Re Minore: La retorica terapeutica

Rubrica a cura di Elena Beninati – Giornalista/Fotografa

L’antica retorica greca, nella storia, è stata la prima espressione del rapporto concreto fra azione e linguaggio. La cosiddetta arte di persuadere altro non era che il corrispettivo, sperimentato nell’antichità, della moderna relazione terapeutica. L’interesse degli antichi greci ricadeva sulle emozioni evocate nell’interazione attraverso una determinata struttura del discorso, cui si connettono pensieri e significati.

La psicagogica mirava a suscitare delle emozioni intense nell’ascoltatore, al fine di ottenere un cambiamento del suo modo di agire. Più tardi, Aristotele contestualizzò il ruolo del linguaggio in termini di “opportunità” del discorso, che doveva variare a seconda delle circostanze e delle condizioni degli interlocutori. Egli sistematizzò la retorica, riconoscendone l’efficacia e stabilendo che, come la logica fa uso del sillogismo, la retorica ha il suo strumento principale nell’entimema, capace di pervenire a conclusioni probabili e confutabili, i cosiddetti “luoghi comuni”.

Oggi il retore potrebbe essere il terapeuta. Entrambi sono accomunati da parecchie similitudini: cercano entrambi di cambiare le premesse dei propri interlocutori attraverso il linguaggio e le emozioni veicolate dal linguaggio. Entrambi lavorano su parole e metafore. Ma se il retore porta avanti una sua tesi da sostenere, il terapeuta, nel dialogo con i pazienti, è continuamente alla ricerca di una tesi che tende alla definizione senza mai potervi arrivare, pur mettendo in campo una costellazione di nuove emozioni e nuovi sistemi di significato, che possono trasformarsi in nuove premesse.

Lo scopo del terapeuta è ricreare nei pazienti delle situazioni di vita tollerabili. Agendo al livello della ridefinizione degli stati emozionali, infatti, è possibile ridefinire i processi collegati all’interno della coscienza e alterarli intenzionalmente, in modo da riuscire a controllare gli impulsi senza esserne preda, generando nuove connessioni neuronali e parimenti nuove risposte adattive alle situazioni di squilibrio. Mobilitare pensieri e comportamenti finalizzati al raggiungimento e all’acquisizione di nuovi livelli di integrazione, che corrispondono a nuovi modi di reinterpretare gli eventi in base alle nuove aspettative create, costituisce l’anticamera del processo di riformulazione creativa del mondo.

Grazie a questa ricomprensione degli eventi i fatti acquisiscono una vitalità totalmente nuova.

I fatti assumono significati differenti a seconda del periodo storico e dell’ambito disciplinare che li delinea. Nel passaggio dall’ottica sacrale a quella medico-riparatoria, per esempio, l’attenzione si è progressivamente spostata dal riconoscimento contingente dell’alterità degli avvenimenti, all’attenzione verso tutte quelle pratiche di cura finalizzate a sostenere la salute e a contenere lo stato di malessere degli individui.

Lo sbocco terapeutico altro non è che la trasformazione del disagio, che si trova fissato in una forma cristallizzata, in movimento. Ciò è possibile solo all’interno di una relazione di aiuto, che permetta di rileggere la storia dell’individuo scoprendone le risorse, ai fini di una riorganizzazione totale del vissuto e del pensiero, e di un riannodamento dei fili dell’elaborazione emotiva dei fatti.

Ciò consiste in un vero e proprio processo educativo, del corpo e della mente, attraverso la riformulazione del quotidiano. L’educazione, in effetti, nella sua etimologia latina è riconducibile sia al significato di “tirare fuori”, che a quello di “condurre altrove”, in uno spazio che va oltre l’esperienza quotidiana, e dove, quindi, è possibile ricostruire il senso perduto dell’esistenza.

