Rubrica a cura di Angiola Rotella – Presidente di Insieme per l’Autismo onlus
Ebbene sono un caregiver molto fortunato. Lo sono per mille ragioni ma ce n’è una in particolare sulla quale c’è bisogno di mettere l’accento: Il lavoro.
Molti caregiver, infatti, sono costretti a rinunciarvi o subiscono così tante pressioni da finire per essere discriminati sul luogo di lavoro.
Il mio lavoro e’ complesso e molto particolare. Richiede uno sforzo in più perché bisogna essere sempre lucido attenti e garantire la sicurezza delle persone. Prevenire eventi indesiderati e quindi anticipare qualunque tipo di potenziale minaccia. Sono una assistente di volo.
Chiudo la porta dell’aereo e resetto la mia mente. Non sono più la mamma di Paolo lontana da casa. Sono un professionista. Poi atterro, vado in albergo e ritorno nella mia vita fatta di preoccupazioni, di organizzazione e di metodo. Si perché se non ti dai un metodo, non puoi reggere lo stress.
E così da anni a questa parte (periodo covid escluso e li ci sarebbe tanto altro si cui argomentare) mi divido in due o forse in tre qualche volta anche in quattro. Il lavoro resta sempre la cosa più importante non solo per me, anche e soprattutto per mio figlio.
E’ per questo che sto portando avanti un progetto molto ambizioso che si pone l’obiettivo di individuare le attitudini speciali delle persone, le forma e le guida con lo scopo finale di un inserimento lavorativo.
Mio figlio e’ la testa d’ariete di questo progetto, con le sue difficoltà e senza il supporto di un tutor o di un educatore, sta svolgendo un tirocinio gratuito presso un maneggio. Impara a lavorare. In un contesto di persone di buona volontà e grande professionalità gli insegnano come funziona il mondo del lavoro.
E’ l’inizio di un percorso molto complesso ma sono certa che sia la strada giusta. In un panorama umano nel quale ci sono persone che vengono retribuite per non lavorare, ce ne sono altre che nonostante la propria disabilità, vogliono e devono dare dignità alla propria vita attraverso il lavoro.
I requisiti essenziali per far parte del nostro progetto sono spirito di sacrificio e forza di volontà. Chiunque lo confonda per ufficio di collocamento può dirigersi verso altri lidi. Chiunque invece ha voglia di costruire una nuova società inclusiva e ha voglia di abbattere le barriere mentali e mettersi a disposizione sarà accolto con un sorriso, o forse più di uno. Stay tuned..
Il viaggio da Palermo a Roma attraversando Sicilia, Calabria e Laziofino alle stanze del Quirinale
Cari lettori come sapete di tanto in tanto utilizzo le pagine del blog per raccontare delle esperienze o dei fatti che mi riguardano personalmente; cosa che solitamente faccio invece sui miei social network.
Come altre volte è capitato anche questa volta vi parlerò di un mio viaggio. La meta è assai prestigiosa, niente popo di meno che il Quirinale. Sono stato, anzi per meglio dire, siamo stati ricevuti dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a cui abbiamo presentato il mio docufilm Il Figlio di Tarzan!
Dico “siamo” perché insieme a me oltre alla mia famiglia, e a due accompagnatori, c’erano anche il duo comico Valentino Picone e Salvo Ficarra, produttori del film, e Mariagrazia Moncada che ne ha curato la regia.
Un gruppetto assai nutrito ma d’altronde per tutte quelle che sono le mie esigenze e necessità quando mi metto in viaggio non solo con me devo portare tantissime cose ma anche più persone. La mia famiglia, mia madre e mia sorella, più uno dei miei assistenti e un amico che ci accompagni per darci una mano soprattutto per me. A questo giro mio cugino Filippo.
A differenza di altri viaggi passati in cui abbiamo attraversato l’italia in nave per poi concludere l’ultimo tratto con il mio furgone (detto anche pulmino), questa volta abbiamo deciso di affrontare tutto il percorso interamente via terra in due tappe e in più giorni sia all’andata che al ritorno.
La prima da Palermo (Misilmeri per meglio dire) a Cosenza e la seconda, il giorno dopo, da Cosenza a Roma. Circa cinque ore a tratta, una bella sfacchinata e un bel po’ di gasolio. Anche se devo dire, stanchezza a parte, che non è così male attraversare un pezzo del “Bel Paese”.
IL SUD ITALIA BATTE IL CENTRO
Come dicevo le tappe sono state due come pure i rispettivi alberghi che abbiamo prenotato e dove abbiamo alloggiato a Cosenza e a Roma. Non posso negare il fatto che all’Hotel Royal della cittadina calabrese ci siamo trovati benissimo, soprattutto per quelle che sono le mie necessità e che hanno trovato piena soddisfazione nelle richieste che preventivamente avevamo fatto alla struttura alberghiera. Una ampia stanza per me e i miei accompagnatori e ascensori adeguati all’ampiezza della mia carrozzina. C’è da aggiungere che tutto’albergo era perfettamente accessibile e fruibile oltre a una cortesia e gentilezza dello stuff.
