Anziani non autosufficienti. Toscana: Rivedere il sistema di presa in cura

Una delibera istituisce un tavolo di lavoro per ripensare il modello, con soluzioni modulari e integrate tra domiciliari, semi-residenziali e residenziali

Trasformare le criticità emerse durante l’emergenza Covid in un’occasione per rivedere e migliorare il sistema di presa in carico dell’anziano non autosufficiente. E’ questo l’obiettivo di una delibera della giunta regionale approvata su proposta dell’assessora regionale alle politiche sociali Serena Spinelli: il provvedimento serve ad avviare un percorso per ripensare il modello complessivo attraverso l’attivazione di un tavolo tecnico cui parteciperanno tutti i soggetti interessati.

La pandemia ha fatto emergere difficoltà vecchie e nuove, ma anche elementi di forza e capacità di adattamento” ha spiegato Spinelli. “A partire da queste ritengo sia necessaria una riflessione approfondita che apra una fase di cambiamento nella quale vogliamo ridefinire il quadro delle politiche e delle risposte rivolte ai bisogni sociali e sanitari delle persone anziane e in particolare non autosufficienti”.

L’esigenza di ripensare complessivamente il sistema di presa in carico dell’anziano è anche espressione di un mutamento e di un allargamento progressivo delle esigenze della popolazione anziana. In Toscana già oggi gli over 64 sono quasi un milione. Si stima che la quota di anziani andrà costantemente crescendo arrivando al 60% del totale nel 2060. Questa espansione si ripercuote sulle esigenze dell’assistenza sanitaria e sociale. Ma sulla necessità di modulare e diversificare gli interventi nell’ambito delle quattro aree già presenti attualmente: prevenzione, interventi a domicilio, servizi semi residenziali, servizi residenziali.

L’obiettivo del tavolo che andrà ora a costituirsi è quello di incrementare in termini quantitativi e qualitativi le risposte socio-sanitarie sul territorio. Si cercherà di offrire, nel rispetto dei LEA, una gamma di soluzioni socio-sanitarie modulabili a seconda del tipo di bisogno espresso dall’anziano non autosufficiente.

Vogliamo ripensare e potenziare la capacità di risposta sul territorio ai bisogni della popolazione anziana, in un’ottica di presa in cura complessiva che metta al centro i diritti, le aspettative e la qualità della vita delle persone, in questo caso di quelle anziane e fragili” evidenzia Spinelli. “Per questo – prosegue – a partire da questa delibera avviamo un confronto che coinvolga tutti gli attori del sistema.e i soggetti coinvolti“.

“Il modello che vogliamo attuare dovrà rispondere a un nuovo approccio integrato che tenga insieme risposte di residenzialità, anche di livello e tipologie diverse, modulabili sulle diverse caratteristiche e sui diversi livelli di autonomia delle persone anziane, con servizi di assistenza e cura territoriali che in parallelo devono essere rafforzati e strutturati nel senso di una maggiore prossimità, di chiarezza e continuità del percorso di presa in cura, di gestione delle cronicità, che da tempo sono uno aspetti che caratterizzano maggiormente una società con un’età media più alta e con una più lunga aspettativa di vita.”

“Da un lato, quindi, serve un miglioramento dell’offerta in termini di residenzialità e dall’altro una sempre maggior attenzione al tema dell’assistenza domiciliare, che consenta di evitare o rimandare l’istituzionalizzazione garantendo alle persone anziane il miglior livello possibile di qualità della vita senza dover lasciare l’ambiente domestico e familiare”.

Il tavolo potrà utilizzare i risultati dello specifico gruppo di lavoro costituito a maggio dell’anno scorso a seguito dell’emergenza epidemiologica. Tavolo formato da esperti e tecnici che hanno elaborato una serie di proposte di nuovo assetto delle Rsa. Particolare riferimento è stato dato al potenziamento degli aspetti sanitari, nonché all’attuazione di nuovi e più evoluti metodi di assistenza e cura di anziani fragili.

(articolo parzialmente rielaborato tratto da redattoresociale.it)

Covid: Un miliardo di euro in pensioni che l’Inps risparmia ogni anno

Considerando l’alternativa, invecchiare è la miglior cosa che possa capitare nella vita. Possibilmente in salute. Sappiamo che purtroppo non va sempre così. In Italia ci sono 3 milioni di non autosufficienti (5% della popolazione) e il loro numero è destinato a raddoppiare entro il 2030. Parliamo di persone che non sono in grado di fare niente da soli e hanno bisogno di un accompagnamento. E allora proviamo a metterci nei loro panni: cosa devono fare per avere il sostegno a cui hanno diritto?

In Italia ci sono 3 milioni di non autosufficienti (5% della popolazione) e il loro numero è destinato a raddoppiare entro il 2030

Odissea tra uffici e sportelli

Per il riconoscimento di una invalidità al 100% perché non riesco a camminare, lavarmi, vestirmi né a mangiare senza l’aiuto di un accompagnatore, devo andare dal medico di famiglia che mi fa la certificazione, che poi invio all’Inps per ottenere un codice identificativo. Con questo codice vado a fare la visita medica all’Asl, e poi presento online la domanda. Ma se non ho dimestichezza posso rivolgermi ad un patronato. A questo punto il mio caso viene esaminato da una commissione presieduta da un medico Inps. Una volta ricevuto dall’Istituto di previdenza il verbale di indennità civile, compilo il modulo AP70 che mi consente di ricevere dalla stessa Inps l’indennità di accompagnamento di 522,10 euro al mese, indipendentemente dal reddito. Non ci sono dati ufficiali sui tempi di questo iter, ma le esperienze raccolte sul campo dicono che passano dai cinque ai sei mesi.

Una commissione diversa per ogni servizio

Da non autosufficiente ho poi bisogno di altre cose: un posto in una struttura diurna che mi ospita per sei/otto ore durante il giorno; dell’infermiere che viene a casa (si chiama Adi, e sta per Assistenza domiciliare integrata), oppure dei pannoloni. Devo quindi rivolgermi all’Asl, perché questi servizi sono finanziati dal Sistema sanitario nazionale. Ogni Regione, e perfino ogni Asl, è organizzata a modo suo. In linea di massima queste richieste passano da tre commissioni diverse dove un geriatra, uno psicologo, un infermiere e un medico di famiglia decidono se ho diritto o meno a quel che chiedo.

Se ho un reddito basso e nessun familiare in grado di occuparsi di me, e ho bisogno di qualcuno che mi aiuti ad alzarmi dal letto, a vestirmi e a mangiare, mi reco agli sportelli dei Servizi sociali del Comune, dove un’altra commissione valuterà se mi spetta il voucher per pagare quello che in gergo tecnico è il Sad, ossia il Servizio di assistenza domiciliare. Ma sempre il Comune, oltre al servizio sanitario, può mettere a disposizione strutture semi-residenziali per trascorrere la giornata. Morale: se beneficio dell’indennità di accompagnamento dell’Inps, dell’assistenza domiciliare del Ssn e di servizi semi-residenziali del Comune devo passare da tre iter diversi. Ognuno con i suoi tempi e criteri di accesso. Un calvario per le famiglie che rende di per sé sfinente e disincentivante richiedere il sostegno che spetta.

