusioni probabili e confutabili, i cosiddetti “luoghi comuni”.

Oggi il retore potrebbe essere il terapeuta. Entrambi sono accomunati da parecchie similitudini: cercano entrambi di cambiare le premesse dei propri interlocutori attraverso il linguaggio e le emozioni veicolate dal linguaggio. Entrambi lavorano su parole e metafore. Ma se il retore porta avanti una sua tesi da sostenere, il terapeuta, nel dialogo con i pazienti, è continuamente alla ricerca di una tesi che tende alla definizione senza mai potervi arrivare, pur mettendo in campo una costellazione di nuove emozioni e nuovi sistemi di significato, che possono trasformarsi in nuove premesse.

Lo scopo del terapeuta è ricreare nei pazienti delle situazioni di vita tollerabili. Agendo al livello della ridefinizione degli stati emozionali, infatti, è possibile ridefinire i processi collegati all’interno della coscienza e alterarli intenzionalmente, in modo da riuscire a controllare gli impulsi senza esserne preda, generando nuove connessioni neuronali e parimenti nuove risposte adattive alle situazioni di squilibrio. Mobilitare pensieri e comportamenti finalizzati al raggiungimento e all’acquisizione di nuovi livelli di integrazione, che corrispondono a nuovi modi di reinterpretare gli eventi in base alle nuove aspettative create, costituisce l’anticamera del processo di riformulazione creativa del mondo.

Grazie a questa ricomprensione degli eventi i fatti acquisiscono una vitalità totalmente nuova.

I fatti assumono significati differenti a seconda del periodo storico e dell’ambito disciplinare che li delinea. Nel passaggio dall’ottica sacrale a quella medico-riparatoria, per esempio, l’attenzione si è progressivamente spostata dal riconoscimento contingente dell’alterità degli avvenimenti, all’attenzione verso tutte quelle pratiche di cura finalizzate a sostenere la salute e a contenere lo stato di malessere degli individui.

Lo sbocco terapeutico altro non è che la trasformazione del disagio, che si trova fissato in una forma cristallizzata, in movimento. Ciò è possibile solo all’interno di una relazione di aiuto, che permetta di rileggere la storia dell’individuo scoprendone le risorse, ai fini di una riorganizzazione totale del vissuto e del pensiero, e di un riannodamento dei fili dell’elaborazione emotiva dei fatti.

Ciò consiste in un vero e proprio processo educativo, del corpo e della mente, attraverso la riformulazione del quotidiano. L’educazione, in effetti, nella sua etimologia latina è riconducibile sia al significato di “tirare fuori”, che a quello di “condurre altrove”, in uno spazio che va oltre l’esperienza quotidiana, e dove, quindi, è possibile ricostruire il senso perduto dell’esistenza.

Affinché lo spazio terapeutico si proponga come matrice dal carattere transazionale, e permetta di compiere un lavoro simbolico di nominazione delle zone d’ombra, il cui contenuto possa essere avviato alla ristrutturazione, occorre la piena e totale consapevolezza delle correnti emozionali instauratesi tramite i legami, le alleanze e i conflitti, della storia dell’individuo.

La cura presuppone, quindi, il riferimento al mondo che sta fuori, e deve estendersi al mondo da cui gli individui provengono: famiglia, esperienze, ambiente, sistema di valori e logica.

La relazione terapeutica, proprio perché costituisce un campo di esperienza particolare, ed è attraversata da dimensioni pragmatiche e materiali predisposte secondo un’intenzionalità progettuale, deve tenere conto degli elementi implicati nell’incontro fra individuo e terapeuta a livello di mediazione, intendendo tutti quegli strumenti che ne regolano lo sviluppo: il ruolo, la prossemica del corpo, lo sguardo che si indirizza, la considerazione degli affetti e degli oggetti, i tempi, gli spazi, regole e rituali che dettano i ritmi e le pause all’interno dei quali la relazione si dà ed è portatrice di cambiamento.

Ai fini di una terapia di recupero, sarà allora imprescindibile la valutazione delle condizioni materiali e pragmatiche da approntare affinché l’esperienza di cura risulti formativa, ovvero il percorso di cambiamento, che include i fattori tempo, spazio, rito, linguaggio, regole, azioni, funzionali al contenimento e al supporto della sperimentazione che il soggetto compirà attraverso la propria mediazione corporea, ovvero le esperienze di quella sintonizzazione affettiva così importante per la salvaguardia della salute mentale.