Le stesse parole non posso invece utilizzare per l’Hive Hotel di Roma, in zona Quirinale. Un albergo completamente ristrutturato da soli tre annie credetemi assolutamente scarsamente accessibile per chi ha una disabilità motoria ma direi anche per un cliente con una valigia ingombrante di troppo. Come suggerisce la parola inglese “hive”, l’albergo è architettonicamente ispirato a un alveare e ho quasi l’impressione che abbiano scambiato i clienti per api operaie.
Personalmente per raggiungere la mia stanza ho dovuto prendere un ascensore di servizio neanche sufficientemente capiente tale che solo spostando la carrozzina di peso è stato possibile farvela entrare. Inoltre per prendere questo ascensore si entrava solo dall’esterno della struttura e tra una marea di cianfrusaglie depositate lungo i corridoi. Anche la stanza di certo non della stessa comodità dell’altra. Eppure avevamo fatto le stesse richieste di Cosenza e avuto rassicurazioni purtroppo non vere.
L’INCONTRO COL PRESIDENTE E UN GIRO PER LA CAPITALE
L’appuntamento con il Presidente Mattarella era fissato per il venerdì 17 dicembre alle ore 12. Rigido il protocollo sanitario: oltre alla terza dose del vaccino era anche indispensabile un tampone fatto 24/48 ore prima massimo. Tampone che infatti abbiamo fatto a Cosenza.
Incredibile è stata invece l’accoglienza. Non solo abbiamo attraversato la piazza antistante il palazzo del Quirinale col furgone ma addirittura ci è stato dato direttamente accesso al cortile del Quirinale dove ci aspettavano i collaboratori del presidente oltre la presenza dei mitici corazzieri. Ci hanno fatto accomodare in una sala al piano terra predisposta di amplificazione e sedie giustamente distanziate, da protocollo covid.
Dopo pochi minuti è arrivato il Presidente Mattarella e una cosa che ho notato subito è stato lo sguardo colmo di ammirazione dei suoi e delle sue collaboratrici. Mi ha dato come la conferma di come questo sia stato un presidente davvero importante in un settennato molto intenso, per così dire.
L’incontro è durato poco più di mezz’ora nella quale ho raccontato al Presidente il nostro docufilm e spiegato quale fosse il mio punto di vista su questa iniziativa e perché fosse così importante. Ma ho avuto anche modo di rimarcare e fare un po’ il punto della situazione per quanto riguarda l’inclusione delle persone con disabilità nel nostro Paese e all’interno della società, delle necessità ancora da soddisfare e dei diritti da riconoscere. Dall’assistenza domiciliare e alla non autosufficienza, dal lavoro alla mobilità, delle risorse insufficienti e dall’impegno che deve mettere sul campo la Politica ma anche la società civile. Ho anche colto l’occasione per donare al presidente una copia del mio libro Noi Siamo Immortali.
Altrettante parole in tal senso hanno aggiunto anche Ficarra e Picone sottolineando il fatto, attraverso anche delle situazioni esemplari, di come un Paese non possa definirsi civile nel momento in cui abbandona e emargina le persone con disabilità.
Devo dire che spesso, troppo spesso, dai politici o dalle istituzioni quando affrontiamo queste tematiche arrivano risposte non all’altezza o piene di demagogia. Mattarella ha invece fatto un discorso non solo centrato sul tema e i passi ancora da fare ma ha anche ben evidenziato le responsabilità oltre che le soluzioni e posto l’accento su qualcosa che io credo essere fondamentale: promuovere e far crescere e sviluppare una corretta cultura della disabilità in tutta la società. Che poi è forse il messaggio principale che abbiamo cercato di mandare col Il Figlio di Tarzan.
Dopo l’incontro col Presidente ci hanno fatto visitare alcune sale del Quirinale, tra cui la Sala dei Presidenti e un’altra sala dove è ospitato il presepe proveniente da Greccio. Nel corridoio principale un enorme albero di natale.
Lasciato il palazzo e dopo un pranzo tipico romanesco abbiamo visitato i Fori Imperiali, dal Colosseo all’Altare della Patria, e fatto un giro panoramico fino al Gianicolo per vedere la città dall’alto. Non avevo mai visto Roma finora!
