Sesso e disabilità: come abbattere un tabù al quadrato

Troppo spesso le persone diversamente abili vengono automaticamente considerate «asessuate» e addirittura prive di normali pulsioni sessuali. Con il suo approccio trascinante e innovativo, la sessuologa Anna Castagna è diventata a questo riguardo una figura di spicco nel campo della divulgazione sex positive. L’abbiamo intervistata per capire il problema culturale ma, soprattutto, per diffondere soluzioni

Oggi in Italia il 5,2% della popolazione vive una qualche forma di disabilità. Si tratta di oltre tre milioni di persone che oltre alla loro condizione patiscono numerose difficoltà aggiuntive e ingiustificate. Dalle barriere architettoniche alla sottorappresentazione politica e mediatica, dalle discriminazioni sociali a quelle sessuali. Molto spesso una persona diversamente abile viene infatti automaticamente considerata «asessuata». A colpirla non è infatti solo il pregiudizio che gli unici partner desiderabili siano quelli che assomigliano ai protagonisti delle pubblicità; il nostro condizionamento culturale ci convince che non abbiano nemmeno pulsioni erotiche, desideri o fantasie sessuali che fanno invece parte della vita di qualsiasi essere umano.

Se a questo punto pensate però di sapere già tutto sull’argomento, a farvi cambiare idea sarà Anna Castagna. Sessuologa, modella fetish, una laurea in Scienze dell’Educazione, un’altra in Scienze e Tecniche Psicologiche e – come dice lei – «ah già: sono anche disabile». Il suo approccio trascinante e innovativo l’ha resa una figura di spicco nel campo della divulgazione sex positive. Invita a considerare il sesso un’avventura entusiasmante anziché un fardello da gestire nonostante tutto. Anziché concentrarci solo sul problema, l’abbiamo intervistata per parlare di soluzioni, che spesso sono più semplici di quel che si potrebbe immaginare.

La prima domanda è inevitabile: quanto è ancora tabù la sessualità delle persone disabili in Italia? C’è qualche differenza sostanziale dal resto d’Europa o del mondo?

«Pensiamo a quanto sia ancora un tabù la sessualità in generale in Italia e immaginiamoci quanto possa esserlo se intrecciata a un tema come quello della disabilità! Io direi: “tanto”. Legato a tutto ciò che vortica intorno al tema della sessualità c’è un grossissimo tabù tanto quanto verso il mondo della disabilità. Unire i due temi crea un vero e proprio “tabù al quadrato”, che per essere superato richiede un lavoro di “decostruzione al quadrato”. Escludendo quelle nazioni in cui il sesso rimane un argomento ancora tutto da sdoganare, l’Italia è ancora molto indietro rispetto, per esempio, a molti stati del nord Europa che si sono mossi e hanno attivato progetti per garantire a tutti il diritto alla sessualità».

La seconda è altrettanto obbligatoria: perché? Da cosa dipende questa situazione?

«Quando parlo di “tabù al quadrato” intendo che la disabilità viene considerata spesso e volentieri solo come condizione patologica, ossia una malattia che eclissa totalmente l’identità dell’individuo. Si tende a vedere la sedia a rotelle, la difficoltà cognitiva, la difficoltà motoria e non Luca, Sara e Andrea con le loro identità e le loro storie. La disabilità è tutt’altro: è una condizione che fa sicuramente parte della vita della persona ma non è la persona stessa – e ancor meno possiamo considerare la persona una patologia. Superato questo primo equivoco sul tema della disabilità, dobbiamo adottare una prospettiva bio-psico-sociale cominciando a osservare la persona come tale, con la sua storia, la sua identità e i suoi diritti.In questo modo possiamo imparare a decostruire e rompere tutti gli stereotipi legati al mondo della disabilità, fra cui: «al disabile non interessa il sesso», «le persone con disabilità mentale sono bambini privi di impulsi», «il disabile non è una persona in grado di svolgere attività sessuale»…

Si tratta di iniziare a pensare come alcune difficoltà possano incontrarsi con le esigenze e i desideri dell’individuo. Così come esistono stereotipi sul mondo della disabilità, ne esistono anche sul mondo della sessualità. Anch’essa andrebbe quindi colta in tutte le sue sfumature bio-psico-sociali, così da sganciarla da una visione puramente riproduttiva, penetrativa e genitale. Tutto questo preambolo era necessario per poter comprendere perché la mia risposta alla domanda sul perché è che questa situazione dipende da un errore di sguardo. Prima riusciremo a decostruire il concetto di disabilità e di sessualità che abbiamo in testa, e prima potremo offrire a tutti il diritto alla sessualità».

