Detto tra noi: Caregiver dall’alto dei Cieli

Rubrica a cura di Angiola Rotella – Presidente di Insieme per l’Autismo Onlus

E’ trascorsa una settimana da quando la mia mamma ha lasciato questa vita terrena e le riflessioni che faccio sono tantissime. Lei era un caregiver di quelli corazzati e mio fratello ed io siamo stati i suoi per un po’. Ma lei è stata la mamma dei caregiver fino all’ultimo. Ci ha protetti dalla sofferenza del suo calvario, illudendoci che potesse guarire, ma facendoci comunque comprendere che la vita eterna esiste.

Quando mi ha detto che stava morendo, ho interpretato le sue parole come una domanda. Le ho risposto che non si muore così, non funziona così, che doveva pensare alla vita, non alla morte. Quelle mie stesse parole, in quel momento non le ho capite neanche io.

Le sto capendo adesso, e le condivido con tutti voi, per diffondere un messaggio chiaro ed inequivocabile. Si è caregiver sempre e comunque. Anche dall’alto dei cieli. Ci affanniamo a sistemare tutto per il “dopo di noi” e spesso trascuriamo il “durante noi”. Ma dall’alto dei cieli l’opera di un caregiver continua a costruire la sua fortezza. Anzi lo fa in maniera ancora più prepotente perché non ammette repliche.

Quello che ti ho lasciato, figlio mio, è il libretto di istruzioni.”

Il caregiver è eterno perché si è preso cura dei suoi cari ed i suoi cari si sono presi cura di lui. Perché attraverso il suo combattimento ha imparato e lasciato una eredità di valore inestimabile. Perché attraverso questa eredità, continua per sempre a prendersi cura delle persone che ama.

Tutti siamo potenziali caregiver, dipende solo dalla capacità di ciascuno di noi, di rendersene conto.
Tutto è possibile, se ci crediamo veramente, se siamo pronti ad accettare l’incarico che ci è stato affidato e di conseguenza siamo pronti a combattere in prima linea sotto un’unica grande bandiera. C’è un solo grande motore che muove la macchina del caregiver: la forza dell’Amore.

A Rosa, e a tutti gli immortali.

*in foto Rosa Conte insieme a PIF – Marcia per la Dignità 2017 a Palermo

Caregiver, quel legame che il Covid non può spezzare. Dalla tragedia la proposta

Prende spunto da una storia drammatica, la proposta di un protocollo che permetta l’affiancamento per le persone non autosufficienti in ospedale, presentata da alcune associazioni al ministro Speranza. La storia è quella di Daniele, uomo con disabilità ucciso dal Covid; del papà che si è “lasciato andare” e della mamma che non lo ha potuto salutare



Un protocollo che obblighi gli ospedali a ricoverare, insieme al paziente con disabiltà, anche il suo caregiver familiare, garantendogli i servizi essenziali: è una richiesta che da tempo con forza rivendicala la community “Sorelle di Cuore”, di cui fanno parte varie realtà associative e di cui è moderatrice Oltre lo Sguardo onlus. Una richiesta che parte da una certezza: il caregiver è la cura e spesso l’unica possibilità di guarigione per le persone con disabilità che si ammalano di Covid (e non solo). Oggi la Community torna a chiedere con forza un protocollo che garantisca questa possibilità, mentre si moltiplicano le storie, spesso drammatiche. 

C’è la storia di Gabriella, la mamma ricoverata da oltre tre settimane insieme al figlio disabile. E c’è la storia, tanto drammatica quanto silenziosa, di Daniele, che al Covid non è sopravvissuto; del padre, che si è lasciato “portar via dal Covid” quando ha capito che questo si sarebbe preso suo figlio; e della mamma, che ha dormito in macchina per giorni, fuori dall’ospedale, pur di accompagnare fino alla fine quel figlio a cui aveva dedicato la vita, ma a cui non ha potuto stare accanto, nel momento più brutto. 