Morale: se beneficio dell’indennità di accompagnamento dell’Inps, dell’assistenza domiciliare del Ssn e di servizi semi-residenziali del Comune devo passare da tre iter diversi

Sostegno solo a un anziano su due

Il quadro è così frammentato che nemmeno i ministeri competenti oggi possiedono una mappa completa della situazione reale: né sul tasso di copertura dei servizi, né sui costi perché le varie banche dati non comunicano tra loro. Una stima è appena stata realizzata dal Cergas-Bocconi. Gli anziani che ricevono l’indennità di accompagnamento sono 1,4 milioni, per una spesa pubblica di 8,8 miliardi di euro. Di questi 911 mila anziani beneficiano anche di servizi domiciliari: in 779 mila dall’Asl, mentre in 131 mila dal Comune. Per quel che riguarda l’assistenza presso i centri diurni, 270 mila anziani la ricevono nelle strutture semi-residenziali dei Comuni, mentre 24 mila dal sistema sanitario nazionale. La spesa pubblica totale per questi servizi è di 200 milioni. Il costo complessivo ammonta a 11,16 miliardi, che diventano 15,22 se ci aggiungiamo le case di riposo, dove sono ospitati altri 287 mila anziani.

Una spesa consistente per interventi che tuttavia raggiungono poco più del 50% degli anziani non autosufficienti e con servizi scarsi. Basti pensare che le ore di assistenza a domicilio con l’Adi sono in media 21 in un anno, mentre per il Sad la spesa media annua in voucher è di 2.090 euro. Di fatto la cura degli anziani viene scaricata sulle famiglie: sono 8 milioni i familiari che assistono non autosufficienti.

Per supplire alla mancanza di assistenza pubblica è stata fatta la legge 104 del 1992: i parenti fino al terzo grado possono prendere 3 giorni al mese di permesso retribuito per assistere la persona bisognosa assentandosi dal lavoro: da un lato ciò è insufficiente per chi è solo, dall’altro la norma si presta a una lunga serie di abusi difficilmente controllabili. Inoltre si aggiungono un milione di badanti, per una spesa complessiva di 6,8 miliardi. E quando le famiglie non sono in grado di pagare di tasca loro i servizi domiciliari o semiresidenziali, gli anziani finiscono ricoverati in modo improprio in ospedale.

Il Recovery Plan: gli investimenti e la promessa di riforma

In Italia una riforma è attesa dalla fine degli anni Novanta. Ora sono previsti 500 milioni di investimenti in «Sostegno alle persone vulnerabili e prevenzione dei ricoveri» e 3 miliardi alla voce «Assistenza domiciliare». I soldi arriveranno dal Recovery Plan che ha raccolto alcune delle proposte sviluppate dal Network Non Autosufficienza, coordinato da Cristiano Gori, e promosse e sostenute da decine di associazioni fra cui Caritas, il Forum Diseguaglianze e Diversità e Cittadinanzattiva.

Dal Recovery Plan arriva anche la promessa di realizzare con un’apposita legge, da varare entro la primavera 2023, una «riforma organica degli interventi (…). I suoi cardini saranno la semplificazione dei percorsi di accesso alle prestazioni, un rafforzamento dei servizi territoriali di domiciliarità, e quando la permanenza in un contesto familiare non è più possibile, la progressiva riqualificazione delle strutture residenziali». Ovvero: meno burocrazia, più assistenza a casa e più case di riposo. Come tradurre nella pratica questi intenti, e integrarli di quel manca, è scritto invece nelle proposte di Francesco Longo e Gianmario Cinelli del Cergas-Bocconi, presentate nelle scorse settimane ai ministeri della Salute e del Lavoro e politiche sociali. I ricercatori del Cergas-Bocconi hanno elaborato una proposta di riforma complessiva del sistema che prevede di istituire un servizio nazionale per gli anziani non autosufficienti, come avvenuto nel 1978 per il Ssn.

Più assistenza senza aumento di spesa

Il nuovo sistema si fonda su tre elementi chiave. In primo luogo, facciamola finita con anziani e famiglie che devono peregrinare all’Inps, all’Asl e ai Comuni e istituiamo un’unica commissione che stabilisce chi può avere accesso ai servizi di sostegno. In secondo luogo, diamo un’assistenza commisurata alle effettive condizioni di salute degli anziani. Oggi il sostegno è uguale per tutti gli assistiti. Ad esempio, ricalcando il modello tedesco introdotto nel 1995, un anziano in condizione di autosufficienza limitata che sceglie un aiuto in denaro riceverebbe 288 euro al mese; un non autosufficiente che sceglie l’assistenza a domicilio e in strutture residenziali beneficerebbe di servizi per 1.815 euro al mese. Infine, bisogna affrontare di petto la questione delle badanti, spesso non in grado di assistere gli anziani adeguatamente e alle quali oggi lo Stato non riconosce il ruolo di cura. Vanno formate e regolarizzate: oggi il 60% sono clandestine.

Sarebbe, dunque, giusto indirizzare verso l’assistenza quel miliardo di euro in pensioni all’anno che l’Inps sta risparmiando sui morti Covid

Senza spendere un euro in più, ma solo riorganizzando il sistema si possono assistere meglio 590.000 anziani in più. Ma dal totale restano sempre esclusi un milione di non autosufficienti. Sarebbe, dunque, giusto indirizzare verso l’assistenza quel miliardo di euro in pensioni all’anno che l’Inps sta risparmiando sui morti Covid. La riduzione della spesa pensionistica calcolata per il 2020 è di 1,11 miliardi di euro, se la proiettiamo sul decennio 2020-2029 sulla base delle aspettative di vita rilevate dalle tavole di mortalità Istat 2019, arriviamo ad un totale di circa 11,9 miliardi di pensioni che nei prossimi 10 anni non verranno erogate.

(dataroom@rcs.it)

Terzo settore, disabilità e non autosufficienza nel PNRR

Il Presidente del Consiglio ha presentato ieri al Parlamento il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Ecco alcuni punti. In arrivo una riforma della disabilità e una per la non autosufficienza

«Sbaglieremmo tutti a pensare che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, pur nella sua storica importanza, sia solo un insieme di progetti tanto necessari quanto ambiziosi, di numeri, obiettivi, scadenze. Vi proporrei di leggerlo anche in un altro modo. Metteteci dentro le vite degli italiani, le nostre ma soprattutto quelle dei giovani, delle donne, dei cittadini che verranno. Le attese di chi più ha sofferto gli effetti devastanti della pandemia. Le aspirazioni delle famiglie preoccupate per l’educazione e il futuro dei propri figli. Le giuste rivendicazioni di chi un lavoro non ce l’ha o lo ha perso. Le preoccupazioni di chi ha dovuto chiudere la propria attività per permettere a noi tutti di frenare il contagio. L’ansia dei territori svantaggiati di affrancarsi da disagi e povertà.

La consapevolezza di ogni comunità che l’ambiente va tutelato e rispettato»: ha esordito così il Presidente del Consiglio Mario Draghi nel presentare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza #NextGenerationItalia davanti alla Camera. «Non è dunque solo una questione di reddito, lavoro, benessere, ma anche di valori civili, di sentimenti della nostra comunità nazionale che nessun numero, nessuna tabella potranno mai rappresentare. Dico questo perché sia chiaro che, nel realizzare i progetti, ritardi, inefficienze, miopi visioni di parte anteposte al bene comune peseranno direttamente sulle nostre vite. Soprattutto su quelle dei cittadini più deboli e sui nostri figli e nipoti. E forse non vi sarà più il tempo per porvi rimedio».