Anna Castagna
Ma proprio non esiste alcuna iniziativa istituzionale per sdoganare l’argomento?

«Per fortuna qualcosa c’è, come l’associazione Lovegiver che oltre a difendere il diritto alla sessualità per le persone disabili sta cercando di rendere legale anche in Italia la figura dell’assistente sessuale. Si tratta di una figura professionale molto equivocata, ma l’assistenza sessuale è un percorso che permette alla persona diversamente abile di vivere e sperimentare il proprio corpo, entrando in contatto con la propria vita intima, i propri limiti e il proprio orizzonte affettivo ed erotico in modo dignitoso e consapevole».

E dire che basta davvero poco per eliminare i pregiudizi… Mi viene in mente un suo workshop di un paio d’anni fa, basato su un semplice gioco. Le va di raccontarlo?

«Ma certo! Questo esercizio riguarda in particolare la disabilità fisica. Quando parlo di questo tema amo molto far parlare l’esperienza diretta sul proprio corpo, che credo sia il miglior modo di decostruire tutti i muri e le paure che ci portiamo dentro. In pratica chiedo ai partecipanti di pescare casualmente un biglietto su cui è indicato un limite fisico. Poi faccio loro ricreare quel limite – per esempio immobilizzando una parte del corpo o bendando gli occhi – e creo coppie di “disabili” alle quali chiedo di vivere un’esperienza sensoriale. L’obiettivo è sperimentare il limite e le possibilità del nuovo corpo, ma allo stesso tempo di ascoltare le paure e le emozioni che nascono.

Oltre a permettere loro di provare il concetto di limite, la cosa più importate è che possano sperimentare quello di possibilità, scontrandosi con paure, dubbi e perplessità. Infatti è proprio partendo da queste che si riconoscono i tabù, ed è proprio partendo dai dubbi che i tabù si possono sradicare. La sessualità non è un pacchetto consegnatoci come un abito prêt-à-porter. Si tratta più di un abito di sartoria che va cucito su misura dell’individuo, e ogni individuo può cucire il proprio».

Torniamo a parlare di sesso, escludendo il capitolo delle disabilità cognitive che inficiano il concetto di ‘consenso’ alla base di ogni sessualità sana. L’incontro con corpi fuori dagli standard, o con esigenze particolari, può essere oggettivamente difficile perché non si sa come gestirli – anche solo nel chiedere indicazioni al riguardo. Cosa suggerisce di fare per superare questo ostacolo?

«Ritengo che questa considerazione possa essere estesa a ciascuno di noi. Siamo tutti diversi, e come dicevamo prima la sessualità è un abito cucito su misura – quindi la sacrosanta risposta a questa domanda è: serve dialogo. Ascoltare l’altro ci aiuta a capire le sue reali esigenze o difficoltà senza proiettare ciò che noi “crediamo rispetto alla sua situazione”. Dialogo e ascolto sono alla base di ogni rapporto sano ed equilibrato».

L’altro lato della questione è rappresentato dalla “fame di affetto” di alcune persone disabili. Pur di essere considerate anche per il loro lato sessuale rischiano brutte ricadute emotive per avere abbassato troppo i loro criteri di consenso. Cosa pensa di questo fenomeno?

«Anche questo fenomeno deriva da un concetto di stereotipo interiorizzato che colpisce in egual modo persone “normodotate” e persone diversamente abili. La risposta a tutto questo è una formazione al sesso e all’affettività che comprenda tutti, e che insegni a considerare la sessualità e la vita di ogni individuo nella sua unicità e complessità. Il primo passo verso un futuro di uguaglianza e pari diritti consiste nel farsi domande come queste e decostruire gli stereotipi. Tutti».

(vanityfaire.it)

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