Daniele se n’è andato e il papà ha voluto raggiungerlo

A raccontarci la storia di questa famiglia, a cui è ispirata e dedicata la proposta di protocollo che le associazioni presentano al ministro Speranza, è Elena Improta, fondatrice di Oltre lo sguardo e mamma caregiver di Mario. “Ho ricevuto la telefonata dei parenti di Daniele una sera tardi, circa 15 giorni fa. La mamma piangeva e urlava che le stavano portando via il figlio. Daniele, 50 anni e una grave disabilità, aveva difficoltà respiratorie e risultò poi positivo al Covid. Così come positivi risultarono poi anche la mamma e il papà. Lo ricoverarono al Pertini, ma si aggravò presto: una notte ebbe un attacco cardiaco e lo trasferirono a Casal Palocco. La sorella, che si appostava fuori dal Pertini, lo vide salire in ambulanza coperto malamente e sofferente. Sapevamo tutti che Daniele non ce l’avrebbe fatta”. Per questo, “feci tutto il possibile per far rivedere alla madre suo figlio: lei dormiva in macchina, sotto l’ospedale, per stargli più vicino. Grazie a una amica, prima che consigliera regionale , abbiamo stabilito un contatto con il direttore sanitario di Casal Paloco, siamo riuscite a farle avere un video di Daniele, sedato e con il volto sereno. E’ l’ultima immagine che ha visto di suo figlio, che ha potuto salutare solo dalla finestra, quando il carro funebre, su richiesta dei parenti, è passato sotto casa”.

Il dolore è stato lacerante, per la mamma di Daniele, “che dopo 50 anni dedicati completamente al figlio, non ha potuto accompagnarlo fino alla fine. Ed è stato devastante per il papà, che si è lasciato andare e ha raggiunto il figlio poche ore dopo: ricoverato anche lui con sintomi del Covid, ha rifiutato di farsi curare, voleva andare con Daniele. Così questa donna è rimasta sola con il suo dolore: noi possiamo solo starle accanto, in punta di piedi, come ‘sorelle di cuore’, immedesimandoci tutte, come mamme caregiver, nella sua drammatica solitudine”. 

Un protocollo, perché il caregiver “possa curare” anche in ospedale

Sono storie come questa a rendere urgente e accorato la richiesta che dall’inizio della pandemia le associazioni di caregiver rivolgono alle istituzioni e che oggi indirizzano al ministro Speranza: quella di percorsi sanitari dedicati per le persone con disabilità, che prevedano la possibilità, per il caregiver, di esserci e di assistere il proprio caro, per aiutarlo a guarire, quando questo sia possibile, o per accompagnarlo fino alla fine, quando ci sia altro da fare.

Le persone non autosufficienti spesso non sono in grado di restare da sole neanche per pochi minuti al giorno, senza correre dei seri rischi per la loro incolumità – si legge nella lettera aperta – Per questo, anche e soprattutto quando sono malate, queste persone hanno necessità di avere una presenza costante, con figure di riferimento affettivamente significative, che possano rappresentare un indispensabile veicolo di facilitazione tra un contesto alienante e traumatizzante e l’esposizione dei propri bisogni sanitari, in una collaborazione indispensabile, che è premessa essenziale per ogni tipo di cura o terapia. Il caregiver familiare – si legge ancora – è una figura affettiva che, proprio per il fatto di aver ricoperto a lungo il ruolo di prestatore di cura e, al contempo, facilitatore tra la persona non autosufficiente e il resto del mondo, rappresenta una risorsa indispensabile e universalmente riconosciuta per qualsiasi approccio terapeutico, a maggior ragione in contesti di emergenza come quelli che occorre affrontare in una pandemia, dove la scarsità di risorse umane è costantemente in sovraffaticamento. Per questo motivo – affermano le associazioni – appare indispensabile e urgente effettuare un protocollo obbligatorio, quindi non più lasciato al giudizio insindacabile di un dirigente sanitario, che permetta l’affiancamento del caregiver familiare per le persone non autosufficienti affette da Covid in ospedale sin dalla loro ingresso in pronto soccorso che nei reparti sub intensivi. Tale protocollo – precisano le associazioni – deve garantire il servizio alberghiero, con letto e pasti e dispositivi di protezione alla persona che presta assistenza 24 ore su 24, prevedendo la possibilità di una stanza singola con doppio letto. Nell’eventualità non fosse possibile reperire una stanza singola, si potrà prevedere un ambiente isolato da un paravento per la persona non autosufficiente e il suo caregiver familiare”.