Il Piano è articolato in progetti di investimento e riforme, organizzate in sei Missioni, con obiettivi quantitativi e traguardi intermedi. Le sei Missioni sono:

•Digitalizzazione, Innovazione, Competitività e Cultura;

•Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica;

•Infrastrutture per una mobilità sostenibile;

•Istruzione e Ricerca;

•Politiche attive del lavoro e della formazione, all’inclusione sociale e alla coesione territoriale;

•Salute.

Le sei Missioni puntano ad affrontare tre nodi strutturali del nostro Paese, che costituiscono obiettivi trasversali dell’intero Piano. Le disparità regionali tra il Mezzogiorno e il Centro Nord, le diseguaglianze di genere e i divari generazionali.

Aspettando che le decisioni sul governo del PNRR chiariscano che ruolo avrà il Terzo settore – ma più propriamente quale parte avrà la sussidiarietà nel governo del più grande piano di investimenti dal dopoguerra ad oggi (vedi dossier Caritas) e nel governo delle scelte che guideranno anche i governi prossimi e venturi – vediamo cosa intanto dicono le 273 pagine del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza #NextGenerationItalia che entro il 30 aprile verrà inviato a Bruxelles.

Terzo settore

Il posto del Terzo settore è esplicitato nella Missione 5, quella riguardante “Inclusione e coesione”. I fondi destinati a questi obiettivi superano nel complesso i 22 miliardi, più ulteriori 7,3 miliardi di interventi beneficeranno delle risorse di REACT-EU.
Vi si legge che: «L’azione pubblica potrà avvalersi del contributo del Terzo settore. La pianificazione in coprogettazione di servizi sfruttando sinergie tra impresa sociale, volontariato e amministrazione, consente di operare una lettura più penetrante dei disagi e dei bisogni al fine di venire incontro alle nuove marginalità e fornire servizi più innovativi, in un reciproco scambio di competenze ed esperienze che arricchiranno sia la PA sia il Terzo settore».
E più avanti: «In coerenza con gli interventi del Piano, si prevede l’accelerazione dell’attuazione della riforma del Terzo settore, al cui completamento mancano ancora importanti decreti attuativi. Si intende inoltre valutare gli effetti della riforma su tutto il territorio nazionale».

Nel capitolo sui Piani urbani integrati viene richiamato anche l’articolo 55 del Codice del Terzo settore. Il 31 marzo scorso il Ministero del lavoro ha emanato le linee guida sul rapporto tra Pubbliche amministrazioni ed enti del Terzo settore.

Vi si legge: «Gli interventi potranno anche avvalersi della co-progettazione con il Terzo settore ai sensi dell’art. 55 decreto legislativo 3 luglio 2017 n.117 (Codice del Terzo settore, a norma dell’art.1, comma2, lettera b) legge 6 giugno 2016, n.106) e la partecipazione di investimenti privati nella misura fino al 30% con possibilità di far ricorso allo strumento finanziario del “Fondo dei fondi” BEI. Obiettivo primario è recuperare spazi urbani e aree già esistenti allo scopo di migliorare la qualità della vita promuovendo processi di partecipazione sociale e imprenditoriale. I progetti dovranno restituire alle comunità una identità attraverso la promozione di attività sociali, culturali e economiche con particolare attenzione agli aspetti ambientali».

La Missione 5 prevede un investimento di oltre 11 miliardi di euro su tre riforme: la legge quadro della disabilità (con finanziamento nazionale); una riforma riguardante un sistema di interventi in favore degli anziani non autosufficienti; una riforma per il superamento degli insediamenti abusivi per il contrasto al caporalato e allo sfruttamento dei lavoratori.

Disabilità e non autosufficienza

Tre linee di Investimento: Sostegno alle persone vulnerabili e prevenzione dell’’istituzionalizzazione degli anziani non autosufficienti 0,50 miliardi di euro; Percorsi di autonomia per persone con disabilità 0,50 miliardi di euro; Housing temporaneo e stazioni di posta 0,45 miliardi di euro.

Due Riforme strutturali: Legge quadro per le disabilità; Sistema degli interventi in favore degli anziani non autosufficienti.

«Specifiche linee d’intervento sono dedicate alle persone con disabilità e agli anziani, a partire dai non autosufficienti. Esse prevedono un rilevante investimento infrastrutturale, finalizzato alla prevenzione dell’istituzionalizzazione attraverso soluzioni alloggiative e dotazioni strumentali innovative che permettano di conseguire e mantenere la massima autonomia, con la garanzia di servizi accessori, in particolare legati alla domiciliarità, che assicurino la continuità dell’assistenza secondo un modello di presa in carico socio-sanitaria coordinato con il parallelo progetto di rafforzamento dell’assistenza sanitaria e della rete sanitaria territoriale previsto nella componente 6 Salute (in particolare il progetto Riforma dei servizi sanitari di prossimità e il progetto Investimento Casa come primo luogo di cura)», si legge nel PNRR.

«La linea di attività più corposa del progetto (oltre 300 milioni) è finalizzata a finanziare la riconversione delle RSA e delle case di riposo per gli anziani in gruppi di appartamenti autonomi, dotati delle attrezzature necessarie e dei servizi attualmente presenti nel contesto istituzionalizzato. Gli ambiti territoriali potranno anche proporre progetti ancora più diffusi, con la creazione di reti che servano gruppi di appartamenti, assicurando loro i servizi necessari alla permanenza in sicurezza della persona anziana sul proprio territorio, a partire dai servizi domiciliari. In un caso e nell’altro, l’obiettivo è di assicurare la massima autonomia e indipendenza della persona in un contesto nel quale avviene una esplicita presa in carico da parte dei servizi sociali e vengono assicurati i relativi sostegni.

Elementi di domotica, telemedicina e monitoraggio a distanza permetteranno di aumentare l’efficacia dell’intervento, affiancato da servizi di presa in carico e rafforzamento della domiciliarità, nell’ottica multidisciplinare, in particolare con riferimento all’integrazione sociosanitaria e di attenzione alle esigenze della singola persona».

Il secondo investimento riguarda i percorsi di autonomia per le persone con disabilità, con il fine di accelerare la deistituzionalizzazione.

Gli interventi saranno centrati sull’aumento dei servizi di assistenza domiciliare e sul supporto delle persone con disabilità per consentire loro di raggiungere una maggiore qualità della vita rinnovando gli spazi domestici in base alle loro esigenze specifiche, sviluppando soluzioni domestiche e trovando nuove aree anche tramite l’assegnazione di proprietà immobiliari confiscate alle organizzazioni criminali. Inoltre, l’investimento fornirà alle persone disabili e vulnerabili dispositivi ICT e supporto per sviluppare competenze digitali, al fine di garantire loro l’indipendenza economica e la riduzione delle barriere di accesso al mercato del lavoro attraverso soluzioni di smart working.

Previste invece due vere e proprie riforme: quella del sistema degli interventi in favore degli anziani non autosufficienti e quella della disabilità, con una legge quadro.

Come per infanzia, anche le “pari opportunità per le persone con disabilità” e il “sostegno agli anziani non autosufficienti” hanno due box specifici dedicati. Sono 18 le occorrenze per “non autosufficienti”, 8 quelle per “non autosufficienza”, 48 quelle per “disabilità”, 6 quelle per “disabili”.