RITORNO A CASA
Conclusi tutti gli appuntamenti e lasciato l’hotel abbiamo iniziato a fare strada per Cosenza. Tappa obbligatoria a Castrocielo per incontrare dei miei carissimi amici, Gianfranco e Caterina e le loro figlie e passare un paio d’ore insieme a pranzo. Amatriciana come non ci fosse un domani. C’è da dire che già all’andata ci eravamo trovati benissimo a Cosenza, dove il centro storico e tutto isola pedonale perfettamente accessibile. Il giorno dopo altra tappa prima di lasciare la Calabria, a Pizzo, per fare scorta del famoso tonno sottolio. Preso il traghetto a Villa San Giovanni nel giro di poche ore siamo arrivati a casa. Finalmente!
È stato un viaggio lungo e sicuramente impegnativo da affrontare dove soprattutto si è costretti a sacrificare molte ore in tempo per il viaggio invece che per godersi la destinazione. Tutto questo perché per una persona con la mia disabilità è veramente difficile prendere un aereo o una nave. La prima per la inaccessibilità della cabina, la seconda per la stanza messa a disposizione scomoda e con un letto assolutamente inadeguato. Senza parlare della differenza dei costi nel dover affrontare cinque giorni di viaggio così.
Ciò che porto con me da questo viaggio è innanzitutto la grande soddisfazione di avere presentato un progetto a cui tengo molto, che ci ha impegnato tanto, portando il tema della disabilità alla più alta carica dello Stato. Altra cosa che porto con me è proprio il viaggio nel suo significato più intrinseco, soprattutto per chi come me ha difficoltà a muoversi e a spostarsi. Una boccata di aria fresca!
Rubrica a cura di Angiola Rotella – Presidente di Insieme per l’Autismo Onlus
E’ trascorsa una settimana da quando la mia mamma ha lasciato questa vita terrena e le riflessioni che faccio sono tantissime. Lei era un caregiver di quelli corazzati e mio fratello ed io siamo stati i suoi per un po’. Ma lei è stata la mamma dei caregiver fino all’ultimo. Ci ha protetti dalla sofferenza del suo calvario, illudendoci che potesse guarire, ma facendoci comunque comprendere che la vita eterna esiste.
Quando mi ha detto che stava morendo, ho interpretato le sue parole come una domanda. Le ho risposto che non si muore così, non funziona così, che doveva pensare alla vita, non alla morte. Quelle mie stesse parole, in quel momento non le ho capite neanche io.
Le sto capendo adesso, e le condivido con tutti voi, per diffondere un messaggio chiaro ed inequivocabile. Si è caregiver sempre e comunque. Anche dall’alto dei cieli. Ci affanniamo a sistemare tutto per il “dopo di noi” e spesso trascuriamo il “durante noi”. Ma dall’alto dei cieli l’opera di un caregiver continua a costruire la sua fortezza. Anzi lo fa in maniera ancora più prepotente perché non ammette repliche.
“Quello che ti ho lasciato, figlio mio, è il libretto di istruzioni.”
Il caregiver è eterno perché si è preso cura dei suoi cari ed i suoi cari si sono presi cura di lui. Perché attraverso il suo combattimento ha imparato e lasciato una eredità di valore inestimabile. Perché attraverso questa eredità, continua per sempre a prendersi cura delle persone che ama.
Tutti siamo potenziali caregiver, dipende solo dalla capacità di ciascuno di noi, di rendersene conto. Tutto è possibile, se ci crediamo veramente, se siamo pronti ad accettare l’incarico che ci è stato affidato e di conseguenza siamo pronti a combattere in prima linea sotto un’unica grande bandiera. C’è un solo grande motore che muove la macchina del caregiver: la forza dell’Amore.
A Rosa, e a tutti gli immortali.
*in foto Rosa Conte insieme a PIF – Marcia per la Dignità 2017 a Palermo
Rubrica a cura di Elena Beninati – Giornalista/fotografa
“L’unico modo di venire a patti con l’assurdità è di rendersene conto, perché afferrandola siamo veramente in movimento.”
David Cooper
Un paradosso è una contraddizione logica che deriva dalle deduzioni coerenti di premesse corrette. Esso, oltre a influenzare il nostro comportamento e la nostra salute mentale, mette in crisi la fede nella coerenza. Se la struttura logica del nostro linguaggio è basata sulla legge aristotelica secondo cui A non può essere diverso da A, ovvero sul principio di non contraddizione, e nella contraddizione si impone una scelta fra almeno due possibili soluzioni, nei paradossi la scelta non è neppure contemplata.
I paradossi si classificano in logico-matematici, o antinomie, e paradossi semantici, che derivano da incoerenze inerenti alla struttura del linguaggio e del pensiero. Esistono, tuttavia anche i paradossi pragmatici, che investono il settore della comunicazione umana e hanno un effetto dirompente nel comportamento.
In una situazione paradossale la radice del conflitto è rintracciabile negli elementi che equivalgono a una contraddizione tra le alternative. Si crea, dunque, un effetto paralizzante a monte, che coinvolge dalla base, le strutture fondamentali dell’esistenza, e quindi le basi di un discorso coerente. In un contesto illogico e incoerente, quale quello prospettato dai paradossi, è impossibile comportarsi in modo logico.