Familiari in ospedale, una storica e necessaria sinergia

Una proposta valida per le persone non autosufficienti, ma “anche per gli anziani, che sono i più numerosi pazienti ricoverati per Covid – osserva Sara Bonanno, di Oltre lo sguardo – Anche prima della pandemia, la sanità ospedaliera faceva enorme affidamento sui familiari: ancor prima di visitare gli anziani, si chiamavano i parenti, anche solo per conoscere la storia clinica. E’ sempre stato evidente quanto il supporto del familiare sia fondamentale nei casi in cui il paziente non sappia spiegare le sue problematiche e riferire la propria storia clinica. Ora, se anche in pronto soccorso è vietato l’ingresso ai familiari, quando il paziente non sia in grado di fornire correttamente le informazioni indispensabili per i medici, è inevitabile che le cure siano inefficaci. Neanche se fossero in tanti, i medici e gli infermieri potrebbero sostituire i familiari, figuriamoci ora che sono insufficienti. Ecco perché occorre assolutamente trovare il modo per consentire ai caregiver familiari di stare accanto a questi pazienti, naturalmente nel rispetto di tutte le norme di sicurezza, a tutela della salute di tutti. Non c’è altro modo, occorre farlo e farlo presto. Perché il caregiver, in tanti casi, è l’unica possibile cura”.

Il protocollo, in fase di ultimazione, sarà presentato nei prossimi giorni al ministro Speranza.

(redattoresociale.it)