Disabilità: Lavoratrici caregiver a rischio licenziamento

Essere un caregiver familiare oggi è decisamente drammatico, specie se si è donne: madri, mogli, sorelle di persone con disabilità, in molti casi di persone con malattie rare e croniche gravemente invalidanti, o di persone anziane non autosufficienti. Parliamo di una stima di 7milioni di persone in Italia, per la stragrande maggioranza donne.

Lo Sportello Legale dell’Osservatorio Malattie Rare riceve continue richieste di aiuto: “Hanno utilizzato tutti i permessi (104 e non), tutte le ferie, i congedi, perfino l’aspettativa”, spiega Ilaria Vacca, giornalista dello Sportello Legale. “Se non sono collocabili in smart working? Se i loro familiari non possono assolutamente rischiare il contagio Covid, che fare? E quando i familiari devono essere assistiti h24 e non è più possibile affidarli a strutture semiresidenziali o caregiver professionisti non ancora vaccinati? Dal DPCM 2 marzo 2021, l’ultima misura prevista dal Governo, nessuna risposta per queste persone. Quanti di loro (e quante donne soprattutto) perderanno il posto?

La situazione dei lavoratori fragili ad oggi è drammatica, perché la maggior parte delle misure di tutela introdotte nella prima fase dell’emergenza sanitaria non sono state rinnovate”, si legge in un comunicato di Omar Osservatorio Malattie Rare. “Il DPCM 2 marzo non menziona alcuna proroga rispetto alle originali tutele previste dal Decreto Cura Italia che permettevano ai lavoratori fragili di assentarsi dal lavoro, men che meno prevede forme di tutela per i cargiver familiarei. Il ricorso allo smart working è solo fortemente raccomandato, ma nessun obbligo legale è previsto in nessun caso.

Resta attivo solo il congedo parentale straordinario per i genitori dipendenti in caso di sospensione dell’attività didattica in presenza (in zona rossa sostanzialmente) delle classi seconde e terze delle scuole secondarie di primo grado”, prosegue il comunicato Omar. “Lo stesso Congedo è stato previsto per i genitori di figli in situazione di disabilità grave – riconosciuta ai sensi dell’Art. 3 comma 3 della Legge 104/92 – in caso di sospensione della didattica in presenza di scuole di ogni ordine e grado o in caso di chiusura dei centri diurni a carattere assistenziale, indipendentemente dallo scenario di gravità e dal livello di rischio in cui è inserita la regione dove è ubicata la scuola o il centro di assistenza. Il congedo prevede il riconoscimento di un’indennità pari al 50% della retribuzione, calcolata secondo quanto previsto dalla normativa precedente.”

Gli unici specifici riferimenti alla disabilità del DPCM 2 marzo riguardano le attività sociali e socio-sanitarie (da svolgere secondo i piani territoriali e seguendo i protocolli previsti), la deroga al distanziamento sociale per le categorie effettivamente impossibilitate a rispettarlo e la possibilità di svolgere sempre attività motoria all’aperto per queste stesse categorie”, riporta la nota. “A questo si aggiunge la novità, forse l’unica davvero positiva, introdotta dal comma 5 dell’Art. 11, che introduce – per i soli territori in ‘zona gialla’ – una deroga fondamentale all’assistenza da parte di caregiver per gli accessi a visite mediche e ai pronto soccorso per persone affette da grave disabilità. Gli accompagnatori dei pazienti in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, possono ora accedere al pronto soccorso insieme al paziente.

Stando alla norma il caregiver, inoltre, può prestare assistenza anche nel reparto di degenza, ma unicamente nel rispetto delle indicazioni del direttore sanitario della struttura. Il che potrebbe implicare una certa discrezionalità rispetto alla possibilità di restare con il proprio familiare durante tutto il ricovero.

Al DPCM 2 marzo seguirà il Decreto Legge ‘Sostegni’, che dovrebbe prevedere – secondo le bozze non ufficiali circolate nei giorni precedenti – un articolo dedicato alla tutela dei lavoratori fragili. Nulla – conclude il comunicato – è previsto, ancora una volta, per i caregiver, sempre più invisibili agli occhi del mondo. Specie se donne.

(clicmedicina.it)