(Foto di Pierre Toutain Dorbec)

Una guida pratica per la tutela della disabilità

Il mondo della disabilità è una realtà complessa e articolata sotto diversi aspetti. Una famiglia non ha soltanto la difficoltà di vivere la disabilità di un familiare in casa – soprattutto quando si tratta di un bambino – ma si può trovare anche in difficoltà nell’interpretare leggi e normative che possono sembrare a prima vista un groviglio inestricabile. Le famiglie, quando affrontano questo percorso, che va dal «Durante Noi» al «Dopo di Noi», spesso non sanno cosa chiedere, a chi rivolgersi.


Per venire incontro a queste esigenze, è nata “Includendo 360, Guida pratica sulla disabilità”, la prima guida pratica intersocietaria sulla tutela della disabilità, sostenuta sia dalla Società italiana di Pediatria preventiva e sociale (Sipps) che dalla Società italiana di Pediatria (Sip), pensata appositamente per le famiglie, per dar loro un documento cartaceo e consultabile anche online, fatto di indicazioni, risposte chiare a domande spesso difficili da formulare che ruotano intorno a questi interrogativi: «A che cosa ha diritto questo bambino?», «A quali strumenti si può accedere per questo bambino?».
Il documento, realizzato grazie alla disponibilità delle società scientifiche e del contributo di un numero importante di professionisti provenienti da diversi ambiti, stato presentato ai pediatri in occasione del 32mo congresso nazionale Sipps “Bambini dal mondo, bambini del mondo: le nuove sfide» (5-8 dicembre 2020, in forma virtuale).


La guida cerca di ricomporre in una visione unitaria il panorama complesso delle disabilità. «Tra i cardini c’è la scuola e la sanità, due comparti molto importanti. Sviluppano tra loro anche un percorso parallelo – spiega Marina Aimati, medico di Medicina generale e socia Sipps -. Quando un bambino viene accolto nel Servizio sanitario nazionale per definirne le eventuali disabilità e i percorsi riabilitativi, si affianca la scuola. I due mondi hanno necessità di comunicare tra loro. Un iter che si prolunga almeno fino alle scuole medie superiori, quando poi il discorso si fa più complesso, ma i ragazzi hanno già un percorso abbastanza strutturato».


La guida affronta anche il tema dell’invalidità civile. La guida illustra come si fa la domanda, perché si fa e a che cosa serve. Com pure il ruolo dell’ente del patronato, del terzo settore e delle associazioni. Non manca uno sguardo ai  fondamenti di tutela legale: l’interdizione, l’amministratore di sostegno, l’inabilitazione, fino alla fiscalità e alle posssibilità assicurative, con un accenno anche sulla legge 112 del “Dopo di Noi”.


La Guida vuole essere un supporto che può e deve arrivare a tutte le persone che hanno necessità di avere queste informazioni. Lo scopo è informare ma anche  formare. «Per ogni bambino disabile – commenta Aimati – c’è una mamma, un papà, un fratello, una sorella, nonni e nonne. È necessario che l’inclusione sia rivolta a tutti loro, alla famiglia a 360 gradi, non può essere pensata solo per il singolo». Un’inclusione che nasce all’interno delle famiglie per svilupparsi e irradiarsi all’esterno, in tutti i modi e le forme possibili.
(Rielaborazione da lastampa.it)

NESSUNO TOCCHI IL GARANTE ALLA DISABILITÀ (SICILIA) – LE ASSOCIAZIONI A SOSTEGNO DEL GARANTE

Riportiamo qui di seguito il comunicato congiunto delle associazioni in favore della nomina dell’avvocato Maurizio Benincasa a garante della Regione Siciliana per le persone con disabilità.

NESSUNO TOCCHI IL GARANTE
APPELLO ALL’ASSESSORE SCAVONE

L’assessore dlle politiche sociali e per la famiglia della Regione Siciliana Antonio Scavone

La nomina dell’avvocato Maurizio Benincasa, persona vicina alle famiglie e certamente non a contatto con l’arcipelago variegato delle cooperative di servizi, sta provocando un’ incredibile reazione da parte di questo mondo di interessi economici anche vestiti da associazionismo e di volontariato d’interessi, con oscure trame di risvolti sul mondo della disabilità, o, se si vuole dietro al business della disabilità.

I fatti sono che gran delle associazioni che si occupano di offrire servizi in Sicilia, cooperative in primis, stanno incalzando l’assessore regionale perché revochi l’incarico a Benincasa. Chissa cosa temono. E si ha notizia di pressioni dirette e indirette sull’Assessore, che ha fatto una scelta giusta e sacrosanta, e di minacce di abbandono di tavoli ecc. con una motivazione pretestuosa e di forza giuridica nulla, cioè il fatto che questo “mondo” di cooperative non sia stato “preventivamente” sentito.
E’ proprio la pretestuosità della motivazione che ci induce a legittimi sospetti.