Non isolare, non lasciare sole le persone anziane e quelle con disabilità

Sono una delle centinaia di migliaia di caregiver che non fanno notizia. Appartengo a quel popolo di “invisibili” di cui ci si occupa, quando va bene, sotto le feste di Natale o in occasioni particolari che, per il loro carattere simbolico, garantiscono una rassicurante esposizione mediatica (non è casuale che mentre scrivo mi venga in mente il 2 Aprile, Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell’Autismo, ma anche carosello vorticoso di promesse mai mantenute).
Ho citato la data del 2 Aprile proprio perché ho un figlio autistico, interdetto, che vive in una RSD (Residenza Sanitaria Disabili). Come potrei pretendere che oggi, per di più in piena emergenza Covid, ci si occupi di lui (ha 40 anni, Presidente Conte, solo una quindicina meno di lei. Quanto diverse sono le vostre… carriere) e di un genitore di 71 anni che vive da solo, dopo che un ictus ha colpito la madre di Gabriele, nostro figlio, costringendola ad un ricovero prematuro in una RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale)?
Scrivo alcune riflessioni a nome di chi, come Gabriele, non ha voce. Scrivo, forse, anche a nome di tante Persone che, in questo abisso dimenticato, soffrono quanto lui e più di lui.
Ci sono persone con disabilità e anziane segregate da mesi all’interno di strutture talvolta fatiscenti e insicure, di cui ci si prende frettolosamente nota solo quando la quantità di morti raggiunge un numero talmente “interessante” da garantire un’audience elevata nei TG e talk show televisivi e, perché no? “persino” in qualche interpellanza parlamentare.
Poi ci sono tanti altri, altrettanto emarginati e soli: i senza fissa dimora, quelli che a causa del Covid hanno perso il lavoro, i “nuovi poveri” in giacca e cravatta. Eccetera. Tutte persone che non rientrano nelle statistiche ufficiali, non fanno numero né rumore. A chi importa se dormono tra i cartoni sui marciapiedi, se rovistano nei cassonetti della spazzatura alla ricerca di un cibo non completamente avariato, se si mettono in fila per consumare un piatto caldo già alle 11 del mattino davanti alle mense Caritas? Di loro, possiamo esserne certi, si parlerà solo tra qualche settimana quando qualcuno – come accade sempre – sarà trovato morto, sotto un ponte, a causa del gelo.
E comunque siamo di fronte a una costante, non certamente a un fenomeno stagionale. In estate, quando fuori erano ampiamente “tollerate” movide, discoteche, spiagge affollate, viaggi all’estero… a rimanere “intollerati” erano solo i disabili e gli anziani segregati nelle strutture. Ultimi tra gli ultimi: questo è il loro copyright.
È giusto ricordare che ai disabili autistici sono stati permessi, e solo in poche Regioni (chissà perché non in tutte… È questa la “libertà” che si chiama “autonomia regionale”?), brevi rientri a casa solo dopo la seconda metà di agosto, al termine di una lunga vittoriosa battaglia di cui qualcuno, qui in Piemonte dove vivo, mi accredita persino piccoli meriti per l’impegno che vi ho profuso.
Eppure la specificità e la complessità della patologia autistica avrebbero potuto e dovuto suggerire ovunque – posso dire imporre? – il contrasto di ogni forma di isolamento sociale, prima ancora di qualsiasi altro intervento. Sarebbe stato necessario non smarrire i contatti con i familiari, con il contesto affettivo, con ciò che rimane di una vita segnata da dolorose e pesanti rinunce.
Dalla fine di settembre, con l’avallo di Presidenti di Regione e Assessori alla Salute, che presumibilmente in vita loro non hanno mai visto un autistico in carne e ossa, sono state emanate ordinanze del tutto disattente alle caratteristiche dello spettro autistico. Per gli autistici ciò ha significato, e significa, nessuna terapia, nessuna riabilitazione, nessun rientro a casa, nessuna visita in struttura, nessuna attenzione ai loro stati d’animo, quasi ne fossero sprovvisti o non vivessero appieno le emozioni come chiunque altro.
Parliamo di persone i cui i deficit di relazione e comunicazione rappresentano una cifra importante, essendo due tra le principali compromissioni. Ebbene: oggi, in assenza di contatti con i familiari, l’unico loro riferimento è tornato ad essere quello di operatori che indossano la mascherina e la visiera. Tanti che si aiutano col labiale non capiscono una sola parola di questi interlocutori e non riconoscono nemmeno il viso di chi hanno di fronte…
Quale benessere maggiore potrebbero trarre rispetto a quello garantito da brevi periodi di serenità vissuti a casa? Lo so, si risponderà a questa domanda recuperando il solito adagio che torna buono per ogni occasione: «Si fa per ridurre i rischi di contagio»… Parole e frasi diventate un mantra, una sorta di coperchio buono per tutte le minestre, destinato a coprire qualsiasi cosa, anche la più oscena,  incomprensibile e indifendibile.
«Ridurre i rischi»? Chi glielo spiega, allora, a Gabriele, come mai è risultato positivo al Covid e costretto a un deleterio periodo di isolamento, con l’aggiunta di un doppio tampone molecolare (pratica altamente invasiva. Cosa si aspetta ad accelerare il processo di validazione di uno screening salivare?), che ne ha ulteriormente aggravato la condizione psicofisica? Chi gli ha trasmesso la positività al coronavirus visto che né lui né altri sono più tornati a casa? C’è relazione con la grave crisi che ha avuto i giorni successivi nel corso della quale – riporto testualmente le parole dell’interlocutore della struttura che mi ha telefonato – è apparso “disorientato”, “confuso”, “assente”, prima di perdere i sensi e accasciarsi? La mia risposta è “”. Sono assolutamente convinto che questo è il prezzo che si paga (o meglio: quello che pagano tutti “i” Gabriele) a un sistema di cattività disumano e ingiusto, che esige un immediato cambiamento di rotta per non produrre danni ancor più devastanti.
Questa drammatica realtà non riguarda solo le RSD, ma anche tantissime RSA per persone anziane, dove il Covid continua a galoppare, nonostante gli ospiti siano reclusi da febbraio.
