Disabilità: rappresentarla in un’industria della moda migliore e più inclusiva

La scrittrice Madison Lawson, nata con una forma rara di distrofia muscolare e in sedia a rotelle sin dalla nascita, spiega come mai sia così importante che le persone con disabilità godano di una miglior rappresentazione sulle riviste di moda, nelle campagne pubblicitarie e in passerella

Moda e disabilità

Ho partecipato per la prima volta alla New York Fashion Week nel 2017. Non appena sono arrivata nella ‘città che non dorme mai’, mi sono resa immediatamente conto del perché la gente la chiami così: quando hai a che fare con barriere architettoniche ovunque, non puoi letteralmente appisolarti un attimo. Mi sono spostata da sfilata a sfilata per ritrovarmi, ogni volta, a incontrare persone all’ingresso che non avevano alcuna nozione di come far accedere all’edificio una persona in sedia a rotelle come me. A un certo punto, la mia assistente personale ha dovuto prendermi in spalla e trascinarsi dietro la mia sedia a rotelle. Che dire, non era di certo il tipo di ingresso che avevo sognato ma mi fece pensare: in un settore che celebra la diversità, come mai non c’erano altre persone come me ai vari eventi?

Sono nata con una forma rara di distrofia muscolare che causa una perdita progressiva della muscolatura in tutto il corpo e, in alcuni casi, persino il collasso di uno o entrambi i polmoni. La moda e il beauty sono da sempre una fonte di gioia e pace per me. Trovo la mia dimensione di normalità nelle stampe più vivaci o in un rossetto particolarmente accesso che mi permettono di distinguermi dagli altri e sentirmi davvero vista e non diventare un oggetto di studio sotto gli sguardi fissi delle gente. Questo perché, anche quando noto che inizialmente l’attenzione di qualcuno cade sulla mia sedia a rotelle, io non distolgo lo sguardo ma lo mantengo finché anche quello dell’altro si è spostato altrove – sul mio stile per esempio. Ma, come accade per tante altre persone con disabilità, in fatto di rappresentazione nel settore moda e beauty, mi sento spesso esclusa.

© Courtesy of Madison Lawson
Il potere della rappresentazione

Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il 15% della popolazione mondiale convive con una qualche forma di disabilità, il che rappresenta la più grande minoranza al mondo. Non solo. Si tratta anche della sola minoranza a cui chiunque potrebbe potenzialmente far parte in un certo momento della propria vita. Eppure, quando si tratta di raccontare le nostre storie, diventiamo degli stereotipi oppure siamo completamente esclusi dal dibattito.

Judy Heumann – attivista dei diritti dei disabili nonché un vero idolo per me – lo attribuisce alla nozione distorta per cui le persone con disabilità non siano, in qualche modo, in grado di vivere una vita piena. “La gente non ci vede come membri alla pari all’interno delle loro comunità; questo nelle scuole, nelle moschee, nelle chiese, nelle sinagoghe, nei centri sociali e, in generale ovunque”, afferma Heumann. “Ci guardano e pensano ‘Come potrei vivere la mia vita in quelle condizioni? ’” E questo è esattamente il motivo per cui una rappresentazione autentica è così necessaria.

Ma la questione moda e disabilità è ben più ampia e complessa. Da bambini, l’immagine della bellezza che ci creiamo si basa su ciò che la società ritiene bello. Cosa succede quindi quando il bello e il desiderabile non ha mai il tuo aspetto? Tanto per cominciare, la cosa ha un effetto deleterio sulla tua autostima e, a volte, diventa incredibilmente difficile accettare il proprio corpo.
Lo sa bene bene Bri Scalesse, di professione modella, diventata paraplegica all’età di sei anni in seguito ad un incidente stradale che le ha causato lesioni al midollo spinale. “Da bambina desideravo tantissimo vedermi riflessa in quelle immagini”, racconta a Vogue. “Ma non ritrovavo mai il mio corpo o la mia sedia a rotelle rappresentate in TV o nelle riviste. Non c’erano attrici o modelle disabili. E nemmeno nessuna principessa disabile”.

Social media & body positivity

Negli ultimi anni le cose hanno iniziato a cambiare. I social media sono uno strumento attraverso cui le persone con disabilità sono finalmente in grado di esercitare il controllo su come vengono viste. Inoltre, le richieste di una maggior diversità in tutti i settori e la crescita del movimento della body positivity hanno reso possibile celebrare la bellezza in tutte le sue forme. Di conseguenza, ora vediamo persone con disabilità in passerella, sulla copertina delle riviste e nelle campagne pubblicitarie di abbigliamento o beauty. La tanto attesa rappresentazione sta, lentamente ma inesorabilmente, abbattendo lo stigma storicamente legato alla disabilità. Ma il percorso non è stato né semplice né immediato.