Non isolare, non lasciare sole le persone anziane e quelle con disabilità

Sono una delle centinaia di migliaia di caregiver che non fanno notizia. Appartengo a quel popolo di “invisibili” di cui ci si occupa, quando va bene, sotto le feste di Natale o in occasioni particolari che, per il loro carattere simbolico, garantiscono una rassicurante esposizione mediatica (non è casuale che mentre scrivo mi venga in mente il 2 Aprile, Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell’Autismo, ma anche carosello vorticoso di promesse mai mantenute).
Ho citato la data del 2 Aprile proprio perché ho un figlio autistico, interdetto, che vive in una RSD (Residenza Sanitaria Disabili). Come potrei pretendere che oggi, per di più in piena emergenza Covid, ci si occupi di lui (ha 40 anni, Presidente Conte, solo una quindicina meno di lei. Quanto diverse sono le vostre… carriere) e di un genitore di 71 anni che vive da solo, dopo che un ictus ha colpito la madre di Gabriele, nostro figlio, costringendola ad un ricovero prematuro in una RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale)?
Scrivo alcune riflessioni a nome di chi, come Gabriele, non ha voce. Scrivo, forse, anche a nome di tante Persone che, in questo abisso dimenticato, soffrono quanto lui e più di lui.
Ci sono persone con disabilità e anziane segregate da mesi all’interno di strutture talvolta fatiscenti e insicure, di cui ci si prende frettolosamente nota solo quando la quantità di morti raggiunge un numero talmente “interessante” da garantire un’audience elevata nei TG e talk show televisivi e, perché no? “persino” in qualche interpellanza parlamentare.
Poi ci sono tanti altri, altrettanto emarginati e soli: i senza fissa dimora, quelli che a causa del Covid hanno perso il lavoro, i “nuovi poveri” in giacca e cravatta. Eccetera. Tutte persone che non rientrano nelle statistiche ufficiali, non fanno numero né rumore. A chi importa se dormono tra i cartoni sui marciapiedi, se rovistano nei cassonetti della spazzatura alla ricerca di un cibo non completamente avariato, se si mettono in fila per consumare un piatto caldo già alle 11 del mattino davanti alle mense Caritas? Di loro, possiamo esserne certi, si parlerà solo tra qualche settimana quando qualcuno – come accade sempre – sarà trovato morto, sotto un ponte, a causa del gelo.
E comunque siamo di fronte a una costante, non certamente a un fenomeno stagionale. In estate, quando fuori erano ampiamente “tollerate” movide, discoteche, spiagge affollate, viaggi all’estero… a rimanere “intollerati” erano solo i disabili e gli anziani segregati nelle strutture. Ultimi tra gli ultimi: questo è il loro copyright.
È giusto ricordare che ai disabili autistici sono stati permessi, e solo in poche Regioni (chissà perché non in tutte… È questa la “libertà” che si chiama “autonomia regionale”?), brevi rientri a casa solo dopo la seconda metà di agosto, al termine di una lunga vittoriosa battaglia di cui qualcuno, qui in Piemonte dove vivo, mi accredita persino piccoli meriti per l’impegno che vi ho profuso.
Eppure la specificità e la complessità della patologia autistica avrebbero potuto e dovuto suggerire ovunque – posso dire imporre? – il contrasto di ogni forma di isolamento sociale, prima ancora di qualsiasi altro intervento. Sarebbe stato necessario non smarrire i contatti con i familiari, con il contesto affettivo, con ciò che rimane di una vita segnata da dolorose e pesanti rinunce.
Dalla fine di settembre, con l’avallo di Presidenti di Regione e Assessori alla Salute, che presumibilmente in vita loro non hanno mai visto un autistico in carne e ossa, sono state emanate ordinanze del tutto disattente alle caratteristiche dello spettro autistico. Per gli autistici ciò ha significato, e significa, nessuna terapia, nessuna riabilitazione, nessun rientro a casa, nessuna visita in struttura, nessuna attenzione ai loro stati d’animo, quasi ne fossero sprovvisti o non vivessero appieno le emozioni come chiunque altro.
Parliamo di persone i cui i deficit di relazione e comunicazione rappresentano una cifra importante, essendo due tra le principali compromissioni. Ebbene: oggi, in assenza di contatti con i familiari, l’unico loro riferimento è tornato ad essere quello di operatori che indossano la mascherina e la visiera. Tanti che si aiutano col labiale non capiscono una sola parola di questi interlocutori e non riconoscono nemmeno il viso di chi hanno di fronte…
Quale benessere maggiore potrebbero trarre rispetto a quello garantito da brevi periodi di serenità vissuti a casa? Lo so, si risponderà a questa domanda recuperando il solito adagio che torna buono per ogni occasione: «Si fa per ridurre i rischi di contagio»… Parole e frasi diventate un mantra, una sorta di coperchio buono per tutte le minestre, destinato a coprire qualsiasi cosa, anche la più oscena,  incomprensibile e indifendibile.
«Ridurre i rischi»? Chi glielo spiega, allora, a Gabriele, come mai è risultato positivo al Covid e costretto a un deleterio periodo di isolamento, con l’aggiunta di un doppio tampone molecolare (pratica altamente invasiva. Cosa si aspetta ad accelerare il processo di validazione di uno screening salivare?), che ne ha ulteriormente aggravato la condizione psicofisica? Chi gli ha trasmesso la positività al coronavirus visto che né lui né altri sono più tornati a casa? C’è relazione con la grave crisi che ha avuto i giorni successivi nel corso della quale – riporto testualmente le parole dell’interlocutore della struttura che mi ha telefonato – è apparso “disorientato”, “confuso”, “assente”, prima di perdere i sensi e accasciarsi? La mia risposta è “”. Sono assolutamente convinto che questo è il prezzo che si paga (o meglio: quello che pagano tutti “i” Gabriele) a un sistema di cattività disumano e ingiusto, che esige un immediato cambiamento di rotta per non produrre danni ancor più devastanti.
Questa drammatica realtà non riguarda solo le RSD, ma anche tantissime RSA per persone anziane, dove il Covid continua a galoppare, nonostante gli ospiti siano reclusi da febbraio.
Mi si permetta di dire che ritengo sbagliata e pretestuosa la divisione che viene fatta tra RSA e RSD. Comune è innanzitutto il fatto che parliamo di persone fragili e indifese: pensare che il dato anagrafico cancelli torti e violazioni di diritti è un’operazione squallida nel migliore dei casi, penosamente falsa nel peggiore. Parliamo di esseri umani, non di sigle. Parliamo di donne e uomini, marginalizzati, mortificati nei loro sentimenti più intimi, offesi nella loro dignità. Parliamo di persone per bene, che hanno dedicato la loro esistenza al lavoro e alla famiglia, a cui viene vietato persino di incontrare i propri cari, ricevere una carezza, scambiare un sorriso. Quanti anziani sono morti in queste strutture, e continuano a morire, per solitudine?
È indispensabile che i familiari di persone ospitate in RSA e RSD rifiutino questa odiosa divisione che li rende inevitabilmente più deboli. Facciano fronte comune, si oppongano con tutte le loro forze ad una realtà che condanna i loro cari all’oblio e all’abbandono. In gioco è la sopravvivenza di persone cui vengono negati bisogni e diritti primari.
La manifestazione che si è tenuta a Roma il 13 novembre scorso, davanti al Ministero della Salute, aveva come filo conduttore Il diritto alla continuità affettivo relazionale con i parenti degli anziani e disabili nelle RSA ed RSD. Stanno nascendo coordinamenti regionali che, spero, possano presto confluire in un soggetto nazionale in grado di dar vita ad una grande mobilitazione. Tutti devono prendere coscienza della gravità della situazione. È scritto nella pagina web del Comitato Nazionale Familiari RSA RSD-Sanità: «Le persone anziane nelle RSA non sono al 41 bis. Chiediamo dignità e cura».
Per impedire la morte sociale delle fasce più vulnerabili della popolazione – hanno acutamente osservato Milena Gabanelli, Mario Gerevini e Simona Ravizza, in un’analisi assai attenta e particolareggiata che è possibile trovare in un articolo pubblicato nel blog Dataroom del «Corriere della Sera.it», con il titolo esemplificativo Anziani e Covid, perché le RSA sono un affare solo per i privati – «devono essere definite da subito regole severe di accreditamento, da fare rispettare pena l’espulsione dal sistema. È necessario l’arruolamento di figure professionali adeguatamente formate e una generale riqualificazione professionale degli operatori sanitari».
Personalmente aggiungo a queste richieste l’adeguamento di risorse materiali e umane, al passo con la complessità della situazione, e la riorganizzazione complessiva delle strutture che, in particolare nelle RSD, deve consentire la realizzazione di quel progetto individuale di vita di cui tutti comprendono il bisogno e l’urgenza ma che ad oggi rimane una chimera.
Chi è investito di alte responsabilità istituzionali, più che limitarsi a sciorinare dati e tabelle di cui nessuno comprende il significato, si affidi a tecnici realmente competenti (ma anche ad associazioni di familiari come l’ANGSA-Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici, di riconosciuta e provata esperienza) in materia di problematiche socioeducative e sanitarie nell’autismo.
È tempo di realizzare una cabina di regia unica, che ponga finalmente fine allo stucchevole palleggiamento di responsabilità tra Stato e Regioni e a quello tra Regioni e Direzioni Socio Sanitarie delle strutture, alle quali si lascia il cerino in mano solo per paura di scottarsi. Siamo spettatori impotenti di uno scaricabarile che stanca e deprime. Serve definire un vero orizzonte strategico. Nulla a che vedere con i giochi di Palazzo, perché quello che abbiamo davanti è tutt’altro che un gioco.
Se nell’adozione delle misure di contrasto alla pandemia, messe in campo dal Governo, è stato giusto evidenziare le esigenze del “tessuto produttivo”, altrettanto dev’essere fatto per quelle che rientrano nel “tessuto umano”. È urgente, insomma, rimettere al centro degli interventi le persone.
Occorre proteggere gli anziani e i disabili, non isolarli, non lasciarli soli, permettere loro incontri con i familiari nelle strutture, rientri controllati a casa, con la garanzia di un giusto bilanciamento tra la tutela della salute e il rispetto che si deve ad ogni essere umano.
È necessario cambiare immediatamente paradigma, privilegiando i bisogni e i diritti, dando ad essi concretezza e applicazione. Per effetto di scelte sbagliate possono determinarsi danni irreversibili nel fisico e nella mente, che non potranno mai essere riparati con bonus e interventi monetari.
«Saremo vicini alle persone con disabilità», ha dichiarato di recente il presidente del Consiglio Conte. Perché non siano parole vuote e di circostanza i nostri figli, e i familiari con loro, si aspettano misure incisive, vincolanti e rispettose.
L’Italia ha una serie di eccellenti leggi in materia di welfare, probabilmente tra le migliori al mondo: peccato che siano applicate solo in minima parte.
Premesso che non può interessare a nessuno lo sterile dibattito sulla responsabilità maggiore o minore di questo o quel Governo, cito alcuni esempi di “leggi fantasma”: la 328/00 sul progetto di vita, la 68/99 su disabilità e lavoro, la 134/15 sull’autismo, la 112/16 sul “Dopo di Noi”. E mi fermo qui solo per esigenze di spazio, non senza aver ricordato il colpevole mancato rispetto dell’articolo 26, Inserimento dei disabili, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e quello della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (Legge dello Stato 18/09).
Chiudo rivolgendomi a te, Gabriele caro. Questa lettera, che indirizzerò alle massime Autorità dello Stato e a Papa Francesco, finisce qui. Non finisce, invece, la Tua e la mia battaglia, ciascuno nella modestia di ciò che rappresentiamo e di quanto riusciremo e sapremo fare.
Resisti, ti prego, dammi la forza per andare avanti. Aiutami a far capire che per essere “realmente” vicini alle persone più fragili e alle loro famiglie è indispensabile che i diritti non siano affermati solo sulla carta, ma vengano riconosciuti, rispettati e soprattutto applicati. Che Dio ti benedica!