Mi si permetta di dire che ritengo sbagliata e pretestuosa la divisione che viene fatta tra RSA e RSD. Comune è innanzitutto il fatto che parliamo di persone fragili e indifese: pensare che il dato anagrafico cancelli torti e violazioni di diritti è un’operazione squallida nel migliore dei casi, penosamente falsa nel peggiore. Parliamo di esseri umani, non di sigle. Parliamo di donne e uomini, marginalizzati, mortificati nei loro sentimenti più intimi, offesi nella loro dignità. Parliamo di persone per bene, che hanno dedicato la loro esistenza al lavoro e alla famiglia, a cui viene vietato persino di incontrare i propri cari, ricevere una carezza, scambiare un sorriso. Quanti anziani sono morti in queste strutture, e continuano a morire, per solitudine?
È indispensabile che i familiari di persone ospitate in RSA e RSD rifiutino questa odiosa divisione che li rende inevitabilmente più deboli. Facciano fronte comune, si oppongano con tutte le loro forze ad una realtà che condanna i loro cari all’oblio e all’abbandono. In gioco è la sopravvivenza di persone cui vengono negati bisogni e diritti primari.
La manifestazione che si è tenuta a Roma il 13 novembre scorso, davanti al Ministero della Salute, aveva come filo conduttore Il diritto alla continuità affettivo relazionale con i parenti degli anziani e disabili nelle RSA ed RSD. Stanno nascendo coordinamenti regionali che, spero, possano presto confluire in un soggetto nazionale in grado di dar vita ad una grande mobilitazione. Tutti devono prendere coscienza della gravità della situazione. È scritto nella pagina web del Comitato Nazionale Familiari RSA RSD-Sanità: «Le persone anziane nelle RSA non sono al 41 bis. Chiediamo dignità e cura».
Per impedire la morte sociale delle fasce più vulnerabili della popolazione – hanno acutamente osservato Milena Gabanelli, Mario Gerevini e Simona Ravizza, in un’analisi assai attenta e particolareggiata che è possibile trovare in un articolo pubblicato nel blog Dataroom del «Corriere della Sera.it», con il titolo esemplificativo Anziani e Covid, perché le RSA sono un affare solo per i privati – «devono essere definite da subito regole severe di accreditamento, da fare rispettare pena l’espulsione dal sistema. È necessario l’arruolamento di figure professionali adeguatamente formate e una generale riqualificazione professionale degli operatori sanitari».
Personalmente aggiungo a queste richieste l’adeguamento di risorse materiali e umane, al passo con la complessità della situazione, e la riorganizzazione complessiva delle strutture che, in particolare nelle RSD, deve consentire la realizzazione di quel progetto individuale di vita di cui tutti comprendono il bisogno e l’urgenza ma che ad oggi rimane una chimera.
Chi è investito di alte responsabilità istituzionali, più che limitarsi a sciorinare dati e tabelle di cui nessuno comprende il significato, si affidi a tecnici realmente competenti (ma anche ad associazioni di familiari come l’ANGSA-Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici, di riconosciuta e provata esperienza) in materia di problematiche socioeducative e sanitarie nell’autismo.
È tempo di realizzare una cabina di regia unica, che ponga finalmente fine allo stucchevole palleggiamento di responsabilità tra Stato e Regioni e a quello tra Regioni e Direzioni Socio Sanitarie delle strutture, alle quali si lascia il cerino in mano solo per paura di scottarsi. Siamo spettatori impotenti di uno scaricabarile che stanca e deprime. Serve definire un vero orizzonte strategico. Nulla a che vedere con i giochi di Palazzo, perché quello che abbiamo davanti è tutt’altro che un gioco.
Se nell’adozione delle misure di contrasto alla pandemia, messe in campo dal Governo, è stato giusto evidenziare le esigenze del “tessuto produttivo”, altrettanto dev’essere fatto per quelle che rientrano nel “tessuto umano”. È urgente, insomma, rimettere al centro degli interventi le persone.
Occorre proteggere gli anziani e i disabili, non isolarli, non lasciarli soli, permettere loro incontri con i familiari nelle strutture, rientri controllati a casa, con la garanzia di un giusto bilanciamento tra la tutela della salute e il rispetto che si deve ad ogni essere umano.
È necessario cambiare immediatamente paradigma, privilegiando i bisogni e i diritti, dando ad essi concretezza e applicazione. Per effetto di scelte sbagliate possono determinarsi danni irreversibili nel fisico e nella mente, che non potranno mai essere riparati con bonus e interventi monetari.
«Saremo vicini alle persone con disabilità», ha dichiarato di recente il presidente del Consiglio Conte. Perché non siano parole vuote e di circostanza i nostri figli, e i familiari con loro, si aspettano misure incisive, vincolanti e rispettose.
L’Italia ha una serie di eccellenti leggi in materia di welfare, probabilmente tra le migliori al mondo: peccato che siano applicate solo in minima parte.
Premesso che non può interessare a nessuno lo sterile dibattito sulla responsabilità maggiore o minore di questo o quel Governo, cito alcuni esempi di “leggi fantasma”: la 328/00 sul progetto di vita, la 68/99 su disabilità e lavoro, la 134/15 sull’autismo, la 112/16 sul “Dopo di Noi”. E mi fermo qui solo per esigenze di spazio, non senza aver ricordato il colpevole mancato rispetto dell’articolo 26, Inserimento dei disabili, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e quello della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (Legge dello Stato 18/09).
Chiudo rivolgendomi a te, Gabriele caro. Questa lettera, che indirizzerò alle massime Autorità dello Stato e a Papa Francesco, finisce qui. Non finisce, invece, la Tua e la mia battaglia, ciascuno nella modestia di ciò che rappresentiamo e di quanto riusciremo e sapremo fare.
Resisti, ti prego, dammi la forza per andare avanti. Aiutami a far capire che per essere “realmente” vicini alle persone più fragili e alle loro famiglie è indispensabile che i diritti non siano affermati solo sulla carta, ma vengano riconosciuti, rispettati e soprattutto applicati. Che Dio ti benedica!