Nel 2017, mentre osservavo i corpi sulle passerelle – ma anche lontano da queste – c’era solo un individuo che mi assomigliava: la modella Jillian Mercado. Mercado è la prima persona da cui mi sono sentita davvero rappresentata in quanto è affetta da una forma di distrofia muscolare e utilizza la sedia a rotelle per muoversi. Proprio come me.

Crescendo Mercado si è sentita emarginata da standard di bellezza all’insegna dell’abilismo. Ha deciso quindi di sfidarli dall’interno studiando marketing al Fashion Institute of Technology di New York per poi fare uno stage nella redazione di Allure. Dopo aver fatto la modella per diversi progetti di moda di amici, nel 2014 ottiene un contratto con Diesel per una campagna pubblicitaria. L’anno successivo viene scritturata dall’agenzia di modelle IMG e, da allora, è apparsa in campagne per il merchandise Formation di Beyoncé, per il grande magazzino di lusso americano Nordstrom e, di recente, era sulla copertina di Teen Vogue.

Sono così tante le persone non rappresentate a sufficienza, che sentono di non esistere o di essere invisibili in quello che è un contesto fondato sulla visibilità”, dichiara Mercado a proposito di cosa l’abbia motivata. “Volevo che queste persone si sentissero incluse. Che sentissero di poter anche loro essere modelle/i”.
La gente con disabilità viene spesso lodata per il suo coraggio. Un complimento che può turbare chi lo riceve in quanto molti di noi non si sentono coraggiosi per il semplice fatto di perseguire ciò che desideriamo come fa chiunque altro. Di sovente la nostra testardaggine viene spesso trascurata.

Laddove Mercado ha fatto da apripista, altri l’hanno seguita. Per esempio, Aaron Philip che, nel 2018, è diventata la prima modella disabile, nera e transgender ad essere scritturata da una delle maggiori agenzie per modelle dopo che uno dei suoi tweet è diventato virale. Allo stesso modo, Chella Man, modello transgender non udente, che è salito alla ribalta dopo aver condiviso foto di sé online.

Ma c’è anche la docente, scrittrice e sostenitrice dei diritti dei disabili, Sinéad Burke, una ‘little person’ (persona piccola, termine che preferisce per riferirsi all’acondroplasia da cui è affetta, ndt) originaria dell’Irlanda che è apparsa sulla copertina di Vogue UK a settembre 2019. Non solo. Quello stesso anno, Burke è stata anche la prima persona piccola a partecipare al Met Gala sfidando il tradizionale concetto di inclusione con un abito Gucci realizzato ad hoc. Un anno dopo, Gucci faceva notizia ingaggiando Ellie Goldstein, una giovane modella con la sindrome di Down come nuovo volto di Gucci Beauty.

Oltre la rappresentazione

L’inclusione delle persone con disabilità nell’industria della moda e del beauty ha rappresentato un importante passo avanti nella giusta direzione ma la strada da compiere è ancora lunga. “La rappresentazione della disabilità quale uno degli aspetti chiave della diversità è solo l’inizio”, dichiara Scalesse. Come darle torto. Sebbene il settore si sia attivato in fretta per rispondere alle richieste di alcune delle comunità minoritarie, la nostra sembra essere stata lasciata indietro.

È giunto il momento di andare oltre la rappresentazione di facciata e le concessioni minime e simboliche. Certo, vogliamo vedere più persone con disabilità di fronte alla macchina fotografica ma c’è bisogno di una maggior inclusione e rappresentazione anche dietro l’obbiettivo. Dobbiamo poter vedere persone che assomigliano a noi ricoprire ruoli di potere nelle riviste, all’interno dei brand di moda e dei marchi di bellezza internazionali, nelle squadre a capo delle Fashion Week, all’interno delle agenzie di casting. In tutti quei luoghi che si sono storicamente dimenticati di noi.

Dopotutto, che senso ha vedere qualcuno che ti assomiglia in una campagna pubblicitaria se poi il marchio pubblicizzato non è in grado di rispondere ai tuoi bisogni? Allo stesso modo, perché ingaggiare una modella per un servizio o una sfilata di moda se le è impossibile accedere in maniera adeguata al luogo dello show o nel backstage?

