Disabilità: un algoritmo musicale migliora il sonno dei piccoli

Un algoritmo musicale migliora il sonno dei bambini disabili, li rilassa e riduce lo stress dei genitori.

Si tratta di una precisa sequenza di suoni, voci, musiche e immagini sviluppata dai ricercatori dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù e personalizzata in base alle necessità di ciascun paziente. La nuova tecnica riabilitativa è stata sperimentata durante il primo il lockdown del 2020 come terapia sostitutiva delle sedute in Ospedale per garantire la continuità delle cure anche a casa. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista scientifica “Journal of Telemedicine and Telecare”.

Il metodo riabilitativo sviluppato dai ricercatori del Bambino Gesù si chiama “Euterpe”, dal nome della mitologica dea della Musica. Viene regolarmente utilizzato dai terapisti del Dipartimento di neuroriabilitazione del Bambino Gesù, diretto da Enrico Castelli, per la stimolazione multisensoriale dei bambini con disabilità motorie e neurologiche attraverso l’uso combinato – secondo le necessità del paziente – di suoni, musiche, immagini, aromi, oggetti, strumenti e luci.
Durante il primo lockdown del 2020 questa terapia è stata rielaborata per essere eseguita anche a domicilio (teleriabilitazione). Sono stati così realizzati dei componimenti audio-video personalizzati che contenevano suoni a particolari frequenze, musiche originali, la voce della mamma e del bambino stesso, canzoni e ninne nanna familiari, immagini legate a momenti piacevoli registrate durante le sedute al Bambino Gesù.

Lo studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di neuroriabilitazione del Bambino Gesù ha coinvolto 14 pazienti affetti da diversi disturbi neurologici (paralisi cerebrale infantile, sindromi genetiche, malformazioni cerebrali), tutti al di sotto dei 12 anni (età media 7 anni e 5 mesi). Al termine della sperimentazione, gli effetti della terapia a domicilio sono stati valutati con appositi questionari scientificamente validati. Dall’analisi sono emersi dati statisticamente significativi. In particolare la riduzione dei disturbi del sonno dei bambini, i livelli di stress dei genitori e il miglioramento della relazione bambino-genitore.

Oltre ai risultati raggiunti – dice la neuropsichiatra infantile Sarah Bompardè importante sottolineare che, grazie a questo studio, i bambini hanno potuto proseguire, seppure in modi e tempi diversi, una terapia riabilitativa. Siamo riusciti a dare un importante supporto anche ai genitori, preoccupati che la disabilità dei figli potesse peggiorare con la sospensione delle terapie riabilitative in Ospedale. È importante inoltre sottolineare che tutte le famiglie hanno proseguito la somministrazione dei componimenti audio-video personalizzati anche dopo il termine dello studio, dati i numerosi benefici riscontrati. Tra i nostri obiettivi futuri vi è sicuramente quello di condurre studi su un numero maggiore di pazienti e con patologie diverse”.

(agensir.it)

Lo sguardo delicato sulla disabilità di Valentina De Rosa

Nel progetto ‘Villa Monteturli’ i protagonisti sono persone con gravi disabilità motorie e psichiche, ritratte dalla fotografa napoletana


Il primo elemento che colpisce osservando i ritratti realizzati da Valentina De Rosa sono i colori brillanti e intensi, con l’energia delle immagini che scaturisce dall’armonia tra le tonalità e gli sguardi dei soggetti, definiti con pennellate di luce naturale. Del resto, la fotografa ha iniziato i suoi studi proprio con il corso di pittura e fotografia all’Accademia di Belle Arti di Napoli, proseguendo il suo percorso artistico all’interno del Laboratorio Irregolare a cura di Antonio Biasiucci, una masterclass biennale focalizzata sulla ricerca personale e la fotografia d’autore. È proprio in questa fase che Valentina inizia a realizzare una ricerca sociale e psicologica che ruota intorno alla condizione umana e a i suoi aspetti impercettibili a occhio nudo.

Nel progetto Villa Monteturli, esposto all’ottava edizione del festival Castelnuovo Fotografia, i modelli di Valentina De Rosa sono persone di età diverse con gravi disabilità motorie e psichiche. La “Villa” in realtà è una struttura di riabilitazione estensiva a Firenze che ospita una trentina di pazienti che hanno bisogno di cure e attenzioni particolari. Una circostanza umana che intimorisce ma che viene fortemente esorcizzata nel lavoro dell’artista.

È interessante andare a comprendere il grado di fiducia che Valentina De Rosa instaura con le persone da lei ritratte che per un attimo, solo per un attimo, sembrano dimenticare il luogo in cui si trovano. I soggetti sono sempre al centro dell’inquadratura, cristallizzati, elemento che crea una strana condizione, innaturale e vera insieme, come se trovassero una via di fuga nell’istante dello scatto. La fotografia regala bellezza e libertà. Con Villa Monteturli non ci si trova di fronte a un classico reportage, perché le immagini non denunciano una condizione, tutt’altro: la disabilità viene narrata con delicatezza e profonda dolcezza. È palese come la fotografa sia riuscita creare empatia con i pazienti e a raccontarli con grande rispetto. «Ho iniziato a scattare quando non ero più un’estranea per loro» dice Valentina.

Villa Monteturli © Valentina De Rosa

La composizione di ogni immagine è simmetrica e minimale, lo sfondo costituito da pareti di colore diverso, ora giallo, poi verde o turchese, colori che rendono ogni ritratto chiaro e ben definito. Le tinte sempre più accese avvolgono il soggetto in primo piano, smussando a volte la sofferenza o la timidezza oppure, come nel caso dell’uomo su parete verde, alcune disabilità fisiche esterne. Nel tentativo di normalizzazione e di evasione dalla sofferenza attraverso l’immagine, risiede un’influenza stilistica di Diane Arbus che in qualche modo Valentina De Rosa ha attualizzato e portato fino al 2013, anno in cui inizia il suo lavoro a Villa Monteturli.