Affinché lo spazio terapeutico si proponga come matrice dal carattere transazionale, e permetta di compiere un lavoro simbolico di nominazione delle zone d’ombra, il cui contenuto possa essere avviato alla ristrutturazione, occorre la piena e totale consapevolezza delle correnti emozionali instauratesi tramite i legami, le alleanze e i conflitti, della storia dell’individuo.

La cura presuppone, quindi, il riferimento al mondo che sta fuori, e deve estendersi al mondo da cui gli individui provengono: famiglia, esperienze, ambiente, sistema di valori e logica.

La relazione terapeutica, proprio perché costituisce un campo di esperienza particolare, ed è attraversata da dimensioni pragmatiche e materiali predisposte secondo un’intenzionalità progettuale, deve tenere conto degli elementi implicati nell’incontro fra individuo e terapeuta a livello di mediazione, intendendo tutti quegli strumenti che ne regolano lo sviluppo: il ruolo, la prossemica del corpo, lo sguardo che si indirizza, la considerazione degli affetti e degli oggetti, i tempi, gli spazi, regole e rituali che dettano i ritmi e le pause all’interno dei quali la relazione si dà ed è portatrice di cambiamento.

Ai fini di una terapia di recupero, sarà allora imprescindibile la valutazione delle condizioni materiali e pragmatiche da approntare affinché l’esperienza di cura risulti formativa, ovvero il percorso di cambiamento, che include i fattori tempo, spazio, rito, linguaggio, regole, azioni, funzionali al contenimento e al supporto della sperimentazione che il soggetto compirà attraverso la propria mediazione corporea, ovvero le esperienze di quella sintonizzazione affettiva così importante per la salvaguardia della salute mentale.

(Foto di Pierre Toutain Dorbec)

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Tu chiamale se vuoi… Emozioni!

Elena Beninati – Giornalista / Fotografa

Ogni uomo cerca amore, per sé stesso o per l’altro a cui indirizzare una parte di amore. Sentirsi uomini è un’esigenza naturale in cui ci riconosciamo. Solo nella vicinanza con l’altro ci sentiamo appagati. Sviluppare la prossimità con altri, creare e vivere in comunità fondate sull’amore o su interessi comuni è un diritto umano e proprio in questo accostarci agli altri realizziamo umanità. L’altro è il mio simile ma anche dissimile, per condizione fisica, mentale, culturale. L’altro è colui che indipendentemente dalla sua posizione mi viene incontro, per scelta o necessità.

Laddove l’essere umano si scopre attraverso la scoperta dell’altro e in relazione ad esso, la conoscenza di sé stessi può essere posta a mezzo di conoscenza dell’altro, qualunque sia la sua condizione. Ogni lacuna nella conoscenza di sé comporterà, quindi, eguali limiti nella possibilità di conoscere l’alterità che ci reclama. La mia chiusura alla diversità dell’altro comporterà la sua esclusione. Il mio sforzo di comprensione per la sua alterità creerà invece differenza, un luogo diverso in cui imparare a dialogare.

Il mondo della disabilità è nel pieno diritto di nutrire il desiderio di poter comunicare esattamente il proprio bisogno, chiedendo la giusta comprensione e la lecita accettazione. Se il desiderio dell’uomo si costituisce come il desiderio dell’altro e della prossimità con l’altro, nell’accezione responsabile e progettuale, il desiderio stesso si realizza nella relazione simbolica fra l’Io e il Tu, in un rapporto di riconoscimento reciproco. La relazione simbolica, quindi, sopraggiunge nell’istante stesso dell’umanizzazione e ne costituisce la base fondante, in quanto il simbolo introduce un terzo elemento di mediazione, che modifica entrambi i personaggi.

Il sentirsi amati non è un assunto dato una volta e per tutte, ma una condizione relazionale in continuo movimento, che necessita di conferme e riconoscimenti continui. L’arte delle relazioni umane, infatti, consiste nella capacità di gestire socialmente, con competenza ed abilità, le emozioni altrui, cooperando e stringendo legami di cura che prescindono la condizione fisica dei soggetti. La capacità di sintonizzarsi emotivamente permette l’accesso alla mente dell’altro, nella duplice gradazione di simpatia ed empatia che riguardano, rispettivamente, la comprensione di ciò che l’altro prova, a modo suo, e la condivisione del medesimo sentimento.