Il 2020 è stato, sotto molti punti di vista, l’anno del risveglio. L’anno in cui prendere atto di tutte quelle voci che erano state ignorate. Brand, a cui non era mai stato chiesto di rendere conto del proprio agire, sono stati pubblicamente criticati per le loro politiche di facciata e per la disparità di trattamento delle minoranze mentre il mondo intero era costretto a rallentare e ad ascoltare. Il 2021 deve essere l’anno dell’azione.

(Vogue.it)

Crip camp: la “rivoluzione” per i diritti delle persone con disabilità

Il documentario prodotto dalla società degli Obama tra favoriti agli Oscar

Un campeggio estivo per ragazzi con disabilità fisiche e mentali. Camp Jened, creato negli anni ’50 e chiuso nel 2009 sui monti Catskills nello Stato di New York a inizio anni ’70, diventa il luogo di ‘fondazione‘ di un gruppo unito, libero e motivato di giovanissimi destinato a diventare una parte importante nelle proteste collettive per i diritti dei disabili. Simbolo di questo percorso è Judith Heumann, sopravvissuta alla polio e attivista in prima linea, diventata un’icona internazionale per il suo impegno.

Una storia affascinante raccontata da un altro ‘ragazzo‘ di Camp Jened, Jim LeBrecht. Regista con Nicole Newnham di Crip Camp – Disabilità rivoluzionarie disponibile su Netflix, ha conquistato nel 2020 il premio del pubblico per i documentari al Sundance. Adesso è dato fra i favoriti per l’Oscar al miglior documentario. Fra i primi a credere in Crip Camp ci sono stati Barack e Michelle Obama. La loro società, la Higher Ground è coproduttrice del film e loro compaiono anche come coproduttori esecutivi. “Il presidente Obama ha visto tre diversi montaggi del documentario, ci ha dato i suoi feedback ed è stato molto generoso nel promuovere il film – spiega Nicole Newnham nell’incontro online con Jim LeBrecht organizzato dall’American Cinemateque -. Ha voluto dire tantissimo per noi“.

Crip camp grazie all’uso dei filmati girati a inizio anni ’70 a Camp Jeden dal People’s Video Theater, ci fa scoprire da adolescenti i protagonisti della storia, che rivediamo nel presente, e la straordinaria esperienza condivisa nel campeggio. Un luogo dove erano arrivati gli echi del ’68. I ragazzi, aiutati da giovani volontari, si ritrovavano a fare gruppo, tra nascita di amicizie andate avanti per una vita e le prime esperienze di innamoramento e sesso. Giorni uniti da momenti di divertimento e di confronto fra coetanei, sulle difficoltà comuni, come i pregiudizi subiti o le continue preclusioni che gli imponeva la società. “L’esperienza del campo ci ha emancipati, abbiamo capito che lo status quo doveva cambiare” spiega nel film Judith Heumann. (ANSA).

Il trailer originale del documentario che è candidato agli Oscar

Un Master Universitario sulla gestione della disabilità e della diversità

Sono aperte fino al 29 marzo le iscrizioni alla nuova edizione (la terza) del Master Gestione della disabilità e della diversità. Il master è roposto ancora una volta dal Dipartimento di Management e Diritto dell’Università di Roma Tor Vergata, in collaborazione con la SIDIMA (Società Italiana Disability Manager).
L’iniziativa è il frutto di un protocollo d’intesa volto ad innalzare lo standard qualitativo della figura del disability manager, attraverso un percorso formativo universitario e interdisciplinare. 

questo link è disponibile un’ampia presentazione dell’iniziative, con le modalità per iscriversi al Master. Per ulteriori informazioni: Ufficio Stampa SIDIMA (Jessica Didone), stampa.sidima@gmail.com.
Disability manager
Tale figura si può definire così: è un professionista adeguatamente remunerato, con un ruolo di supervisione in ogni àmbito (accessibilità, mobilità, politiche sociali, scuola, lavoro ecc.); vigila sul rispetto della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità; fa sì che tutti gli attori istituzionali, quando pianificano, si chiedano: «Questa decisione che effetto avrà sulle persone con disabilità?».

Disability Management

In àmbito lavorativo rappresenta una strategia d’impresa utile a coniugare, in modo soddisfacente, le esigenze delle persone con disabilità da inserire – o già inserite – con le necessità delle aziende.