Di Gianfranco Vitale (padre di Gabriele, uomo autistico), (www.facebook.com/autismoIN). Autore dei libri “Mio figlio è autistico” e “L’identità invisibile. Essere autistico, essere adulto”. Il presente testo verrà indirizzato, sotto forma di lettera, al presidente della Repubblica Mattarella, al presidente del Consiglio Conte, al ministro della Salute Speranza e a Papa Francesco.

Disabili, la venticinquesima ora di chi li assiste

Il lavoro invisibile e l’assenza di ogni aiuto da parte delle pubbliche autorità per i caregivers familiari, le migliaia di persone impegnate a tempo pieno nell’assistenza di persone care non autosufficienti. Coloro i quali si dedicano a pazienti con demenza sono la grande maggioranza. Si tratta in genere di donne (74%), di cui il 31% di età inferiore a 45 anni

Il lavoro invisibile dei caregivers –  l’ennesimo termine anglosassone che indica “colui che si prende cura”, che assiste un congiunto ammalato e/o disabile – che si dedicano ai pazienti con demenza, sono la grande maggioranza. Si tratta in genere di donne (74%), di cui il 31% di età inferiore a 45 anni, il 38% di età compresa tra 46 e 60, il 18% tra 61 e 70 e ben il 13% oltre i 70.

Una vergogna tutta italiana. Sono uomini e donne che si assumono, per amore, l’impegno di assistere un familiare non autosufficiente.  Una mole di lavoro e di sostegno che  l’Italia, unico tra i paesi europei, non riconosce né tutela. Pur avvalendosene nel vuoto dei servizi e delle prestazioni, nell’esiguità e risibilità delle provvidenze, con un risparmio di circa 10 miliardi di euro (sarebbe interessante calcolare quanto la perdita di produttività dei familiari incida sul PIL). Un caregivers,  in caso di disabilità grave, vive una realtà che pochi riuscirebbero a tollerare. Unico ritorno, altissimo, un amore che nessuno immagina, ma che non basta a preservare dall’usura e dalla povertà.