Riteniamo la nomina dell’Avv. Benincasa giusta e coerente con quanto stabilito dalla normativa.

Ha i titoli, il curriculum, la dedizione e soprattutto NON ha alcun conflitto di interessi ne è politicamente legato a nessuno schieramento politico. Con le sue competenze giuridiche slegate anche da relazioni con la pubblica amministrazione può davvero essere il nostro punto di riferimento.

ASSESSORE SCAVONE
A lei le parole più sincere e spassionate.
C’è nella vita di un uomo, di un politico, un momento in cui va dimostrato il coraggio delle proprie scelte.
A lei, Assessore, chiediamo di non indietreggiare. Non lasciare che alcune associazioni la mettano alla gogna per una scelta giusta e coraggiosa.
Ha dalla sua migliaia di FAMIGLIE pronte a difenderla.
Lei è l’Assessore delle PERSONE CON DISABILITÀ, DELLE FAMIGLIE. Il Terzo settore fa parte del nostro mondo perché’ a noi offrono servizi ma il Garante è per legge e deve essere prima tutto il Garante delle delle PERSONE e delle FAMIGLIE CON DISABILITA’.

Noi associazioni di Famiglie e di Persone con disabilità, Sottoscriviamo questo accorato appello perché non si torni indietro, Perché’
NESSUNO TOCCHI IL GARANTE DELLE PERSONE CON DISABILITA’

Comitato #SiamoHandicappatiNoCretini
FIRST – Federazione Italiana Rete Sostegno e Tutela
CONFAD Coordinamento Nazionale Famiglie con Disabilita
Associazione 20 novembre 1989 Onlus
Insieme per l’Autismo Onlus
ANPE- Associazione Nazionale dei Pedagogisti Italiani
Associazione Asacom
Associazione Moto Perpetuo Onlus
Associazione La Stele di Rosetta
Osservatorio Diritti Scuola
Io Sono Qui – Comitato l’Autismo Parla UniPhelan Onlus

* Qualunque associazione di famiglie voglia sottoscrivere questo appello lo può comunicare sulla pagina Facebook del Comitato Siamo Handicappati No Cretini.

Musicoterapia, può aiutare i bambini autistici a gestire le emozioni

Secondo uno studio l’interazione sociale di chi ne è affetto può beneficiare dell’improvvisazione musicale. Ne parliamo con uno degli autori che ci spiega i risultati

NON C’È cura per l’autismo, ma la musica ha il potere di aprire la strada a nuove forme di comunicazione nei bambini che ne soffrono: 1 su 100. Sulla relazione tra musica e linguaggio nei pazienti pediatrici con disturbo dello spettro autistico all’Irccs Fondazione Stella Maris di Pisa si è appena tenuto un convegno nel corso del quale si è riflettuto sui risultati di Time-A, uno studio internazionale pubblicato sul Journal of the American Medical Association che ha valutato l’efficacia della musicoterapia, e in particolare dell’improvvisazione musicale, su 364 bambini autistici di 4-7 anni di 9 Paesi tra cui il nostro.

Una ricerca che non ha dimostrato – come si legge nelle conclusioni – miglioramenti significativi, ma che comunque ha evidenziato effetti positivi sui pazienti. Ne abbiamo parlato con Filippo Muratori, associato di neuropsichiatria infantile all’università di Pisa, responsabile della Psichiatria dello sviluppo di Stella Maris, e co-autore della pubblicazione ospitata da Jama. “Il fatto è – dice il neuropsichiatra – che lo strumento diagnostico che abbiamo utilizzato in Time-A valuta alcuni aspetti del bambino autistico, per esempio quello socio-comunicativo, ma non altri. In realtà, nel corso di Time-A, di effetti positivi significativi ne abbiamo rilevato diversi“.

L’IMPORTANZA DI IMPROVVISARE

Nei bambini che hanno partecipato al progetto – riprende Muratori- è aumentata la motivazione sociale, mentre sono diminuiti i manierismi autistici, i movimenti stereotipati e ripetitivi. È migliorata anche la regolazione emotiva che è una premessa per lo sviluppo delle abilità di interazione sociale. E l’effetto è stato più evidente nei casi in cui è stato possibile ‘improvvisare’ insieme al musicoterapeuta brevi brani musicali, il che è indice di una migliore sintonizzazione affettiva“.