La SIDIMA

La Società Italiana Disability Manager è un’associazione costituitasi nell’aprile 2011 grazie alla volontà dei primi disability manager italiani, che ottennero tale titolo frequentando il primo Corso di Perfezionamento post-laurea in Disability Manager organizzato dal Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. L’obiettivo principale della SIDIMA è la ricerca e la promozione della cultura del Disability Management, nei vari contesti di riferimento, quali le Istituzioni, la Sanità e le Aziende, al fine di sensibilizzare e tutelare i diritti delle persone con disabilità e il rispetto della persona in ogni suo aspetto, dimensione e momento della vita, in ottemperanza anche alla ratifica da parte dell’Italia della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, incidendo con forza nell’elaborazione delle politiche a livello nazionale e locale e lavorando per renderle più efficaci.
Lo scorso anno la SIDIMA ha pubblicato il Manifesto del Disability Manager, disponibile gratuitamente a questo link.

(Rielaborato da superando.it)

Re Minore: Ascolto e Azione

Rubrica a cura di Elena Beninati – Giornalista/Fotografa

Il vuoto è l’anticamera della possibilità, molto più spesso, però, l’energia libera senza contenimento si annichilisce e trasforma il vuoto in un limite, creando una immensa solitudine. Nei soggetti sani l’ostacolo alla propria realizzazione è determinato esclusivamente dalla carenza di volontà, e ogni imprevisto è superabile virando in positivo un atteggiamento statico e attendista. Per chi è caratterizzato da disabilità, fisica o psichica, l’ostacolo, tangibile impone all’orizzonte un ulteriore limite.

Da un lato il vuoto è lo sfondo inaugurale di ogni impresa, ma dall’altro il vuoto è l’enigma che vi si interpone nella comunicazione tra un uomo e ciascun altro.

A. G. Gargani

Cosa fare per superare le distanze e assecondare al meglio le proprie potenzialità?
Agire comunicando!
Da un lato vi sono le dissertazioni scientifiche che analizzano il tema del linguaggio e al contempo il tema insaturo della comunicazione, dall’altro vi è l’argomentazione fondante che affronta il dilemma dell’amore quale elemento dinamico dell’essere al mondo. Un mondo complesso articolato nel linguaggio e luogo di incontro.
Un incontro che può avvenire solo in uno spazio di fiducia e autenticità, intesa, quest’ultima, come categoria che regola l’essenza della salute psichica nel rispetto dell’unicità dei soggetti, abili o disabili allo stesso modo.

“Quando si vive soli non si parla troppo forte, perché si teme la vuota risonanza, e tutte le voci suonano in maniera diversa nella solitudine..

L’umanità ha sempre cercato di cogliere la verità oltre ogni apparenza e ben al di là dell’oggettività. La stessa umanità però, talvolta si dimentica di trovare il giusto mezzo per accedervi senza inganno. Il mezzo è un linguaggio comune che permetta di accostarsi all’altro superando la differenza.
Grazie ad una sorta di linguaggio aumentato, in cui entrano in gioco il corpo e le relazioni sociali, è possibile comprendere il “diverso”, in una dinamica di accettazione reciproca in cui svanisce la “diversità” e permane l’autenticità.

Se è vero che si può comprendere in senso vero e proprio solo ciò che ha lo stesso modo di essere di colui che comprende, il linguaggio deve essere capace di penetrare la natura della differenza. Il linguaggio è uno strumento che ci permette di agire sul mondo, come diceva il filosofo linguista Searle: “facendo cose con le parole”. La funzione di apertura della lingua, che ci orienta nel mondo secondo prospettive diverse, ci permette di incontrare l’altro nella sua diversità, ma soprattutto in un rapporto immediato, che ci apre alla condivisione e alla socialità.
Senza questa base di reciproca comprensione qualsiasi chiamata dall’altro cade nel vuoto. È proprio l’incomprensione ciò che inibisce il rapporto in qualsiasi forma di malattia.

Dunque affinché la voce del “malato” si trasformi in un appello, e quindi in una azione che reclama attenzione e vicinanza, va creato uno spazio di ascolto e luogo “vuoto” di condivisione, in cui ogni forma di espressione sia rispettata e non squalificata. Altrimenti, come ammoniva Nietzsche, si perde la vicinanza rischiando di sprofondare nel suo opposto.