Un impegno totalizzante anche se si è malati.Sì, perché assistere un familiare non autosufficiente non prevede retribuzione, contributi, riposo o giorni di malattia, neppure quando diventa così totalizzante da comportare il licenziamento dall’occupazione ufficiale. Neppure quando chi assiste ha bisogno a sua volta di curarsi. La pensione di invalidità e l’indennità di accompagnamento (erogate solo quando c’è una disabilità certificata al 100%), oltre ad prevedere somme ridicole, sono destinate solo alla persona, non alla famiglia, che ha anche altri bisogni oltre a quelli di cura del suo componente più debole.

Una giornata-tipo del caregiver. “Una lavoro che dura 25 ore – spiega Chiara  Bonanno, promotrice del movimento mai più soli – la venticinquesima è quella inesistente in cui si dovrebbe mangiare e prendersi cura di sé”. Un caregiver vive solo in funzione della persona che assiste. La qualità della sua vita diventa via via sempre meno sostenibile, con un deterioramento di tutti gli aspetti: il lavoro, la salute, la vita privata e, se ci sono altri figli, anche la famiglia. Spesso il lavoro viene abbandonato, la salute declina, anche per mancanza di sonno: gli amici si allontanano. Le famiglie cadono nell’indigenza, fino a dover chiedere aiuto ad enti assistenziali e religiosi. Un aspetto da non trascurare è che il caregiverspesso è una donna, non di rado sola, sia per l’elevato numero dei divorzi – la tenuta della famiglia a volte è ancora più bassa nelle situazioni dove il dolore è quotidiano – o perché spesso, al compiere della maggiore età, il dovere morale di assistenza viene bellamente trascurato da uno dei coniugi.

Forme di schiavitù moderna. Lo Stato si approfitta di queste donne, di questi uomini, sottoponendo tutti  ad un vero e proprio regime di schiavitù moderna, che viene spacciata come dovere morale, senza pensare che per costoro curare i propri cari è un diritto, e  che condizioni più umane sono la garanzia di poter continuare a esercitarlo. “Sono stata ricoverata per 15 giorni – racconta una donna – mio figlio disabile psichico sarebbe rimasto solo, se mia madre ottantenne non si fosse recata tutte le sere a somministragli le medicine e dormire con lui. In altri Paesi, come la Romania, il famigliare può scegliere un altro parente che faccia le sue veci, che viene assunto e pagato dallo Stato. In Italia non possiamo ammalarci, figuriamoci prenderci qualche giorno di riposo”.

Non siamo “badanti”. “Non vogliamo essere assunti come badanti o cose del genere. Vogliamo essere tutelati. Vogliamo assistenza notturna, quando il nostro impegno è sulle 24 ore, la garanzia di poterci ammalare e avere una sostituzione, un accesso ad una pensione dignitosa, nel caso in cui sia necessario lasciare il lavoro”, aggiunge la signora Chiara. La legge 104 o i due anni di aspettativa-garantite, del resto, solo dal settore pubblico, non bastano per chi ha una persona non autonoma in famiglia. “Chiediamo – secondo quanto sancito da una sentenza europea del 2008, aggiunge le donna – un percorso preferenziale nelle assunzioni, come categoria di lavoratori protetti”. D’altra parte, la stessa Corte di Giustizia europea ha stabilito che il divieto di discriminazione per ragioni di disabilità si applica non solo alla persona interessata, ma anche a chi l’assiste. In molti Stati, del resto, sono già previsti benefit e contributi previdenziali per i caregiver.

In Italia il caregiver muore. Muore di stanchezza. Muore di indifferenza. “Nel 2009 la ricercatrice Elizabeth Blackburn ha vinto il Premio Nobel per la Medicina con uno studio che ha scientificamente dimostrato come lo stress al quale sono sottoposti i caregiverfamiliari riduca le loro aspettative di vita dai 9 ai 17 anni, rispetto al resto della popolazione”. Lo denuncia un passo della lettera scritta dalla mamma di una ragazza disabile, Maria Simona Bellini,  presidentessa del coordinamento familiari dei disabili, al Presidente della Repubblica Mattarella, in forma di richiesta di ‘grazia’, per tutti i caregivers italiani.