Di Gianfranco Vitale (padre di Gabriele, uomo autistico), (www.facebook.com/autismoIN). Autore dei libri “Mio figlio è autistico” e “L’identità invisibile. Essere autistico, essere adulto”. Il presente testo verrà indirizzato, sotto forma di lettera, al presidente della Repubblica Mattarella, al presidente del Consiglio Conte, al ministro della Salute Speranza e a Papa Francesco.

In ospedale arriva il robot Pepper: aiuta i medici nella cura dei pazienti anziani

La sperimentazione nella Casa Sollievo della Sofferenza a San Giovanni Rotondo: il robot umanoide supporta nei percorsi di riabilitazione, affianca gli psicologi, crea sessioni interattive con i pazienti e virtauel tour con i parenti a casa. “Tecnologia semplice ma grande portata a livello umano”

Sarà al servizio delle persone anziane come supporto per la riabilitazione, la comunicazione con i parenti e la valutazione sanitaria: si chiama Pepper ed è un robot umanoide il cui utilizzo è in fase di sperimentazione nell’Irccs Casa Sollievo della Sofferenza a San Giovanni Rotondo (Foggia).a

Pepper sarà di supporto nei percorsi di riabilitazione cognitiva e affiancherà uno psicologo nella somministrazione dei test di valutazione del declino cognitivo, inoltre creerà sessioni educative interattive per i pazienti ai quali insegnerà come conservare uno stile di vita sano e attivo.

Un test cognitivo

Pepper avrà anche un prezioso ruolo di collegamento con le famiglie delle persone ricoverate, grazie alla piattaforma ‘Virtual Round‘ che è stata implementata presso Casa Sollievo e che consente di svolgere delle visite virtuali al reparto di ricovero.

La videochiamata con i familiari di un paziente

È un progetto tecnologicamente semplice, ma dalla grande portata a livello umano“, commenta Antonio Greco, direttore della unità di Geriatria. “Permettendo alle famiglie di seguire a distanza le attività in reparto – aggiunge – i medici potranno ad esempio condividere più facilmente scelte sulle terapie dei pazienti in terapia intensiva. Soprattutto per persone molto anziane, avere la famiglia vicino grazie a una tele-presenza assistita da un robot è un grande aiuto, con un enorme ritorno dal punto di vista psicologico e del benessere del paziente nel senso più ampio“.

Pepper, infine, si renderà utile anche dopo il ritorno a casa del paziente che potrà essere gestito correttamente grazie al collegamento da remoto, evitando così nuovi ricoveri.
(repubblica.it)

La bicicletta per tutti: la startup che mette sulle due ruote anziani e disabili

Dall’Olanda modelli speciali per carrozzine e persone con disabilità: Remoove offre servizi e consulenza per una nuova mobilità


C’è una bella differenza tra rimuovere e ri-muovere, tra mettere da parte e rimettere in movimento vincendo disabilità e immobilità, tra esclusione e inclusione. Partendo dal nome è ben chiaro cosa punti a fare Remoove: «Il nostro obiettivo è abilitare la società: non è la persona che ha una disabilità, ma la società che non è pronta ad accogliere quella persona», sintetizza Mattia Bonanome, cofondatore e Ceo della startup nata non lontana dal lago di Garda.
Quando parla di disabilità Bonanome non intende solo i tre milioni di disabili ex legge 104, ma una platea allargata a dieci milioni di persone in Italia che oltre ai disabili comprende gli anziani che fanno fatica a muoversi o con disabilità lieve. Ma che si può ampliare anche a papà e mamme che vogliono fare la spesa o portare a spasso i figli con modalità alternative: «Bisogna trasformare il concetto di disabilità in diversità in senso lato, che poi rappresenta un fattore essenziale della vita del pianeta con prodotti e servizi adattabili a target più estesi». Da questo punto Alex Zanardi rappresenta un esempio concreto per dimostrare che qualsiasi disabilità, piccola o grande, non deve rappresentare un ostacolo.

Come poter “ri-muovere” quelle persone? “La bicicletta è lo strumento ideale per una mobilità alternativa, in grado di rimettere le persone in grado di muoversi, soprattutto grazie ai modelli pensati per bisogni speciali”, spiega Bonanome, una lunga esperienza di accompagnatore e consulente nel cicloturismo, che ha fondato ad Arco di Trento la startup insieme a due amici uniti dalla passione per le due ruote, Andrea Tomasoni, manager in ambito finanziario, e Matteo Taddei, esperto di comunicazione.
La partenza non è stata facile. Remoove è nata nel dicembre: giusto il tempo di iniziare a ordinare le biciclette ed è arrivato il lockdown. Ma una startup che si occupa di mobilità non poteva certo permettersi di stare ferma, soprattutto perché proprio i disabili erano le persone più colpite dalla chiusura. Remoove ha così iniziato a mettere a disposizione le biciclette olandesi Van Raam, tricicli speciali pensati per i disabili, complici anche i Comuni disposti a chiudere un occhio pur di fornire un servizio ai soggetti che più avevano bisogno di movimento.
L’esperienza ha permesso di mettere a punto le strategie di business che dai servizi a disposizione della sanità pubblica e dell’associazionismo si allargano ai Comuni per la creazione di bike sharing inclusivi e agli operatori turistici. È nato così Garda Hotspot, format di Remoove per mettere in rete albergatori, commercianti e realtà locali con l’obiettivo di raggiungere una nuova fascia di clientela: un target con esigenze specifiche, ma anche con elevato tasso di fidelizzazione se vede soddisfatte le proprie esigenze. Già oggi il target potenziale è attorno al 17% della popolazione europea affetta da disabilità in senso lato, sia patologici sia anziani, un bacino di oltre 130 milioni di persone. Ma le stime parlano di circa il 30% della popolazione che sarà over 65 per il 2040, solo in Italia. Senza tenere conto che accanto alla triciclette ci sono poi bici speciali per portare anziani immobilizzati in carrozzina e cargo bike per spesa e bambini. Per mostrare le potenzialità concrete del servizio sono nati in questo periodo i “Re-bike”, eventi itineranti nel Nord Italia in cui le biciclette speciali vengono messe a disposizione per tutti.