La paura e di conseguenza il senso di marginalità vengono allontanati attraverso il mezzo fotografico. L’obiettivo ha un potere “espiatorio”, è un passaggio tra i soggetti e il mondo esterno e Valentina De Rosa con grande sensibilità accompagna i suoi soggetti in questo percorso.  Si riconosce la capacità di metterli a proprio agio, di aiutarli a trovare una “posa” per tirar fuori quello che vogliono far vedere a chi li osserva. Ne è un esempio lo sguardo della signora con i due fiori, a tratti freddo ma carico e immenso che ti cattura e le conferisce una figura solenne. L’iter di questa ricerca, che possiamo definire iconica e sociale al tempo stesso, non è stato facile; è chiaro come il risultato finale sia l’esito di un rapporto costruito giorno dopo giorno e che ha richiesto molta energia da parte della fotografa. Sono assolutamente innegabili la lucidità e l’attenzione nella definizione dei ritratti ed è notevole la cura artistica nella rappresentazione di un tema così delicato come la disabilità.
(rollingstone.it)

Riabilitazione ictus e staminali per le disabilità motorie

Dopo un ictus cerebrale, circa il 50 per cento dei sopravvissuti presenta un grado di disabilità motoria più o meno grave, la riabilitazione è molto importante ma un aiuto ulteriore potrebbe arrivare dalle staminali. Poco più del 20 per cento delle persone colpite da ictus, in genere si tratta di una forma lieve, non presentano delle disabilità, nella maggior parte dei casi non si è però così fortunati, ora una tecnica messa a punto presso la Stanford University School of Medicine (California) riaccende le speranze in tutti quei pazienti non più autosufficienti a causa di un infarto cerebrale. Grazie a un’iniezione di cellule staminali nel cervello si è riusciti a “guarire” le disabilità motorie in 18 pazienti (7 uomini e 11 donne), i risultati della sperimentazione sono stati pubblicati sulla rivista Stroke (Clinical Outcomes of Transplanted Modified Bone Marrow-Derived Mesenchymal Stem Cells in Stroke: A Phase 1/2a Study – Doi: 10.1161/STROKEAHA.116.012995).

Come accennato, dopo un ictus cerebrale si possono presentare scenari differenti: una certa percentuale di persone non sopravvive (circa il 10 – 20 per cento muoiono entro un mese e un’altro 10 per cento entro un anno), una minoranza supera l’evento avverso senza problemi mentre la maggior parte presenta delle disabilità permanenti più o meno gravi. Anche se la riabilitazione ha fatto enormi passi avanti rispetto al passato, ancora oggi molte di queste persone non sono più autosufficienti. Gary K. Steinberg, primo autore dello studio, spiega che la tecnica messa a punto ha dell’incredibile, dopo appena un mese dal trattamento gran parte dei pazienti ha mostrato notevoli miglioramenti nelle funzioni motorie: alcuni pazienti che si muovevano esclusivamente in sedia a rotella hanno ripreso a camminare e altri che non potevano più muovere le dita della mano hanno ripreso a farlo.
La terapia post ictus prevede prima di tutto il prelievo di staminali dal midollo osseo di alcuni donatori, queste vengono successivamente modificate al fine di farle acquisire funzioni neurali. Nella fase successiva, attraverso una craniotomia (un piccolo forellino nella scatola cranica: burr-hole), vengono iniettate le staminali nell’area interessata dall’apoplessia (ictus).
Tutti i pazienti coinvolti nello studio sono stati seguito per un periodo di due anni e già dopo un mese dall’intervento sono stati rilevati i primi miglioramenti. Durante il follow-up i miglioramenti ottenuti sono apparsi stabili e non sono stati riscontrati effetti avversi a parte dei leggeri mal di testa transitori (del tutto normali nei casi di craniotomie). I 18 pazienti coinvolti nello studio non sono stati scelti a caso, tutti avevano subito un ictus in un periodo antecedente allo studio compreso tra sei mesi e tre anni, si è partiti dai sei mesi perché se con la riabilitazione non si recupera il “movimento” entro questo periodo difficilmente ci saranno dei miglioramenti in futuro, in questo modo i progressi fatti nelle abilità motorie erano riconducibili unicamente all’intervento.
Per valutare i miglioramenti nei pazienti i ricercatori si sono avvalsi della European Stroke Scale (ESS), una scala utilizzata nella pratica clinica per quantificare la gravità del deficit provocato da un ictus cerebrale. Considerando una scala che va da 1 a 100, dove 100 è la completa capacità di movimento, i pazienti coinvolti nella sperimentazione hanno ottenuto mediamente un miglioramento di 11,4 punti (un valore che potrebbe sembrare basso ma è molto rilevante in ambito clinico). Gary Steinberg spiega che in un caso, una donna di 71 anni, prima della cura la paziente poteva muovere solo il pollice sinistro e ora non solo riesce a camminare ma può anche sollevare il braccio sopra la sua testa.
Gli autori dello studio spiegano comunque che non si può ancora sapere con certezza se tali effetti saranno permanenti o meno, bisognerà quindi continuare a monitorare i pazienti e condurre ulteriori indagini su un campione più ampio di partecipanti. Bisogna inoltre precisare che non si parla di una vera e propria guarigione ma si tratta di un recupero parziale delle funzioni neurologiche perse in conseguenza dell’infarto cerebrale, un risultato comunque molto importante perché interessa pazienti con deficit da ictus ormai stabilizzati per i quali attualmente non esistono trattamenti efficaci.
(universonline.it)