Nessun rispetto per i diritti fondamentali. Una lettera che chiede il rispetto dei diritti umani fondamentali delle persone che tanto si impegnano per i loro cari e per la società tutta. Anche perché il dovere di presa in carico dovrebbe spettare a tutta la collettività, come accade nei Paesi più civili. “Ma averlo reso noto a più riprese al potere legislativo e a tutte le istituzioni coinvolte non ha sortito alcuno di quegli effetti che sarebbero stati considerati doverosi altrove. Nè è stato previsto il loro inserimento tra le categorie salvaguardate dalla Riforma Previdenziale che ha invece esteso il loro impegno lavorativo, a cui si aggiunge quello di cura svolto per il proprio familiare”.

La minaccia del ricovero in un istituto. Se la famiglia non ce la fa, dà mostra di cedimento, allora la minaccia è l’istituzionalizzazione. Lo Stato così avaro nell’erogazione di servizi, assistenza, tutele e sussidi, è pronto a stanziare fondi per la residenze sanitarie, dove un solo giorno costa, a persona, circa 700 euro. Perché? “Pensare al dopo di noi è assurdo – spiega un familiare – se non si parla del durante. Se non si pensa a garantire l’assistenza ai familiari, la possibilità anche di fondi per la cura e, se possibile, l’inclusione. Altrimenti i familiari sono condannati a un “dopo” prematuro che spesso può comportare una vera e propria deportazione negli istituti per chi resta”.

Una petizione al Parlamento europeo. Così i familiari dei disabili si sono riuniti in associazione e hanno depositato una petizione al Parlamento europeo perché apra una procedura di infrazione contro l’Italia per il mancato rispetto dei diritti umani. “Da vent’anni ci battiamo per il riconoscimento di tutele previdenziali, sanitarie e assicurative, che consentano al caregiver familiare l’accesso a diritti fondamentali, come quello al riposo o alla salute  –  sottolinea la Bellini

Dove invece c’è tutela per i caregivers In Germania  il sistema sanitario-assicurativo dà diritto a chi assiste un familiare disabile a contributi previdenziali garantiti, se l’assistenza supera le 14 ore alla settimana, e a una sostituzione domiciliare in caso di malattia. Forme di assicurazione contro gli infortuni e di previdenza sono concesse anche ai caregiverfrancesi, che in diversi casi hanno diritto pure a un’indennità giornaliera, e a quelli spagnoli, che continuano a recepire contributi anche in caso di interruzione del proprio lavoro. Persino la Grecia dà diritto, al caregiver familiare, al prepensionamento dopo 25 anni di contributi versati.

Al danno s’aggiunge la beffa. La mancanza di attenzione dello Stato italiano, la si evince anche dall’ultima ingiustizia, che i caregivers familiari hanno dovuto affrontare. L’aggiornamento degli indicatori ISEE aveva computato tra i redditi della famiglia anche indennità e pensioni riconosciute a persone non autosufficienti: “Con grave disagio – scrive Maria Simona Bellini nella lettera al Capo dello Stato – un gruppo di cittadini, prevalentemente persone con disabilità e caregiver familiari, ha pertanto promosso un ricorso contro questo iniquo provvedimento giungendo ad alcune sentenze, recentemente pronunciate dalla Magistratura, che hanno dato loro ragione ma che, nella loro ormai estrema arroganza, le istituzioni italiane stanno volontariamente ignorando come se anche la Giustizia, nel nostro Paese, non fosse più un punto di riferimento importante per tutti ma un mero organo consultivo le cui decisioni possono essere o meno rispettate dallo Stato”.

L’appello al Presidente Mattarella. “Chiediamo pertanto a lei, nostro Presidente della Repubblica, nella sua funzione di Garante della Costituzione italiana, che inserisca tra le sue priorità la promozione del riconoscimento delle tutele minime dei caregiver familiari  –  quali quelle sanitarie, previdenziali ed assistenziali  –  in considerazione del lavoro di cura che essi somministrano quotidianamente e senza soluzione di continuità pur senza accesso a ferie, riposo notturno garantito, festività e nemmeno alla possibilità di ammalarsi.”
(repubblica.it)

di Giovanni Cupidi