Per scelta i tre fondatori hanno deciso di fare di Remoove una società ordinaria, piuttosto che un’impresa sociale: «La diversità non deve essere affrontata solo con buona volontà, ma con servizi di mercato come per tutte le altre persone pretendendo qualità e professionalità», conclude il president e Ceo Andrea Tomasoni.

(Ilsole24ore.com)

Nel 2047 record di disabilità tra gli europei over 65

Fra trent’anni, in Europa una donna su quattro e un uomo su sei nella popolazione di età superiore a 65 anni avrà una disabilità fisica tale da compromettere le attività quotidiane. Lo afferma un nuovo studio basato su dati epidemiologici europei, lanciando l’allarme sull’impatto di un’ampia popolazione anziana bisognosa di assistenza sui sistemi sanitari nazionali e privati

La popolazione europea sta invecchiando: negli ultimi decenni la longevità è aumentata continuamente mentre la natalità è costantemente diminuita o è rimasta ferma a valori bassi. In questa situazione, il numero di soggetti malati o in cattive condizioni di salute continuerà ad aumentare.

Una valutazione quantitativa precisa delle dimensioni del problema arriva da un nuovo studio pubblicato sulla rivista “BMJ Open” da Sergei Scherbov e Daniela Weber dell’International Institute for Applied Systems Analysis di Laxenburg, in Austria.

Gli autori hanno infatti stimato che nel 2047, nella popolazione degli over 65, una donna su quattro e un uomo su sei avrà una disabilità fisica tale da compromettere le sue attività quotidiane.

Percentualmente, non ci saranno grandi variazioni; a preoccupare è piuttosto il numero assoluto di questi anziani fragili, che aumenterà molto perché le persone di età superiore a 65 anni fra trent’anni saranno molte di più. Senza misure preventive efficaci, dunque, il fenomeno avrà un impatto enorme sui sistemi sanitari nazionali e privati di tutta Europa.

I risultati sono stati ottenuti sulla base di una analisi dei dati EU-SILC (Statistics on Income and Living Conditions) raccolti dall’Unione Europea ogni anno tra il 2008 e 2014 in 26 paesi del Vecchio Continente, messi a confronto con le proiezioni demografiche e di speranza di vita tra il 2015 e il 2050 delle Nazioni Unite.

Focalizzandosi sulla popolazione europea più anziana, i ricercatori hanno combinato i dati per calcolarne la speranza di vita in salute, un parametro epidemiologico che rende conto degli anni di vita non gravati da problemi sanitari invalidanti.

Hanno così calcolato la quota

di persone anziane la cui attività quotidiana potrebbe essere gravemente limitata, tenendo conto non solo delle differenze nell’assistenza sanitaria tra paese e paese, che hanno un’influenza significativa sul mantenimento dello stato di salute, ma anche delle differenze culturali.

Le indagini demoscopiche, infatti, sono state condotte mediante questionari diretti ai cittadini, e perciò sono influenzate dallo stato di salute percepito dalla popolazione anziana: tra gli svedesi solo una donna su 10 ha riferito di aver restrizioni nelle attività quotidiane contro una donna slovacca su tre.

Al di là delle differenze, secondo lo studio la percentuale di popolazione in cattive condizioni di salute sarà simile nei 26 paesi: nel 2047 il 21 per cento delle donne e il 17 per cento degli uomini oltre i 65 anni potrebbero avere forti restrizioni nelle attività quotidiane.

A risentirne di più saranno le donne, che vivono mediamente più degli uomini e quindi avranno una prevalenza maggiore di disabilità. Tuttavia, non sembrano esserci differenze di genere nel tasso con cui peggiora la salute dei cittadini.

Alla luce di queste cifre, concludono i ricercatori, occorrerà mettere in atto delle contromisure che consentano di ridurre l’impatto sociale delle disabilità degli anziani. Sarà necessario per esempio abbattere le barriere architettoniche e aumentare le risorse dedicate alla formazione di medici, infermieri e caregiver su questo specifico ambito dell’assistenza sanitaria.

(Le Scienze)

Presa in carico della disabilità. Eppur si muove

Con la DGR 740, la Giunta Regionale inizia a dare concreta attuazione alle precedenti affermazioni programmatiche. La ripartizione e l’utilizzo delle risorse del Fondo per la Non Autosufficienza rispondono a criteri e linee guida che fanno prefigurare un deciso cambiamento di rotta nell’impostazione del welfare lombardoLe modalità di utilizzo delle risorse provenienti dal Fondo per la Non Autosufficienza 2013 erano già state ampiamente comunicate con la Dgr 590 del 2 agosto scorso. Si tratta di un complesso di oltre 40 milioni di euro di provenienza statale, connessi al rifinanziamento del Fondo che nell’anno precedente era stato invece azzerato (si veda articolo correlato).
La Dgr 590 prevedeva in estrema sintesi di:
–          destinare il 35% di questo fondo al sostegno alla disabilità gravissima ed il restante alla disabilità grave;
–          estendere la platea dei beneficiari dalle solo persone con SLA ed altre malattie del motoneurone, beneficiarie dei precedenti dispositivi, all’insieme di persone con disabilità gravissime;
–          ricomporre ed integrare le risorse previste per gli interventi sociali, sanitari e sociosanitari;
–          far precedere l’erogazione del contributo ad una valutazione multidimensionale del bisogno come premessa di un processo di presa in carico globale ed integrata da parte di Asl e Comuni ed alla stesura di piano di assistenza con forte connotazioni di personalizzazione.
Una serie di intenti che confermavano la volontà della nuova Giunta regionale di abbandonare, seppure con le dovute prudenze, l’attuale modello di welfare sociale lombardo per aprirsi ad un maggior coinvolgimento delle istituzioni territoriali ed una maggior attenzione al contenuto ed all’efficacia degli interventi rispetto al semplice rispetto della “libertà di scelta” dell’ente erogatore. Volontà già emersa dalle dichiarazioni contenute nel capitolo dedicata all’Area sociale del PRS (Piano Regionale di Sviluppo) e nella DGR 116 che istituiva il Fondo Regionale per la Famiglia. Dichiarazioni programmatiche che trovano un primo concreto campo di sperimentazione.
La Dgr 740, come prevedibile, conferma quanto indicato nella precedente comunicazione disponendo innanzitutto la divisione tra gli interventi diretti alle persone con disabilità gravissima da quelli destinati alle persone non autosufficienti. 