Se il messaggio è paradossale, infatti, ogni reazione all’interno dello schema stabilito dal messaggio deve essere altrettanto paradossale. Quando il paradosso si insinua nell’interazione umana, non è tanto importante che l’aspetto di contenuto, o notizia, sia privo di significato, quanto che l’aspetto di relazione, o comando, sia espresso chiaramente.
Il paradosso, in sé, è un messaggio che ha almeno due livelli in contrasto fra loro. Se un individuo si trova coinvolto in una relazione in cui risulta impossibile discernere il significato dei messaggi inviatigli, sia a livello letterale che metaforico, siamo nell’ambito della comunicazione paradossale.
Quando si parla degli effetti comportamentali del paradosso nella comunicazione, si intende la particolare impasse che sorge ogni volta che si scambiano messaggi aventi la medesima struttura dei paradossi classici della logica formale. La fantasia, la religione, la scoperta scientifica, lo humor, la creazione artistica, sono il risultato della sua applicazione pratica alla vita reale.
La creatività, in generale, si avvale di uno stato transitorio dell’equilibrio instabile dell’emozione e del pensiero. L’amore stesso non sarebbe possibile se l’uomo non fosse capace di sperimentare il paradosso. Tuttavia, dove il paradosso contamina i rapporti umani compare la malattia. Quando un individuo è coinvolto in una relazione in cui gli è impossibile discriminare in modo tale da dare risposte appropriate ai messaggi inviatigli ad un livello diverso, si vengono a creare quelle situazioni di forte disagio e disfunzionalità, in cui ogni risposta crea confusione.
Di fronte all’assurdità insostenibile del paradosso, un individuo può convincersi di aver tralasciato qualche elemento, sviluppando a questo punto una vera e propria ossessione, nel bisogno di scoprire tali presunti elementi incogniti, che invece non esistono. Dall’esperienza contraddittoria, continua e costante, inoltre, traggono origine i conflitti comunicazionali interni alla struttura logica del discorso, che producono il doppio legame.
In questa dinamica si aggrava il disordine mentale. Dove il doppio legame è diventato il modello predominante della comunicazione, e dove l’attenzione diagnostica viene limitata all’individuo più manifestamente disturbato, si scoprirà che il comportamento di quest’ultimo soddisfa i criteri diagnostici della patologia. Il comportamento paradossale imposto dal doppio legame, a sua volta, ha la natura del doppio legame.
La comunicazione patologica è essa stessa paradossale e impone, di contro, il paradosso agli altri comunicanti. Un comportamento folle potrebbe essere quello di una persona invischiata in un doppio legame, che si trovi punita per aver avuto delle percezioni corrette, e definita folle, invece, per aver insinuato la discrepanza tra ciò che ha percepito e ciò che dovrebbe vedere. Le comunicazioni paradossali legano tutti i partecipanti che vi sono coinvolti, creando una situazione di stallo da cui è possibile sbloccarsi solo uscendo fuori dal modello comunicativo in atto.
L’oscillazione tra spontaneità e coercizione è tale da rendere paradossale persino il sintomo. Dire ad un paziente che non può fare una data cosa, per stimolarlo a farla, è un tipo di intervento che può essere definito “intenzione paradossale”. Lo scopo è quello di insegnare al paziente come rappresentare il suo sintomo, e fargli scoprire che rappresentandolo se ne può liberare.
Esso presuppone una relazione intensa in cui viene data un’ingiunzione paradossale, strutturata in modo tale da rinforzare il comportamento che il paziente si aspetta sia cambiato. Il rinforzo permette trasformazione e crea il paradosso per cui il paziente non può più non reagire, né reagire nel suo consueto modo sintomatico.
Per arrestare il gioco paradossale è necessario, quindi, introdurre un elemento apparentemente assurdo da un punto di vista logico, che rappresenta invece pragmaticamente l’unica via di uscita dalla “malattia”.
Rubrica a cura di Angiola Rotella – Presidente di Insieme per l’Autismo Onlus
La giornata mondiale di consapevolezza dell’autismo quest’anno si fa sentire ancor di più negli animi delle persone. Dei caregiver in particolar modo che hanno dovuto affrontare e continuano ad affrontare questo periodo extra ordinario di pandemia in un assordante silenzio.
Continuano a trascinarsi le difficoltà del quotidiano rimandando le soluzioni a tempi migliori. Ma a questo siamo, malamente, abituati. La legge 134/2015 avrebbe dovuto essere una prima pietra per la costruzione di un vero progetto di vita delle persone con autismo ma quando le linee guida nazionali vengono recepite in maniera diversa da ogni singola Regione, possiamo dire che alla fine non solo non è cambiato nulla ma anzi, in alcuni casi, siamo rimasti molto indietro. Dalla diagnosi precoce, alla presa in carico, passando dalla formazione all’inserimento lavorativo fino al dopo di noi, siamo anni luce indietro rispetto a diversi paesi europei, per non amare troppo lontano e aggiungo in barba all’agenda ONU 2030.