(Vietata la riproduzione)

What Nudity Means to Me As a Person With a Disability

Every time I see those obligatory bathroom shots of the really attractive guy posturing at his mirror in the hopes of enticing a part-time lover for the evening, I let out a wee smirk of excitement and giggle. This is primarily for two reasons. First, I must admit, I love seeing people own their sexuality, and whenever someone has the stones (puns intended) to be that bold, it is a turn on of epic proportions. It’s like they’re saying, “this is who I am. Deal with it.” Confidence is one hell of an aphrodisiac in my books.

The second reason that I gleefully grin at these types of photos, is because I am extremely envious of the ease with which they were taken, how simply the individual whipped off their clothes without a second thought, and took the picture. In a matter of 20 seconds, the guy is completely au naturel. He is baring all in the buff, independent of anyone else’s hands or help. What I would give for it to be that easy.

For the deliciously disabled, getting naked holds with it a few connotations, challenges and a level of connectedness that I want to expose for you all.

1. 2 Hours or Less:

First of all, for me to take the same obligatory bathroom shot would take forever and a day. I remember one night when I was in college some years ago someone had asked me to send them a dick pic. Not being the least bit shy about unpacking all that I have to offer, I decided to oblige this individual. I looked down and realized that I had to try to figure out how to get my pants off. Unlike the mere seconds it would take my counterparts to perform this action, it took me almost 2 hours to push the pants down off of my body. At this point, I was red in the face and huffing and puffing (and not in the ways I wanted to be). By the time I was done, I felt like I had won every Olympic race ever (I would especially get the gold in size — cough, cough). When I eventually sent the selfie to him, hoping that he would approve, he said the angles were weird, and could I take another one. If only he knew the struggle that I had just gone through to take this for him. Bah! There I was with my pants down, alone in the dorms unable to pull them back up on my own, hoping that no one came in right at that moment.

2. My Nudity reminds me that I am Different:

There have been moments where I have looked in the mirror and lamented my “broken” body that looks back at me. My disability belly protrudes forward while my underdeveloped legs lead to my twisted toes that curl in on themselves. Then there is the gigantic scar from my spinal fusion surgery that goes from my shoulder blades to my bum. Each of these markers have, at times, served as reminders of everything I can never be, no matter how hard I try. Okay, we could sit and wallow in this, but let’s rewind a minute, and explore that deliciously disabled body once more.

Imagine that you were lying next to me, tracing my body with your fingertips (it’s a great visual, so go ahead, take a minute). Here is what you would find: If you traced from my shoulder blades down my spine, instead of seeing the scars of a surgery long past, you would twist and turn down every curve of my body, the line acting like a roadmap to the treasure trove that is my seldom seen behind (which I have heard is fantastic). Move along across my smooth skin to my disability belly, which acts as the keeper of my emotions; it is there that I have kept every feeling for everyone I have ever liked. Then you will reach my legs. Once you put your hands on them, they open, spastically inviting you in. My feet are curled and my toes twisted, but that only adds to my originality. This, and, you can say that you really did make my toes curl. My body is indeed a wonderland, full of detours and diversions that everyone should dive on into.

3. I am Naked, I am Free:

Each and every day, I am dressed and strapped into many different devices. I have a leg bag attached to me first thing in the morning to which my ‘manhood’ is secured. I am then dressed in clothes that I cannot remove myself, and that can sometimes feel tight and confining (imagine your pants being bunched all day). In them I try to look at presentable and passable as possible. They lock me into the normalcy that I constantly crave. Finally, I am strapped into my wheelchair — both my feet and my lap are belted in tight. Very rarely do I have the opportunity to revel in the purity, possibility and positivity that is the naked form. Typically, that is only reserved for showering or the bathroom. The nakedness is necessary, purposeful, and perfunctory.

The whole idea of walking around one’s apartment naked is luxurious, extremely appealing and is a fantasy that I often dream of. The reality of this would mean having to explain to my attendant why I wanted to do so, deconstructing my disrobing. It would then lose all of its appeal, and it would no longer be my moment as a man. When I get to be naked, I am in touch with all that makes me whole. No straps, clamps or buttons that are just out of reach, denying me access to the sexiest parts of myself. No judgment. I am free. I am not what I should be or could be. I simply am. No apologies or abnormalities here.

When you look at the disabled dude in the nude, you could see vulnerability, disability and deformity. Your gaze could be one of disgust and fear, followed by the desire to leave. But, if you took a minute and looked just a little bit closer, you’d see that the one who is sitting before you is in fact, 32 flavors of delicious disability you have yet to sample. Shall I get you a spoon?

(This post originally appeared on the blog A Dose of Deliciously Disabled)

di Giovanni Cupidi