
Sei settembre duemiladiciassette. Voglio scriverla per esteso, questa data, perché in me lascia ancora oggi un segno indelebile. Mia madre mi racconta di un neurochirurgo che, madido di sudore, invoca Dio dopo ben otto ore di operazione. Dodici punti, come gli apostoli. Li porto con dignità, come la mia disabilità, chiedendomi se la vita ci riserva sorprese inaspettate a noi “combattenti”, come la canzone di Fiorella Mannoia che mio zio mi invia alle tre di notte, l’unica in cui, ignara di essere paralizzata dal collo in giù, cerco di muovere le gambe, rigide, senza riuscirci, e vado in crisi.
Sì, non sono nata così: sono grata per questa mia condizione. Oggi posso perfino nuotare, il tumore al midollo spinale ha leso molte funzioni neuromotorie, tante riprese. Nessuno crede in me, in quel periodo. Nemmeno il mio neurochirurgo, solo una fisioterapista: con lei inizia la sfida maggiore della mia vita. Riabilitare il mio corpo.
Passo dopo passo, letteralmente parlando, da più di una sedia a rotelle fino alla piscina, dove mi sento parte dell’acqua calda, che mi accarezza il corpo. Come un bambino, riprendo a essere eretta e a camminare. Tante azioni compiute nella vita quotidiana sembrano scontate. Per molti, sono un modo per superare i propri limiti.

Una come me, abituata a una vita dinamica, sempre di corsa tra un corso universitario e un’attività di volontariato, tra una lezione di fitness e una videochiamata su Skype, costretta a rimanere a letto. Una che si batte per le barriere di ogni tipo, da quelle culturali a quelle architettoniche, che sogna dei media accessibili a tutti, senza quei capchta che rendono difficoltoso un commento a un cieco o che lavora in un consorzio di cooperative e riesce ad avere servizi RAI perché i suoi progetti piacciono; una, infine, che esce senza appuntamenti prefissati, basta una telefonata e si getta al volo in una nuova avventura, che se ne fa di una vita così?
Due le alternative: accettare la realtà o sognare. Mi accingo a scegliere la seconda. Invece di quaranta minuti di riabilitazione, ben due ore, ogni giorno, sabato e domenica compresi. In meno di sei mesi – solo tre – esco dal centro della Fondazione Maugeri di Telese Terme, in Campania, centro d’eccellenza, con le mie gambe e il soprannome di “Freccia Rossa”.
In ospedale metto a soqquadro l’intero reparto, con feste ogni sera e la richiesta di non essere messa a letto alle sette di sera. Rivoluziono tutto. Alla fine, vinco. Mi presento al dottor De Falco, Primario del Reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale “Santa Maria delle Grazie” in località La Schiana, a Pozzuoli, senza nemmeno un bastone. Lui stenta a crederci.
Bisogna avere un desiderio che diventa missione di vita: il mio è scrivere. Eccomi qui, allora, con una rubrica su donne, sessualità e disabilità, perché la prima battuta una volta operata è :”Ho gli impulsi sessuali. Tutto a posto, dottore”, con lui che risponde :”Ianuario, ci manca solo un uomo. Come lo vuole?”. “Ironico, intelligente e aitante”, la mia risposta.
Ogni mattina, quindi, le infermiere e assistenti socio-sanitarie sanno che devo lavarmi, improfumarmi, abbinare lo smalto delle dita delle mani e dei piedi al mio pigiama pulito e al mio ventaglio.
Questa è ‘nata storia, come diceva Pinuccio, noto cantautore partenopeo.
Al prossimo racconto, per affrontare, tramite la mia testimonianza, un tema troppo poco trattato.
Pudore? Assenza di una giusta e corretta informazione? Poco importa, è giunto il momento di preoccuparsi dell’affettività di noi donne disabili, perché l’una è legata all’altra. Insieme, per il diritto di amare. Iniziando da questa rubrica e dalla pagina Facebook.
Buon viaggio, lo sarà questa serie di articoli, nel vasto mondo della disabilità.