Consolati solo dalla buona volontà e dalla passione di singoli professionisti in ogni ambito che mettono in campo tutti i loro sforzi personali per supportare le famiglie, i caregiver soffrono la pressione di una burocrazia intransigente che non solo non solleva, ma addirittura schiaccia le famiglie in una morsa dalla quale, e’ davvero difficile uscire. Accendere i riflettori un solo giorno all’anno è un atto che le famiglie non comprendono più. Ogni altro giorno si trovano sole a rincorrere le istituzioni e a proporre soluzioni che non vengono mai attuate se non completamente ignorate. Per alcuni enti non si è autistici abbastanza per avere sostegno, per altri e’ una forma di sostegno al reddito abusivo come se rivendicare un proprio diritto sia un atto illecito.
E allora la domanda nasce spontanea: la consapevolezza la su richiede alle persone con autismo o al mondo che le circonda? Perché il mondo che le circonda, ancora oggi, tutta questa consapevolezza non la sta dimostrando. Quanto alla persone con autismo e le loro famiglie l’unica consapevolezza che emerge e’ l’indifferenza della società.
(Vietata le riproduzione – Tutti i diritti riservati)
Rubrica a cura di Elena Beninati – Giornalista/Fotografa
Il vuoto è l’anticamera della possibilità, molto più spesso, però, l’energia libera senza contenimento si annichilisce e trasforma il vuoto in un limite, creando una immensa solitudine. Nei soggetti sani l’ostacolo alla propria realizzazione è determinato esclusivamente dalla carenza di volontà, e ogni imprevisto è superabile virando in positivo un atteggiamento statico e attendista. Per chi è caratterizzato da disabilità, fisica o psichica, l’ostacolo, tangibile impone all’orizzonte un ulteriore limite.
Da un lato il vuoto è lo sfondo inaugurale di ogni impresa, ma dall’altro il vuoto è l’enigma che vi si interpone nella comunicazione tra un uomo e ciascun altro.
A. G. Gargani
Cosa fare per superare le distanze e assecondare al meglio le proprie potenzialità? Agire comunicando! Da un lato vi sono le dissertazioni scientifiche che analizzano il tema del linguaggio e al contempo il tema insaturo della comunicazione, dall’altro vi è l’argomentazione fondante che affronta il dilemma dell’amore quale elemento dinamico dell’essere al mondo. Un mondo complesso articolato nel linguaggio e luogo di incontro. Un incontro che può avvenire solo in uno spazio di fiducia e autenticità, intesa, quest’ultima, come categoria che regola l’essenza della salute psichica nel rispetto dell’unicità dei soggetti, abili o disabili allo stesso modo.
“Quando si vive soli non si parla troppo forte, perché si teme la vuota risonanza, e tutte le voci suonano in maniera diversa nella solitudine..
L’umanità ha sempre cercato di cogliere la verità oltre ogni apparenza e ben al di là dell’oggettività. La stessa umanità però, talvolta si dimentica di trovare il giusto mezzo per accedervi senza inganno. Il mezzo è un linguaggio comune che permetta di accostarsi all’altro superando la differenza. Grazie ad una sorta di linguaggio aumentato, in cui entrano in gioco il corpo e le relazioni sociali, è possibile comprendere il “diverso”, in una dinamica di accettazione reciproca in cui svanisce la “diversità” e permane l’autenticità.
Se è vero che si può comprendere in senso vero e proprio solo ciò che ha lo stesso modo di essere di colui che comprende, il linguaggio deve essere capace di penetrare la natura della differenza. Il linguaggio è uno strumento che ci permette di agire sul mondo, come diceva il filosofo linguista Searle: “facendo cose con le parole”. La funzione di apertura della lingua, che ci orienta nel mondo secondo prospettive diverse, ci permette di incontrare l’altro nella sua diversità, ma soprattutto in un rapporto immediato, che ci apre alla condivisione e alla socialità. Senza questa base di reciproca comprensione qualsiasi chiamata dall’altro cade nel vuoto. È proprio l’incomprensione ciò che inibisce il rapporto in qualsiasi forma di malattia.
Dunque affinché la voce del “malato” si trasformi in un appello, e quindi in una azione che reclama attenzione e vicinanza, va creato uno spazio di ascolto e luogo “vuoto” di condivisione, in cui ogni forma di espressione sia rispettata e non squalificata. Altrimenti, come ammoniva Nietzsche, si perde la vicinanza rischiando di sprofondare nel suo opposto.