IL MUSICOTERAPEUTA È UN MUSICISTA

La musicoterapia usa la musica per costruire una melodia con chi ha difficoltà di comunicazione, bambini ma anche adulti, autistici ma anche affetti da altre malattie. “È un dialogo fatto di suoni, di note musicali, che si improvvisa. Non è una lezione, non c’è nulla di precostituito, un po’ come accade a volte nel jazz“, spiega Muratori. E il musicoterapeuta non è uno psicologo che si improvvisa musicista ma un musicista che ha seguito un’opportuna formazione sia musicale che clinica, e che lavora all’interno di un team specialistico, come è avvenuto nel Time-A. In Italia ci sono scuole di formazione per musicoterapeuti ma la figura professionale non è ancora riconosciuta ufficialmente, a differenza di quanto avviene in altri Paesi“.

UNA PERSONA SU 100

L’autismo è una malattia dello sviluppo del cervello multifattoriale: le cause sono diverse e di diversa natura, ambientale e genetica. È affetta da disturbi dello spettro autisticocirca 1 persona su 100 – “in base a dati epidemiologici internazionali, nel nostro Paese non abbiamo dati certi e definitivi”. Ma se i numeri non sono sempre certi, è certo che il numero dei casi di autismo è in crescita nel mondo, perché è migliorata la capacità diagnostica e la sensibilità nei confronti di una patologia che include un’ampia eterogeneità di quadri: nelle persone che ne sono affette, il grado di abilità intellettiva e comunicativa è molto variabile e spazia da una compromissione grave ad abilità cognitive non verbali anche superiori alla norma: “Sono i cosiddetti talenti, per esempio ci sono bambini con capacità di percezione dei particolari e capacità grafiche notevoli. O anche con notevoli talenti musicali“, continua Muratori.

Di autismo non si guarisce, ma la diagnosi precoce che è possibile già nei primi due anni di vita, e di conseguenza l’intervento precoce sono strumenti importanti. È in questo contesto che va inserita la musicoterapia “che – conclude Muratori – può contribuire a migliorare la vita di chi soffre di autismo e delle loro famiglie“.

(repubblica.it)

AFI: Famiglia è il solo futuro

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AFI associazione che fa rete comune con Insieme per l’Autismo ONLUS (della quale ho la carica di vicepresidente). Coloro che si trovano a Verona in data 25 giugno sono invitati a partecipare all’evento.

AFI (Associazione delle Famiglie) in occasione del 25° Anniversario della sua nascita, organizza per sabato 25 giugno a partire dalla 9.30 presso l’Auditorium Bisoffi il Convegno “Famiglia è … il solo futuro” che affronta temi relativi alle Politiche Familiari a livello locale, nazionale ed europeo.

Sarà una grande occasione per proporre iniziative concrete, realizzabili e sostenibili che comincino finalmente a riconoscere l’indispensabile ruolo della Famiglia per una società che mette al centro la Persona. Se vogliamo dare un futuro alle giovani generazioni, dobbiamo fare squadra e costruire reti di buone relazioni tra istituzioni, imprese, e famiglie, e dobbiamo dare forza alle “buone iniziative” che mirano al Bene Comune.

Per l’iscrizione al convegno è sufficiente mandare una mail a:

Maurizio Bernardi
maurizio.bernardi@afifamiglia.it

Carla Castelletti
carlacastelletti@libero.it

Per informazioni: http://www.afifamiglia.it/public/Programma%20convegno%2060606.pdf

Il programma completo delle attività del 25° Anniversario dell’AFI: http://www.afifamiglia.it/public/Bozza%20programma%20del%2025mo%20v8.pdf

Hai un figlio disabile? Non vai in pensione

Con la riforma Fornero i permessi goduti con la legge 104 e la maternità facoltativa non vengono più conteggiati ai fini pensionistici. Carlo Giacobini spiega l’assurdità di questa norma, «che si può cambiare solo con una nuova legge»