Se la funzionalità emotiva viene bloccata, avviene una limitazione, dal punto di vista mentale, dell’accesso al gioco simbolico, alla percezione del Sé, in una parola, all’empatia. La comunicazione emotiva è fondamentale nella costituzione di una personalità sana ed equilibrata indipendentemente dalla condizione fisica. Dall’impossibilità della sintonizzazione emotiva con le figure di riferimento e con il prossimo in generale, si crea spesso l’humus per l’accentuazione di tutti quegli stati di malessere dettati dall’incomunicabilità e dall’inaccessibilità al mondo, che possono decretare l’insorgenza di malattie complesse, o la degenerazione di patologie in atto.

Le nostre emozioni, infatti, riflettono le emozioni e le sensazioni vissute da altri generando cambiamento, in una dimensione di reciprocità basilare che ci permette di accogliere l’altro, qualsiasi altro, come simile a noi. Come scrisse il filosofo Merleau Ponty: <<A partire dal momento in cui ho riconosciuto che la mia esperienza, appunto in quanto mia, m’apre a ciò che non è me, e che io sono sensibile al mondo e ad altri, tutti gli esseri che il pensiero oggettivo poneva alla loro distanza mi s’avvicinano singolarmente.>> Noi uomini, in sostanza, ci troviamo rispetto agli altri uomini in una sorta di consonanza intenzionale. L’affinità con gli altri uomini non è nient’altro che un poter far loro eco, comprendendoli e rispondendo loro in un rapporto reciproco senza interruzione.

La condivisione delle emozioni è una dimensione che richiede apprendistato alla vicinanza e all’ascolto, appartiene ai territori della conoscenza, della comprensione e dell’educazione all’autenticità. Nella malattia, invece, la tendenza a formare un mondo alimentato da una concezione delle cose fantastica e personale, talvolta giunge alla negazione totale della possibilità d’incontro e dialogo con il mondo-degli-altri. L’esperienza emozionale, in generale, è alla base dell’intuizione e costituisce il terreno per le formulazioni di pensiero. Le emozioni costituiscono la più potente fonte di energia, autenticità e spinta motivazionale umana. Questo feedback, che proviene dal cuore ma mira alla testa, ci permette di costruire relazioni basate sulla fiducia, fornendo una bussola interna per l’orientamento della nostra vita.

Le emozioni ricoprono un ruolo fondante poiché costituiscono la lente discriminante con cui osservare la realtà, e influenzano il modo in cui ci rapportiamo al mondo e la nostra capacità di costruire relazioni. Sono sempre connesse a dei significati e determinano la qualità del nostro essere al mondo. Le emozioni, inoltre, costituiscono processi organizzativi e integrativi che svolgono un ruolo centrale nel coordinare le diverse attività del corpo e della mente, conferendo agli stimoli significati specifici e direzioni motivazionali. In molte forme di disabilità permettono l’instaurazione di legami che annullano le differenze. Le emozioni sono strettamente legate alla qualità delle connessioni neuronali, e collegate alla capacità di modulare ed attribuire, in base ad esse, significati alla realtà, qualunque essa sia, senza i quali la vita perde ogni suo senso. In sostanza ci permettono di annullare le barriere e volare al di sopra di ogni strumentale incomprensione.