Rubrica a cura di Lidia Ianuario – Blogger e Social Media Marketing Specialist / CM in Sociologia
Questa è ‘nata storia, sì. Tutta un’altra storia. Mi risveglio in terapia intensiva, con addosso solo il mio camice e richiedo di assaggiare il caffè, scherzando sulla sua provenienza. Con lo spazzolino da denti, sterilizzato di tutto punto, mi strofinano i denti: ”Non può bere, Signora Ianuario. Lidia, si chiama Lidia, vero?” chiede una voce a me non nota, eppure apparentemente così familiare. Caldo, sento caldo: per l’operazione, lunga, lunghissima, che ha alterato le mie percezioni, e per quella voce, che mi trasmette appunto tepore. Mi lascio cullare, per una volta. Straordinariamente accetto l’aiuto altrui, io – Lidia Ianuario – poco o per nulla abituata a chiedere, grazie agli insegnamenti di mia madre che, fin da piccola, periodo in cui lei lavorava più di mio padre, mi ha insegnato ad essere autonoma. Ritorno al ricordo di quella voce, ora, dal mio ateneo, dove digito, e sorrido.
Affrontare la disabilità sdrammatizzando, è stato questo il mio punto di forza. Con ironia, sì, e con estrema fiducia, anzi, con abbandono. Completamente paralizzata dal collo in giù, con la possibilità, sebbene attenuata, di poter muovere gli arti superiori, pian piano mi rendo conto che è un’abilità, seppur latente, ancora presente. Sentire, tutta un’altra cosa. La mia amica mi accarezza le gambe, io avverto bruciore. In tutte quelle coccole – chi mi massaggia con una crema fitoterapica, chi con un olio, chi mi tocca e basta, chi ha paura per evitarmi il disagio di scoprire quanto si sia alterato il tatto – la sensazione che provo è apparentemente negativa.
Poi, conosco lui, di un Paese povero, brasiliano, ma anche tanto gioioso, e lo avverto, quel calore tanto agognato, tramite le sue mani, come un cioccolatino che si ingoia lentamente e non si vuole mandar giù, mentre la gianduia si scioglie naturalmente in bocca. Qualcosa non quadra e più che mettermi in crisi mi stupisce piacevolmente. Raramente amo essere ignara di quel che accade, la mia razionalità mi porta a trovare sempre una spiegazione a tutto, eppure non c’è.
Questo è il testamento della scoperta della mia ritrovata sessualità.
Posso sentire, anche se solo una persona.
Lo conosco in un giardinetto, lì al centro di riabilitazione, col suo cappellino, messo di traverso, e la gamba poggiata su una panchina. Lo sguardo rivolto davanti, la sigaretta in mano, spenta. Iniziamo a parlare con una delle mie solite battute goliardiche, e se ci penso ora rido a crepapelle, perché lo scambio per qualcun altro. Lui è solo, il calar del sole accompagna la nostra conoscenza e in un battibaleno è già sera. La cena è in stanza da un pezzo. A noi non importa, ci inondiamo della nostra reciproca voglia di andare oltre la nostra sofferenza.
Tutto tace intorno. Intorno, sì, e fuori. Dentro di me, il caos: lui lo intuisce, forse, e mi guarda accondiscendente, come a dire :”Sii serena”, piuttosto che ”Non preoccuparti”. Allora comprendo. Mi guardo intorno, osservo le case in lontananza, il cielo rosso che diventa violaceo e lo fisso negli occhi. Così ho affrontato la mia sessualità: dritta negli occhi, come fosse una persona in carne ed ossa, solo che è, ed era, una parte di me. Da sfiorare, come i miei polpastrelli su questa tastiera, o come i suoi, dopo, in camera, mentre mette a dura prova tutte le mie certezze. Il tatto non mi ha abbandonato.
“Vieni con me, la strada giusta la troviamo […],Portami in alto come gli aeroplani /Saltiamo insieme, vieni con me /Anche se ci hanno spezzato le ali [.. ]”. Le mie ali sono queste parole: vieni con me, sorvoliamole insieme, su questo blog.
Rubrica a cura di Lidia Ianuario – Blogger e Social Media Marketing Specialist / CM in Sociologia
Sei settembre duemiladiciassette. Voglio scriverla per esteso, questa data, perché in me lascia ancora oggi un segno indelebile. Mia madre mi racconta di un neurochirurgo che, madido di sudore, invoca Dio dopo ben otto ore di operazione. Dodici punti, come gli apostoli. Li porto con dignità, come la mia disabilità, chiedendomi se la vita ci riserva sorprese inaspettate a noi “combattenti”, come la canzone di Fiorella Mannoia che mio zio mi invia alle tre di notte, l’unica in cui, ignara di essere paralizzata dal collo in giù, cerco di muovere le gambe, rigide, senza riuscirci, e vado in crisi.