Il titolo è forte, un po’ estremizzato, ma la sostanza ci è molto vicina. Sul web, un genitore ha fatto una sintesi perfetta: «ci stai dicendo che per noi genitori con la 104 (cioè con figli disabili gravi) al posto del pre-pensionamento di 5 anni di cui si discute da decenni, toccheranno cinque anni di lavoro in più rispetto a tutti gli altri?!? Non c’è mai limite alle assurdità su questo tema».C’è da non crederci, per la palese ingiustizia della misura, ma è proprio così. Andiamo per gradi. La riforma Fornero ha stabilito che per andare in pensione prima dell’età anagrafica prevista (in questo momento 66 anni e tre mesi per gli uomini e un minimo di 62 e tre mesi per le donne) servono (nel 2013) 42 anni più 2 mesi di contributi versati per gli uomini e 41 più 2 mesi per le donne. Nel conteggio di questi anni entrano però  – questa è la novità  – solo i giorni effettivamente lavorati e non quelli coperti da contributi figurativi, fatta eccezione per infortuni, malattia, servizio di leva e maternità obbligatoria. Di fatto non sono più “buoni” ai fini del conteggio dei 42 e rotti anni i giorni in cui un lavoratore è stato assente per permessi retribuiti per motivi familiari, lutto, diritto allo studio, donazione del sangue, sciopero. Volgare e antipatico, ma i giorni si conteranno in unità o decine. Ma non solo. L’enormità della cosa arriva qui: non valgono nemmeno i giorni di assenza per la legge 104/1992 (che riconosce permessi retribuiti per l’assistenza di un figlio disabile) e addirittura il congedo parentale (ex maternità facoltativa). Si tratta di 180 giorni a figlio nel caso del congedo parentale e di 3 giorni al mese nel caso della 104, che in una vita da genitore di figlio disabile diventano anni. Carlo Giacobini, il direttore di HandyLex, è uno dei più grandi esperti in Italia di diritti e persone con disabilità ed è stato il primo in assoluto a sollevare la questione.
Quelle che circola è un timore o è proprio vero? Scusi la domanda, ma suona talmente assurdo…È vero e non dipende dall’Inps. È scritto nero su bianco nella norma della manovra Fornero, legge 214 del 2012, articolo 24 combinata con art 14 della legge 14 del 24 febbraio 2012. Quei 42 anni e 2 mesi devono riferirsi a lavoro effettivamente prestato, eccezionalmente sono conteggiate come lavoro prestato le assenze per malattia, maternità obbligatoria, infortunio, servizio di leva. Tutto il resto è fuori.
Come mai la questione viene a galla solo ora?L’avevamo segnalato già nel 2011, ma in quel momento la situaizone politica era tale che non si è riusciti a portare l’attenzione su questo tema come su altri, altrettanto delicati. La manovra Fornero comunque si è perfezionata solo a luglio e quindi con le prime persone che stanno andando in pensione con quelle regole la situazione è esplosa.
Per un genitore con un figlio disabile, concretamente le nuove regole cosa comportano?Questo significa che chi ha fruito di due anni di congedo dovrà lavorare due anni in più per maturare quel diritto. Se non lo fa incorre in penalizzazioni di trattamento. Facciamo i conti, la legge 104 dà diritto a tre giorni al mese di assenza, che fanno 30 all’anno: questo significa che il padre di un ragazzo con disabilità che oggi ha 60 anni e per 20 anni ha usufruito dei permessi lavorativi mensili, dovrà rimanere in servizio due anni in più. Una beffa: quello che era ipotizzato come un aiuto, alla fine della fiera vene fatto pesantemente ripagare.
Tra le famiglie c’è grande disorientamento. Come vi muoverete ora?Solo un intervento normativo potrà sanare questa situazione, non c’è altra strada. Tecnicamente è molto semplice, basta aggiungere alla legge un periodo che include i permessi per la legge 104 e i congedi parentali fra le eccezioni. Il vero nodo da affrontare sarà quello della copertura. È una questione eminentemente politica. Noi stiamo già predisponendo una proposta di legge da presentare, ma deve esserci un gruppo trasversale di parlamentari che poi se ne faccia carico in Parlamento.
(vita.it)