Sulle disabilità gravissime

La disabilità gravissima viene individuata nella dipendenza da un assistente per vedere assicurate le funzioni vitali, primarie e di relazione. I beneficiari dovranno avere meno di 65 anni. A queste persone, con queste caratteristiche indipendentemente dall’eziologia, viene garantito in forma universalistica una forma di sostegno significativa, pari a € 1.000 al mese.
La titolarità dell’intervento in questo caso sarà in capo all’Asl con una forte prescrizione di coinvolgimento dei Comuni. Un intervento ed una titolarità schiettamente pubblica che, come previsto, non si limiterà alla gestione amministrativa connessa all’erogazione del contributo ma dovrà prevedere una fase di valutazione multidimensionale del bisogno, la stesura di un progetto di assistenza personalizzato che comprenda ed integri le risorse a disposizione della persona e ne veda un coinvolgimento diretto ed abbia connotati di forte flessibilità e personalizzazione.
Le risorse statali per questa area di intervento sono pari a € 14.543.375 a cui si aggiungono € 3.500.000 provenienti dal Fondo Sanitario Regionale. Sembra, quest’ultima novità, una prima risposta ai dubbi di chi temeva una sottovalutazione del fondo rispetto al bisogno. A questo incremento si deve aggiungere l’impegno politico espresso dall’Assessore di prevedere fondi aggiuntivi nel caso si dovesse registrare un numero di richieste più alte di quelle preventivate dagli uffici regionali.
La valutazione del bisogno viene affidata alle UVM (Unità di Valutazione Multidimensionale) già costituite in occasione degli interventi in favore delle persone con SLA ed altre malattie del motoneurone e composte da un medico, un infermiere ed un assistente sociale di provenienza comunale. Viene lasciato una certa discrezionalità sugli strumenti di valutazione pur indicando “negli strumenti di valutazione già in uso” una scelta preferenziale. Viene comunque previsto con precisione come la valutazione dovrà essere la sintesi della valutazione funzionale della persona e della valutazione sociale.
Il richiamo culturale esplicito è quello all’esperienza del Budget di cura, anche se le condizioni sociali e culturali oggi presenti in Lombardia appaiono molto diverse da quelle che hanno contraddistinto le esperienze triestine o casertane. Il progetto personalizzato potrà indicare e prevedere diverse possibilità di intervento da quelle sostenute direttamente dal buono di € 1000 (assistenza diretta, aiuto domestico) a quelle assicurate dall’ADI fino ad arrivare alle “altre forme integrative per la risposta al bisogno, misure economiche di carattere assistenziale già erogate da Enti pubblici e privati”. Viene infine richiamato l’inserimento dell’Isee individuale.
Una previsione che non viene però collegata ad alcuna forma di limite nell’accesso alla misura collegata al reddito e di cui, quindi non si coglie, ad una prima lettura, la ragione. Sulla non autosufficienzaUna parte significativa delle risorse del FNA sono destinate ad una platea potenzialmente molto più vasta di beneficiari, ovvero le persone con disabilità gravi senza vincoli di età. Lo schema di funzionamento di questa seconda misura ricalca quanto previsto per le persone con gravissime disabilità, con alcune significative differenze. La titolarità dell’intervento passa dall’Asl al Comune, il buono mensile sarà di € 800  mensili e potrà sostenere anche i costi connessi ai progetti di Vita indipendente ed in questo vi sarà la possibilità per la persona con disabilità gravissima, già “coperta” dalla prima misura,  di poter accedere anche a questa forma di sostegno. Alcune riflessioni in meritoCome si accennava la Dgr 740 diviene il primo banco di prova per quella “discontinuità” annunciata dalla Giunta regionale in tema di welfare sociale. Un provvedimento sicuramente ricco di novità, rispetto al passato e che ha buone possibilità di effettiva implementazione, anche perché non va a toccare l’impianto complessivo e più impegnativo delle Unità di offerta sociosanitarie socio assistenziali. Si tratta infatti di una scelta di allargamento del raggio di impegno e responsabilità del welfare pubblico a fasce di popolazione rimaste fino ad ora escluse o ai margini della programmazione regionale. Anche il carattere di universalità della misura è significativo perché pone al centro la condizione di bisogno / diritto della persona e non la tipologia della sua menomazione e neppure la condizione economica personale né del suo nucleo familiareUna discontinuità che rimette al centro della programmazione degli interventi il servizio pubblico richiedendo ad Asl e Comuni un livello di integrazione e collaborazione impensabili nel recente passato. In che modo livelli di governo oggi spesso così distanti potranno integrarsi, senza mettere in gioco le loro autonomie operative? Chi deciderà in caso di contrasti o anche solo differenze di vedute?Le possibili criticità in fase di implementazione riguardano la scarsa formazione ed abitudine dei dirigenti ed operatori sociali a questo tipo di azione e di responsabilità. Una responsabilità che va oltre la semplice previsione di diverse prestazioni ed alla loro gestione burocratica. Si è chiamati ad un incontro reale e profondo con le persone, ad entrare nel merito del contenuto dei progetti di vita ed alle scelte di intervento, ad interagire non solo con “enti erogatori” ma con le famiglie ed il loro territorio.
Un processo di cambiamento, che sarà presumibilmente molto ben accolto dagli operatori del settore, ma che non vede al momento alcun tipo di supporto operativo o formativo: l’eccezione significativa è data dall’attività di monitoraggio e controllo che sarà gestita dalla stessa Asl e dagli stessi Comuni ma che dovrà vedere il coinvolgimento delle associazioni soprattutto per quanto riguarda gli esiti degli interventi, anche in ordine alla soddisfazione delle persone coinvolte. E’ questa una ulteriore richiesta di profondo cambiamento che viene posta agli operatori pubblici: l’attività di monitoraggio e valutazione dovrà entrare necessariamente nel merito dei progetti e non limitarsi alla verifica degli adempimenti formali.
Un cambiamento di rotta il cui peso culturale sembra non trasparire nelle parole del documento regionale invece molto preoccupato degli aspetti organizzativi:il rischio evidente è quello che nel passaggio dalle parole alle azioni la portata innovativa si perda nelle inerzie gestionali. Accanto al rischio vi sono però anche ottime opportunità di ripensare gli interventi in favore delle persone con disabilità non più solo o tanto i termini assistenziali e prestazionistici ma come interventi schiettamente sociali. 
(lombardiasociale.com)

di Giovanni Cupidi

Il mare (e non solo) alla portata di tutti: job chair

Frequentemente poter vivere una spiaggia piuttosto che percorrere un sentiero poco usuale rappresenta, per una persona con necessità speciali, un ostacolo difficilmente superabile.
Vi propongo di dare uno sguardo a questo ausilio che permette di affrontare “terreni” che di solito si trovano in zone di svago, villeggiatura e turismo.

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J.O.B. Chair è una sedia per il trasporto di disabili ed anziani adatta al mare, alla neve o al trekking off-road.
E’ munita, infatti, di una coppia di ruote studiate per il trasporto agevole su tutti i tipi di fondo (sabbia, ciottoli, neve).
Permette di entrare in acqua restando comodamente seduti poiché è costruita con materiali in lega che non temono l’attacco della salsedine. E’ completamente disassemblabile per il trasporto anche in veicoli di piccole dimensioni.
J.O.B. Chair è inoltre facile e divertente da usare: è la soluzione ideale per gli impianti balneari, stazioni sciistiche e campeggi non provvisti di attrezzature per l’agevole soggiorno di persone con problemi di mobilità temporanea e permanente.

Caratteristiche tecniche
Ruote diametro 44 cm – pneumatiche estraibili
Smontabilità: schienale, poggiapiedi, supporto anteriore, ruote
Ingombro telaio smontato: 90X45X30 (escluso ruote)
Telaio in Alluminio
Trattamenti superficiali: Trattamenti galvanici e verniciatura a polveri epossidiche

La J.O.B. Chair è prodotta dalla Neatech, azienda che progetta e realizza soluzioni semplici ed efficaci per la mobilità, basate sull’innovazione tecnica e stilistica.

di Giovanni Cupidi