Sì, non sono nata così: sono grata per questa mia condizione. Oggi posso perfino nuotare, il tumore al midollo spinale ha leso molte funzioni neuromotorie, tante riprese. Nessuno crede in me, in quel periodo. Nemmeno il mio neurochirurgo, solo una fisioterapista: con lei inizia la sfida maggiore della mia vita. Riabilitare il mio corpo.
Passo dopo passo, letteralmente parlando, da più di una sedia a rotelle fino alla piscina, dove mi sento parte dell’acqua calda, che mi accarezza il corpo. Come un bambino, riprendo a essere eretta e a camminare. Tante azioni compiute nella vita quotidiana sembrano scontate. Per molti, sono un modo per superare i propri limiti.
Una come me, abituata a una vita dinamica, sempre di corsa tra un corso universitario e un’attività di volontariato, tra una lezione di fitness e una videochiamata su Skype, costretta a rimanere a letto. Una che si batte per le barriere di ogni tipo, da quelle culturali a quelle architettoniche, che sogna dei media accessibili a tutti, senza quei capchta che rendono difficoltoso un commento a un cieco o che lavora in un consorzio di cooperative e riesce ad avere servizi RAI perché i suoi progetti piacciono; una, infine, che esce senza appuntamenti prefissati, basta una telefonata e si getta al volo in una nuova avventura, che se ne fa di una vita così?
Due le alternative: accettare la realtà o sognare. Mi accingo a scegliere la seconda. Invece di quaranta minuti di riabilitazione, ben due ore, ogni giorno, sabato e domenica compresi. In meno di sei mesi – solo tre – esco dal centro della Fondazione Maugeri di Telese Terme, in Campania, centro d’eccellenza, con le mie gambe e il soprannome di “Freccia Rossa”.
In ospedale metto a soqquadro l’intero reparto, con feste ogni sera e la richiesta di non essere messa a letto alle sette di sera. Rivoluziono tutto. Alla fine, vinco. Mi presento al dottor De Falco, Primario del Reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale “Santa Maria delle Grazie” in località La Schiana, a Pozzuoli, senza nemmeno un bastone. Lui stenta a crederci.
Bisogna avere un desiderio che diventa missione di vita: il mio è scrivere. Eccomi qui, allora, con una rubrica su donne, sessualità e disabilità, perché la prima battuta una volta operata è :”Ho gli impulsi sessuali. Tutto a posto, dottore”, con lui che risponde :”Ianuario, ci manca solo un uomo. Come lo vuole?”. “Ironico, intelligente e aitante”, la mia risposta.
Ogni mattina, quindi, le infermiere e assistenti socio-sanitarie sanno che devo lavarmi, improfumarmi, abbinare lo smalto delle dita delle mani e dei piedi al mio pigiama pulito e al mio ventaglio.
Questa è ‘nata storia, come diceva Pinuccio, noto cantautore partenopeo. Al prossimo racconto, per affrontare, tramite la mia testimonianza, un tema troppo poco trattato.
Pudore? Assenza di una giusta e corretta informazione? Poco importa, è giunto il momento di preoccuparsi dell’affettività di noi donne disabili, perché l’una è legata all’altra. Insieme, per il diritto di amare. Iniziando da questa rubrica e dalla pagina Facebook.
Buon viaggio, lo sarà questa serie di articoli, nel vasto mondo della disabilità.
Una Rubrica a cura di Angiola Rotella – Presidente Insieme per l’Autismo ONLUS
La crisi politica che stiamo vivendo in questo periodo, che speriamo si risolva al più presto, ci mette nelle condizioni di dover constatare che, ancora una volta e con una ennesima scusa, la disabilità continua inevitabilmente ad essere trascurata.
La speranza è ormai il sentimento motore delle persone che vivono questa condizione ed è un sentimento che fa credere che, presto o tardi, si esca da questo anonimato forzato e si riconquisti quella dignità che purtroppo continua ad essere calpestata dalle innumerevoli priorità che, evidentemente, non tengono conto del diritto alla vita negato alle persone con disabilità ed ai caregiver per naturale conseguenza.
Infatti oggi voglio soffermarmi sulla figura “disgraziata” del caregiver. E’ stato pubblicato, infatti, pochi giorni fa, su G.U., il decreto ed il riparto delle risorse relative al triennio 2018/2019/2020 destinate alle regioni che devono utilizzarle per “interventi di sollievo” ai caregiver familiari. La cosa mi preoccupa molto, se si tiene conto di quanto già evidenziato prima. Proprio perché in un momento di totale assenza dello Stato, gli interventi di sollievo potrebbero essere molto distanti dai reali bisogni dei caregiver che mai come oggi si traducono in “emergenza economica”.
Tocca fare molta attenzione a come le regioni intendono interpretare il decreto in questione perché di avvoltoi sulle spalle dei disabili e delle loro famiglie ce ne sono già abbastanza. A tal proposito numerose associazioni a tutela dei diritti delle persone con disabilità e loro famiglie si sono già premurate di chiedere incontri alle relative regioni per poter insieme individuare i percorsi migliori.