di Giovanni Cupidi

Pensare il disabile adulto

Per un soggetto con sindrome di Down, portare a spasso il cane, in una grande città – è un segno di forte autonomia, una sfida, una scommessa. Basta poco – una indecisione mentre attraversa la strada – per finire sotto un autobus in corsa – o mostrarsi insicuro – per essere avvicinato da sconosciuti, a volte male intenzionati, ed essere deriso, o diventare il bersaglio di giochi crudeli, o correre il rischio di essere derubato di qualsiasi cosa, del portafoglio, delle chiavi di casa, perfino del cane. Tuttavia Mario, un giovane Down accetta la scommessa e ogni giorno esce con il suo cane al guinzaglio, desideroso di andare incontro alla vita. Il giovane cammina barcollando leggermente mentre il cane tira dritto, sa benissimo dove andare, conosce a memoria la strada fino al giardino pubblico più vicino
Matteo è un ragazzo Down di 22 anni. Frequenta ancora le scuole superiori. È rimasto figlio unico da quando il fratello è scomparso in un incidente stradale. Da allora la madre ha riversato su di lui un amore esclusivo ed iperprotettivo. Matteo a scuola ha una autonomia di movimento pari a quella dei suoi compagni di classe, ama la compagnia, scherza e ride con i professori e i compagni, è sensibile al fascino femminile e si innamora facilmente, anche di donne più grandi di lui. Quest’anno ha seguito a scuola un programma di attività assistite dagli animali volto a sostenere l’autonomia delle persone con disabilità. Matteo ha familiarizzato subito con Eva, il cane di razza golden che era al centro delle attività: le accarezzava il mantello con delicatezza ed Eva ricambiava il piacere offrendosi a quelle carezze con totale fiducia. Pur capace di orientamento e di autonomia comportamentale, Matteo non esce mai da solo per strada – la madre lo accompagna ovunque – tuttavia potrebbe uscire per brevi tragitti accompagnato da un cane, se solo la madre riuscisse a vincere le proprie paure.
Giulia, una ragazza di 19 anni con un leggero ritardo cognitivo, dall’aspetto fragile e minuto – ad un primo sguardo sembra una delicata e graziosa bambina, anche se vestita e truccata in modo sbarazzino – esce da sola, di giorno, per andare a prendere la sorellina a scuola. La mamma le affida anche altri compiti da ragazza grande, come fare la spesa, badare alla sorelle più piccole, stirare, cucinare. Giulia ha conseguito quest’anno la maturità classica, e si prepara a seguire dei corsi professionali post diploma, probabilmente un corso di assistente all’infanzia. “Ho già delle competenze, ho fatto esperienza con le mie sorelle e i miei cuginetti – dice Giulia, alquanto serena sul suo futuro – voglio rendermi autonoma economicamente, voglio mantenermi da sola”. Durante gli anni di liceo la ragazza ha frequentato a scuola diversi laboratori (cucina, artigianale-artistico, musicale, scientifico, informatico, sportivo), partecipando a feste, gite, gare e spettacoli, brillando sempre per entusiasmo e voglia di fare, facendosi amare da tutti, acquisendo autostima e senso di autoefficacia. Ha anche usufruito di una borsa lavoro, e prima del termine degli studi ha seguito un tirocinio in un supermercato (sistemava la merce negli scaffali) vicino al luogo dove abita, in modo da essere autonoma anche nello spostamento verso la sede lavorativa. Non si arrende Giulia, non resterà chiusa in casa a fare la donnina di casa. Forse riuscirà anche a crearsi una famiglia propria, ad amare e a farsi amare in modo maturo e consapevole.
Anche Giusi Spagnolo, palermitana affetta da sindrome di Down, ha deciso di andare incontro alla vita. Il 21 marzo 2011, Giornata mondiale sulla Sindrome di Down, si è laureata in Beni demoetnoantropologici alla facoltà di Lettere dell’Università di Palermo, presentando una tesi sul ruolo del gioco nell’apprendimento. Giusi ha sempre cercato di evitare che etichette e definizioni le piombassero addosso come un macigno. «Io non sono Down, sono Giusi, Giusi Spagnolo», ripete sin da piccola a parenti ed amici. Una affermazione di identità che rifiuta la marginalità e si apre alla costruzione di un progetto di vita. A Giusi aver conseguito la laurea a 26 anni non basta: «Mi piace lavorare con i bambini – racconta – spero di poterlo fare sul serio».
È talora possibile al soggetto che vive una fragilità o una disabilità intellettiva non totalmente invalidante, organizzarsi attorno ai propri limiti per superarli, sviluppando un percorso di «resilienza» dovuto anche, ma non solo, alle sue caratteristiche personali. Si tratta di un percorso non semplice poiché i pregiudizi e gli stereotipi culturali e sociali hanno per un tempo lunghissimo rinviato alla persona in situazione di disabilità un’immagine negativa che – come sostiene Enrico Montobbio, esperto della relazione d’aiuto nel contesto della disabilità – l’hanno fatta sentire un soggetto in costante terapia e dunque necessitante di assistenza. La Pedagogia Speciale è in parte riuscita a scardinare tale concezione e a dimostrare che, se la persona è supportata da una rete di sostegno diffusa, se la fragilità non è vista come limite, mancanza o problema in quanto tale (modello medico della malattia da curare e modello pedagogico “antico” del bambino da educare) non vi sono limiti alle possibilità di emancipazione e realizzazione personale.
Il compito di coloro che accompagnano lo sviluppo di un soggetto con disabilità è eminentemente quello di favorire l’emergere di una soggettività autentica e dunque di far assumere alla persona interessata da disabilità capacità di autodeterminazione e orientamento nelle proprie scelte di vita.
Ma come sostenere l’emergere dell’identità della persona fragile? Lo sviluppo dell’identità è strettamente legato all’esperienza del riconoscimento, all’essere percepito e rispettato nella propria unicità. Il rispetto e il sostegno alla dignità della persona, in special modo della persona con fragilità, comporta in primo luogo il riconoscimento del suo sé e del suo bisogno di percepirsi capace di rispondere ad alcuni bisogni fondamentali.
“La creazione di un sé adulto rappresenta il presupposto indispensabile per poter vivere, relazionarsi e percepirsi come adulto, nella maggior misura possibile – scrive Silvia Maggiolini, ricercatore presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel saggio Pedagogia speciale oltre la scuola (a cura di Antonello Mura, Edizioni Franco Angeli, 2011) -. Si tratta tuttavia di un processo che non si sviluppa in un solo istante del ciclo vitale, quando si conclude l’iter scolastico e diviene necessario, come spesso accade, fare i conti sul destino del ragazzo, sul possibile inserimento lavorativo, quando le dinamiche dello sviluppo affettivo e sessuale richiedono la risoluzione di molte problematiche emergenti, oppure quando i genitori iniziano ad avvertire il proprio naturale declino, ed il venir meno della salute e della forza rende inevitabile il confronto con il presente ed il futuro della persona disabile. È evidente, invece, che il percorso deve iniziare sin dalle fasi di vita precedenti, dalla più giovane età del soggetto, sia in famiglia, sia, soprattutto, all’interno delle istituzioni deputate alla sua formazione, e chiamate a sostenerlo nella costruzione di una realistica immagine di sé, e nell’apprendimento graduale delle capacità necessarie per poter agire, il più possibile, da soli”.
Il punto di partenza è voler immaginare persone con disabilità come capaci anche di assumere un ruolo e un lavoro, di partecipare alla vita della collettività, di sentire di farne parte; a partire da qui si potranno sperimentare percorsi, trovando risorse nuove e insospettate.
(lastampa.it)