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Musicoterapia, può aiutare i bambini autistici a gestire le emozioni

Secondo uno studio l’interazione sociale di chi ne è affetto può beneficiare dell’improvvisazione musicale. Ne parliamo con uno degli autori che ci spiega i risultati

NON C’È cura per l’autismo, ma la musica ha il potere di aprire la strada a nuove forme di comunicazione nei bambini che ne soffrono: 1 su 100. Sulla relazione tra musica e linguaggio nei pazienti pediatrici con disturbo dello spettro autistico all’Irccs Fondazione Stella Maris di Pisa si è appena tenuto un convegno nel corso del quale si è riflettuto sui risultati di Time-A, uno studio internazionale pubblicato sul Journal of the American Medical Association che ha valutato l’efficacia della musicoterapia, e in particolare dell’improvvisazione musicale, su 364 bambini autistici di 4-7 anni di 9 Paesi tra cui il nostro.

Una ricerca che non ha dimostrato – come si legge nelle conclusioni – miglioramenti significativi, ma che comunque ha evidenziato effetti positivi sui pazienti. Ne abbiamo parlato con Filippo Muratori, associato di neuropsichiatria infantile all’università di Pisa, responsabile della Psichiatria dello sviluppo di Stella Maris, e co-autore della pubblicazione ospitata da Jama. “Il fatto è – dice il neuropsichiatra – che lo strumento diagnostico che abbiamo utilizzato in Time-A valuta alcuni aspetti del bambino autistico, per esempio quello socio-comunicativo, ma non altri. In realtà, nel corso di Time-A, di effetti positivi significativi ne abbiamo rilevato diversi“.

L’IMPORTANZA DI IMPROVVISARE

Nei bambini che hanno partecipato al progetto – riprende Muratori- è aumentata la motivazione sociale, mentre sono diminuiti i manierismi autistici, i movimenti stereotipati e ripetitivi. È migliorata anche la regolazione emotiva che è una premessa per lo sviluppo delle abilità di interazione sociale. E l’effetto è stato più evidente nei casi in cui è stato possibile ‘improvvisare’ insieme al musicoterapeuta brevi brani musicali, il che è indice di una migliore sintonizzazione affettiva“.

IL MUSICOTERAPEUTA È UN MUSICISTA

La musicoterapia usa la musica per costruire una melodia con chi ha difficoltà di comunicazione, bambini ma anche adulti, autistici ma anche affetti da altre malattie. “È un dialogo fatto di suoni, di note musicali, che si improvvisa. Non è una lezione, non c’è nulla di precostituito, un po’ come accade a volte nel jazz“, spiega Muratori. E il musicoterapeuta non è uno psicologo che si improvvisa musicista ma un musicista che ha seguito un’opportuna formazione sia musicale che clinica, e che lavora all’interno di un team specialistico, come è avvenuto nel Time-A. In Italia ci sono scuole di formazione per musicoterapeuti ma la figura professionale non è ancora riconosciuta ufficialmente, a differenza di quanto avviene in altri Paesi“.

UNA PERSONA SU 100

L’autismo è una malattia dello sviluppo del cervello multifattoriale: le cause sono diverse e di diversa natura, ambientale e genetica. È affetta da disturbi dello spettro autisticocirca 1 persona su 100 – “in base a dati epidemiologici internazionali, nel nostro Paese non abbiamo dati certi e definitivi”. Ma se i numeri non sono sempre certi, è certo che il numero dei casi di autismo è in crescita nel mondo, perché è migliorata la capacità diagnostica e la sensibilità nei confronti di una patologia che include un’ampia eterogeneità di quadri: nelle persone che ne sono affette, il grado di abilità intellettiva e comunicativa è molto variabile e spazia da una compromissione grave ad abilità cognitive non verbali anche superiori alla norma: “Sono i cosiddetti talenti, per esempio ci sono bambini con capacità di percezione dei particolari e capacità grafiche notevoli. O anche con notevoli talenti musicali“, continua Muratori.

Di autismo non si guarisce, ma la diagnosi precoce che è possibile già nei primi due anni di vita, e di conseguenza l’intervento precoce sono strumenti importanti. È in questo contesto che va inserita la musicoterapia “che – conclude Muratori – può contribuire a migliorare la vita di chi soffre di autismo e delle loro famiglie“.

(repubblica.it)