Sarà sufficiente? Essendo direttamente coinvolta, in quanto io stessa caregiver, mi auguro che si tenga conto del momento storico che si sta attraversando e di tutte le relative ripercussioni a danno dei caregiver. E’ stato ed è tuttora molto duro occuparsi dei propri cari con disabilità al tempo del covid. E’ necessario uno sforzo in più per entrare davvero nelle case delle persone con disabilità e rendersi conto delle infinite sfumature che rappresentano i giorni difficili che viviamo. Il mio personale augurio di potervi dare al più presto, buone notizie.
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Come sapete ieri sono stato tra gli ospiti del Taobuk Festival, festival letterario internazionale che si svolge nella città di Taormina, per presentare il mio libro Noi Siamo Immortali. È stata per me una grande occasione quella di poter far conoscere la mia storia in un consesso importante all’interno di un evento che ha visto la partecipazione di personaggi illustri della letteratura mondiale ma non solo, come ad esempio la partecipazione di premi Nobel o di autorità istituzionali di caratura europea e per questo ringrazio tutta l’organizzazione per l’invito e le persone che hanno fatto si che io potessi essere presente all’evento. Taormina è certamente una delle città della nostra Sicilia tra le più belle e caratteristiche sia per il paesaggio che per la propria architettura di origine, basti pensare al celeberrimo Teatro Antico di epoca romana, ma proprio per questo non è molto a misura per chi vive con una disabilità motoria. Lo dico perché, seppur velocemente, non voglio sottrarmi nel riportare che ci sono stati dei problemi legati all’accessibilità della sala messa in programma per la mia presentazione tanto che poi si è dovuto provvedere a un cambio della location. Lo racconto con l’auspicio che la cultura della disabilità sia sempre più presente anche nell’organizzazione degli eventi che possano essere sempre più accessibili e fruibili per le persone con disabilità.
La mia giornata inizia presto la mattina per prepararmi al viaggio nel migliore dei modi, accompagnato dalla mia famiglia, da un assistente e da un carissimo amico. Dico viaggio non a caso perché da Palermo, anzi da Misilmeri dove vivo ci sono ben tre ore di strada da fare. Conoscevo già Taormina essendoci stato altre volte quindi sapevo bene o male quali zone sono per me più accessibili e percorribili ed effettivamente quando si percorre tutto corso Umberto a piedi e si arriva al belvedere la vista è bellissima e mozzafiato, che anche la stanchezza passa.
La presentazione del libro è stata molto bella, molto partecipata e molto ben condotta dalla giornalista Alessandra Fassari che ha svolto l’intervista. È stata una presentazione diversa dalle altre fin qui svolte, sono stati affrontati temi importanti come quelli che considero dei tabù nel mondo della disabilità quali lavoro e sessualità, anche dal punto di vista delle donne. Anzi la giornalista ha anche proposto agli organizzatori di prevedere delle sessioni ad hoc nelle edizioni successive del festival. Ma Noi Siamo Immortali ha anche dato modo di parlare di tanti altri argomenti, dalla scuola e al rapporto con gli studenti negli incontri che ho fatto insieme a loro, al rapporto con le Istituzioni e la classe politica, alle battaglie per il riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità, alla difficoltà di trovarsi ad avere a che fare con la presenza di barriere architettoniche ma anche mentali e culturali, il tutto per arrivare a parlare di cosa significa vivere in una società inclusiva. Sono state altresì interessanti le domande che sono venute dal pubblico presente, la saletta era effettivamente piena, stimolato dai vari temi e che hanno permesso di aggiungere ulteriori punti di vista. Tra l’altro mi hanno riferito di essere stata una delle presentazioni più partecipate il che, oltre a farmi piacere, denota cose ci sia la necessità di parlare di disabilità e di farlo in una maniera costruttiva e penso che il modo migliore sia fare conoscere le storie delle persone e di proporre alle persone un approccio più laico e più civico che non sia dipendente solo da ciò che arriva dalla politica, dal delegare a qualcun altro la risoluzione dei problemi e che tutto questo possa creare una rete di sostegno affianco a chi vive una disabilità che deve essere considerata essenzialmente come risorsa.
Sul mio profilo pubblico Facebook potete vedere tutta la diretta della presentazione e poter quindi partecipare, anche se a posteriori, alla discussione e sentire in che modo sono stati sviluppati i vari temi.
«I giovani di oggi sono molto sensibili, curiosi e partecipi. Nella loro formazione culturale la scuola è fondamentale. I bambini sono i più forti di tutti, uno di loro disse ‘Papà, c’è Iron Man’». #Taobuk10#TaorminaBookFestival@DrKing77pic.twitter.com/CIfokx1ktb