di Giovanni Cupidi

ISEE, IL PRESSING DELL’ANFFAS: “FACCIAMO PRESTO E MEGLIO”

In Parlamento il testo che riforma l’indicatore: il presidente Speziale spinge per una rapida approvazione del testo chiedendo maggiore attenzione ai minori disabili e al lavoro di cura. E specifica: “Tutelare omogenità sul territorio”

Il testo di riforma dell’Isee, all’esame del Parlamento, sia rapidamente approvato, se possibile con qualche miglioramento per tenere nel giusto conto la presenza di minori con disabilità e il lavoro di cura dei familiari: a chiederlo è l’Anffas, che precisa anche la necessità di evitare che regioni e comuni possano modificare a proprio piacimento i criteri di una misura che deve essere omogenea sull’intero territorio nazionale.
“La nostra associazione – spiega il presidente Roberto Speziale – segue con sentita attenzione la rideterminazione dell’Isee perché a questa sono realmente collegate le condizioni di vita di migliaia di cittadini con disabilità e loro famiglie in tutta Italia. L’accesso ai servizi, specie quelli inclusivi, al momento, è colmo di discriminazioni, disomogeneità territoriali e vessazioni, che spesso trovano il loro epilogo nelle aule dei Tribunali”. “Occorre che il nuovo testo venga approvato in termini rapidi e che i criteri dell’Isee diventino univoci in tutta Italia – prosegue Speziale – visto che lo stesso, finora, è stato indicato come livello essenziale di assistenza. Il testo attuale non deve essere stravolto o peggiorato, né tradursi in un ennesimo tentativo di limitare l’accesso alle prestazioni o di scaricarne gran parte del costo sui cittadini con disabilità e sulle loro famiglie”.
“Il rischio concreto è infatti – precisa – che persone con disabilità e famiglie, già discriminate, escluse ed impoverite, siano costrette a rinunciare, per l’alto costo, all’accesso a servizi e prestazioni essenziali per il rispetto dei loro diritti umani e che esistono proprio per tentare di garantire loro parità di opportunità e non discriminazione, in condizioni di eguaglianza con gli altri cittadini”. “Auspichiamo quindi – conclude il presidente – che le commissioni parlamentari si adoperino per una rapida approvazione del decreto, non tralasciando possibili interventi di miglioramento. Il primo: una maggiore attenzione ai minori con disabilità, poiché nel testo attuale la rilevanza di questa condizione è limitata ai maggiorenni. Il secondo: riconoscere il peso, anche economico, che riveste il lavoro di cura da parte dei familiari. Ed ovviamente va eliminata la possibilità per le Regioni e i Comuni di modificare a proprio piacimento l’Isee, pena l’inutilità stessa di questo sforzo regolamentare”. “Anffas continuerà quindi a vigilare e stimolare i lavori delle Commissioni Parlamentari perché il testo finale del nuovo Isee divenga lo strumento principe per una maggiore equità sostanziale nel nostro Paese e non una ennesima vessazione”.

di Giovanni Cupidi

L’Italia in coda all’Europa nella tutela sociale dei disabili

Modello assistenzialistico e responsabilità scaricate sulle famiglie

Secondo il rapporto Censis sulla disabilità, mancano politiche di inserimento lavorativo e di sostegno per far sì che la disabilità sia vista come una risorsa e non un onere.L’Italia si colloca al penultimo posto in Europa – prima della Spagna – per le risorse destinate alla tutela sociale delle persone disabili.
La spesa è infatti di 438 euro pro capite contro i 531 della media dell’UE. C’è inoltre una grande sproporzione tra le misure erogate sotto forma di prestazioni economiche e quelle in natura (beni e servizi), perché in quest’ultimo caso il valore pro capite annuo non raggiunge i 23 euro, meno di un quinto della spesa media europea (125 euro).Sono i dati che emergono dalla ricerca “I bisogni ignorati delle persone con disabilità”, promossa dalla Fondazione Cesare Serono e realizzata dal Censis, che evidenzia una grande distanza dai 703 euro pro capite annui della Germania e i 754 del Regno Unito. Il fanalino di coda del continente, la Spagna, si attesta sui 395 euro, ma per i servizi in natura supera l’Italia (Avvenire.it, 17 ottobre).
A mancare non sono solo le risorse economiche, ma soprattutto le politiche di inserimento lavorativo. In Italia, infatti, i disabili occupati sono il 18,4% tra i 15 e i 44 anni e il 17% tra i 45 e i 64 anni. Sono occupati meno di una persona Down su tre dopo i 24 anni, meno della metà delle persone con sclerosi multipla tra i 45 e i 54 anni e il 10% degli autistici con più di 20 anni.Circa l’inclusione scolastica, lo studio indica che “l’esperienza italiana rappresenta un’eccellenza” per l’obbligo per le scuole di accettare alunni con disabilità, ma le risorse dedicate alle attività di sostegno e integrazione “appaiono spesso inadeguate” (La Stampa.it, 17 ottobre).
Il modello italiano, spiega il rapporto, “rimane fondamentalmente assistenzialistico e incentrato sulla delega alle famiglie, che ricevono il mandato implicito di provvedere autonomamente ai bisogni delle persone con disabilità, di fatto senza avere l’opportunità di rivolgersi a strutture e servizi che, sulla base di competenze professionali e risorse adeguate, potrebbero garantire non solo livelli di assistenza migliori, ma anche la valorizzazione delle capacità e la promozione dell’autonomia delle persone con disabilità” (Famiglia Cristiana.it, 17 ottobre).
Allo stesso modo, il dibattito pubblico sui diritti delle persone con disabilità, “particolarmente vitale” in altri Paesi, in Italia sembra rimanere “appannaggio esclusivo degli addetti ai lavori”, e i temi relativi alla disabilità ottengono con estrema difficoltà l’attenzione dei media, apparendo nelle agende pubbliche “solo quando si tratta d’immaginare ipotesi di ‘recupero’ di spesa” (Agenzia Sir, 17 ottobre).
Per Salvatore Pagliuca, presidente nazionale di Unitalsi, il rapporto del Censis è “un campanello d’allarme” che preoccupa perché in tempi di crisi “si rischia che le categorie più fragili siano schiacciate da logiche politiche lontane dalla realtà”. Il fatto che in Italia ci siano poche risorse per la disabilità, ha osservato, “dipende da una questione culturale”, che va cambiata per far sì che la disabilità venga considerata “una risorsa e non un onere”.

http://www.aleteia.org/it/salute/news/litalia-in-coda-alleuropa-nella-tutela-sociale-dei-disabili-121086

di Giovanni Cupidi